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CAPITOLO 5° - IL REGOLAMENTO CONTRATTUALE E LA SUA ATTUAZIONE
1. Il contenuto del contratto
Mediante il contratto e i suoi effetti, le parti intendono porre in essere quel determinato assetto di interessi che l’art.
1322 c.c. definisce “contenuto del contratto”, cioè l’insieme degli accordi sugli obblighi e diritti reciproci, sulle loro
modalità di esecuzione e via dicendo. Tale modalità concreta di sistemazione degli interessi delle parti può essere
definita anche come “regolamento contrattuale”. Naturalmente, questo meccanismo di sistemazione degli interessi
rimane affidato, ancor più che alle clausole contrattuali intese in senso statico, alla loro attuazione in senso materiale,
al modo di esecuzione del contratto. Può accadere che si verifichi uno scostamento dal programma originariamente
pattuito, sia in virtù di elementi patologici che di disaccordi interpretativi o, ancora, per ineluttabili necessità
materiali, specie nei c.d. contratti di durata. È però da sottolineare che, in merito ai contratti dei consumatori, questa
possibilità di progressivo scostamento dall’accordo iniziale in maniera unilaterale da parte del professionista, viene
ex lege considerato come un’ipotesi di clausola vessatoria, dunque nulla, salva la possibilità di recedere da parte del
consumatore.
2. L’interpretazione del contratto
Sia che si tratti di conclusione verbale che scritta, il contratto ha la funzione ineludibile di manifestare esternamente
la volontà delle parti consacrata nell’accordo. Questa volontà viene oggettivizzata in un regolamento contrattuale
ed è a quest’ultimo che occorrerà fare riferimento, in vigenza del contratto, ai fini dell’esecuzione, soprattutto in
prospettiva di una possibile divergenza interpretativa delle clausole.
Tutto questo significa che il contratto andrà interpretato, sottoposto cioè ad un’interpretazione ermeneutica
finalizzata alla ricostruzione dell’intento che la volontà delle parti intendeva perseguire mediante il contratto
medesimo. Tale operazione sarà demandata al giudice, il quale dovrà seguire i criteri dettati dall’art. 1362 e ss. c.c.
per “indagare”, alla luce degli elementi indicati dalla legge, la comune volontà delle parti. Tale identificazione della
volontà dei contraenti costituisce un accertamento di fatto che il giudice di merito effettua per stabilire una realtà
concreta e obiettiva. Questi potrà seguire il metodo che più ritiene idoneo ma, secondo un orientamento costante,
dovrà quantomeno rispettare il c.d. principio del gradualismo, in base al quale potrà farsi ricorso ai criteri sussidiari
c.d. obiettivi, soltanto laddove quelli soggettivi risultino insufficienti (artt. 1362-1365 c.c.); tutto ciò significa che la
decisione del giudice potrà essere censurata sia a causa del mancato rispetto del criterio gradualistico che per
illogicità o incoerenza nella scelta di quegli stessi criteri.
Occorre però fare delle precisazioni: anzitutto l’idea secondo cui il giudice dovrebbe potersi arrestare al senso
letterale delle parole del contratto viene smentita dallo stesso art. 1362, co. 1, il quale addirittura lo specifica
letteralmente. Tale criterio ermeneutico non si ricollega solamente alle disposizioni delle norme seguenti del codice
ma, soprattutto, a quella del co. 2 dello stesso articolo, a mente del quale, per determinare la volontà dei contraenti,
bisogna tenere conto del loro comportamento anche successivo alla conclusione del contratto. Ed è proprio in
relazione all’eventuale chiarezza e non ambiguità di tale condotta che occorre compiere la ricostruzione della
volontà espressa nel contratto.
Secondo quanto afferma la Cassazione, sarebbero tre le possibili modalità interpretative del contratto: anzitutto può
esservi una perfetta coincidenza fra la lettera dell’accordo e l’intenzione delle parti, nel qual caso non occorrono
altre attività ermeneutiche. Potrebbero invece essere inequivocabili le intenzioni delle parti ma non il testo del
contratto ma nemmeno quest’ipotesi crea problemi, giacché occorre privilegiare il contegno dei contraenti rispetto
al testo negoziale. Il problema sorge in caso di chiarezza del contratto e incoerenza della condotta delle parti e, in
questi casi, l’attività interpretativa segue un movimento, per così dire, circolare; occorre anzitutto partire dal testo
contrattuale e, da questo, risalire al suo coordinamento con la causa del contratto, con le dichiarazioni d’intento
delle parti, sperando di riuscire a stabilire un collegamento armonico.
Passando ai criteri ermeneutici fissati dalla legge, serve partire dal necessario coordinamento fra il tenore letterale
di una clausola con l’altra, onde stabilire il significato generale (art. 1363 c.c.); dovranno poi essere ricondotte al caso
concreto, sia le espressioni generali (art. 1364) che le indicazioni esemplificative (art. 1365). Questi i criteri c.d.
soggettivi, cioè quelli che tentano di permettere di enucleare dal testo la volontà delle parti; ad essi può essere
ricondotto anche quello di cui all’art. 1362, co. 2, relativo al contegno delle parti.
Prescindendo dal criterio (intermedio) della buona fede, si passa poi ai criteri c.d. oggettivi, vale a dire basati su
elementi esterni al contratto o, addirittura, in applicazione di regole che potrebbero prescindere completamente
dall’interpretazione fornita dalle parti. Oggettiva ma aderente alla volontà delle parti è la regola dell’art. 1367, la
quale impone al giudice di prediligere l’interpretazione che preservi la validità del contratto. In caso di ambiguità di
una o più clausole, interviene l’art. 1368, co. 1 e 2, in base al quale si farà riferimento alla prassi negoziale del luogo
di conclusione del contratto, ovvero, qualora una delle parti sia un imprenditore, del luogo in cui ha sede l’impresa.
Sono le regole della c.d. lex mercatoria. Diversamente, la regola dettata dall’art. 1369 trae origine dall’interno del
contratto, giacché afferma che, in caso di dubbio, occorre fare riferimento al significato più conveniente rispetto alla
natura e all’oggetto del contratto. Prescinde o, talora, contraddice il criterio della comune volontà delle parti, il
principio per cui, in caso di ambiguità di una clausola, si addebiti alla parte che l’ha predisposta la responsabilità di
tale incertezza; tale regola trova un’espressa enunciazione negli artt. 1341 e 1342 relativamente ai contratti conclusi
mediante moduli e formulari e che, nei contratti dei consumatori, viene ribadita e ampliata dall’art. 35 cod. cons.,
giacché si prescinde dal fatto che si verta nel caso di contratti conclusi sulla base di condizioni generali o di moduli
e formulari: prevarrà comunque l’interpretazione favorevole al consumatore.
Ancora avulse dalla volontà delle parti sono le regole dell’art. 1371, destinate ad intervenire in via sussidiaria quando
tutti gli altri criteri risultino insufficienti. In questo caso, le parti dovranno attenersi al principio di non aggravamento
della posizione dell’obbligato, nel contratto a titolo gratuito, e dell’equo contemperamento dei loro interessi nei
contratti a titolo oneroso.
Resta poi un criterio intermedio, quello di cui all’art. 1366 c.c., secondo il quale il contratto deve essere interpretato
secondo buona fede; concetto spesso ricollegato a quello della buona fede in sede di esecuzione ex art. 1375 e,
mediante il quale, la giurisprudenza ha progressivamente arricchito il contenuto degli obblighi scaturenti
dall’accordo. Si tratta, ancora una volta, del principio di buona fede oggettiva (lealtà e correttezza). Secondo la
Cassazione, tale principio rappresenterebbe, come canone ermeneutico, un anello di congiunzione fra la ricerca della
reale volontà delle parti e la persistenza di un dubbio sulla volontà contrattuale. Questo significa che il giudice, una
volta rivelatisi infruttuosi i tentativi fondati sui criteri soggettivi di cui agli artt. 1362-1365 c.c., piuttosto che passare
ad un’interpretazione basata sui criteri c.d. esterni, potrebbe ricostruire la volontà delle parti in virtù del significato
che esse avrebbero ragionevolmente potuto attendersi da una negoziazione leale e che, di conseguenza, sarebbe
sfociata in quella clausola specifica.
Tale attribuzione di significato alla clausola di buona fede, finisce inevitabilmente per arricchire il contenuto del
contratto di un elemento ulteriore e questo comporta la riproposizione dell’antico problema del confine fra
interpretazione e “integrazione” del contratto secondo buona fede. È vero che già il riferimento ai c.d. criteri esterni
finisce sempre per condurre ad una riformulazione del regolamento contrattuale in un modo non del tutto aderente
alla volontà delle parti. Mediante l’uso del canone della buona fede, tale risultato diviene ancor più evidente, proprio
perché ricostruisce diritti ed obblighi delle parti secondo quanto avrebbero dovuto aspettarsi l’un l’altra alla luce di
questo principio di lealtà e correttezza, potendosi addirittura spingere ad una ricostruzione basata su ciò che esse
avrebbero dovuto volere ma, magari, non hanno previsto. Tutto questo contribuisce ad assottigliare il confine tra
interpretazione e integrazione ma bisogna ricordare che tale operazione ermeneutica del giudice viene sempre
attuata in aderenza con l’intento dei contraenti, non potendo egli piegare il contratto ad una interpretazione fondata
su elementi palesemente estranei.
3. Il controllo “esterno” del regolamento contrattuale: le norme imperative e l’inserimento automatico di
clausole e prezzi
Fenomeno inverso è quello della c.d. integrazione cogente, espressione di una limitazione che la legge impone
all’autonomia privata relativamente al contenuto del contratto. Un primo esempio di controllo esterno del contratto
è quello causale, che sanziona l’assenza o l’illiceità della causa. Diverso è il fenomeno dell’integrazione cogente, la
quale non si limita ad impedire la produzione di determinati effetti ma, addirittura, ne impone la produzione di altri,
anche contro la volontà dei privati: alla clausola nulla, ad esempio, si sostituisce quella legale prevista da una norma
imperativa (c.d. inserzione automatica di clausole ex art. 1339 c.c.).
Non rientra a pieno titolo nel concetto di integrazione cogente la regola di cui all’art. 117, co. 1, lett. b), t.u.b. per cui
le clausole contrattuali inserite nei contratti fra banca e cliente che rinviano agli usi o fissano tassi, prezzi e
condizioni più sfavorevoli per il cliente rispetto a quelle pubblicizzate, vengono sostituite con quelle pubblicizz