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L
seguente formula: M = Log(A/T) + f(D,h) + C + C
L s r
Nella quale A e T sono rispettivamente l’ampiezza e il periodo del segnale al sismografo, D la
distanza dell’epicentro, h la profondità dell’ipocentro, C e C due fattori dipendenti dalle
s r
caratteristiche geologiche del sito della stazione di rilevamento e della regione attraversata dalle
onde. Nelle sue applicazioni ai terremoti della California, con ipocentri assai superficiali e distanze
epicentrali non superiori ai 600 km, Richter ha utilizzato una formula più semplice:
M = LogA + a⋅LogD + b
L
stata introdotta la “magnitudo (Mw),
Nel 1979 è momento” un parametro riferito al momento
sismico (M ), cioè ad una grandezza in grado di esprimere la quantità di energia liberata:
0 μ⋅A⋅L
M =
0
μ è la rigidità delle rocce, A l’area dello specchio di faglia
Nella quale coinvolta nel movimento ed L
lo spostamento medio avvenuto lungo la faglia stessa.
Il sisma più forte si è verificato nel 1960 a Valdivia nel Cile, dove ha raggiunto una Mw di 9,5.
Ogni anno nel globo si registrano milioni di terremoti, ma con magnitudo superiore a 7 ne abbiamo
solo una ventina [fig. 3.12].
Per l’Italia il sisma più violento è stato quello del 1693 nella Sicilia sud-orientale, con magnitudo di
7,4, seguito da quello di Messina del 1908 con Mw=7,2.
L’energia (espressa in erg) liberata nell’ipocentro viene valutata con la seguente espressione:
LogE= 1,5⋅M + 11,8
I concetti di magnitudo e intensità non vanno confusi.
→ è l’energia sviluppata dal terreno.
Magnitudo
→ è l’entità degli effetti sulle persone, sui manufatti e sull’ambiente.
Intensità
Per cui ogni sisma sarà classificato con un unico dato della magnitudo, ma darà luogo a valori
diversi dell’intensità nelle varie parti del territorio interessato; ci potremo attendere che nella zona
e che allontanandosi da essa i valori siano via
epicentrale si raggiungano i massimi dell’intensità
via discendenti.
La prima scala dell’intensità è stata fatta da verso la fine dell’Ottocento e successivamente
Mercalli
ne sono state proposte molte altre, tutte concettualmente simili.
→
– –
Scala MCS (Mercalli Cancani Sieberg) [tab.3.2] è frutto di una serie di aggiustamenti
apportati allo schema originale di Mercalli. →
Scala EMS (European Macroseismic Scale) è il frutto del lavoro effettuato dalla Commissione
sismologica europea ed è in uso dal 1998.
Entrambe sono articolate in 12 livelli, dal I, concernente le scosse rilevabili solo con gli strumenti,
al XII corrispondente ad una situazione apocalittica di totale distruzione di ogni manufatto.
è l’energia liberata nell’ipocentro e si quantifica secondo
Possiamo dire allora che la magnetudo
una scala di valori (la “scala l’intensità
Richter”); si riferisce invece al territorio colpito dal sisma e
viene stimata sulla base di 12 gradi (la “scala Mercalli”).
Queste due grandezze vengono correlate da questa formula:
M= 0,67⋅I + 1,0
max
Studi su terremoti superficiali hanno permesso di ricavare quest’altra formula:
M= 0,40⋅I + 1,69
max
L’uso delle scale dell’intensità hanno permesso anche di costruire le isosisme, il metodo di
rappresentazione cartografica dei vari gradi di intensità sismica nel territorio. Esse racchiudono
quindi le aree ove gli effetti sono stati dello stesso tipo [fig. 3.13].
Se l’ipocentro fosse puntiforme e la crosta terrestre perfettamente omogenea, le isosisme
che si allargano attorno all’epicentro; però in realtà
sarebbero delle circonferenze concentriche
hanno forme più complesse, in relazione alle condizioni geologico-tettoniche e possono essere a
forma di ellissi o in altri casi si presentano come curve variamente lobate [fig. 3.14].
Dalla configurazione delle isosisme si possono trarre informazioni sulla profondità dell’ipocentro.
In Italia l’INGV svolge un monitoraggio continuo, mediante oltre 300 sismografi [fig. 3.15].
poi un’ulteriore rete composta da 528 postazioni
Il Dipartimento della Protezione Civile gestisce
che valutano le sollecitazioni indotte dai terremoti sulle costruzioni e sulle infrastrutture.
In Italia sono stati censiti 13 terremoti distruttivi nel XX secolo, 13 nel XIX, 12 nel XVIII e 12 nel
XVII in tutto il periodo che va dal IV secolo a.C. fino alla fine del XVI vi è testimonianza di soli 33
eventi, circa 1/10 di quanti statisticamente si presume che si siano verificati.
È utile che le informazioni sulla storia sismica di un territorio vengano raccolte in appositi cataloghi
sismici, riportando i seguenti elementi:
• la data e l’ora dell’evento;
• la posizione dell’epicentro;
• la profondità dell’ipocentro;
• la zona ove è stata riscontrata la massima intensità;
• i valori presumibili del grado MCS nelle varie località interessate;
• la magnitudo (calcolata o stimata in base alla I );
max
• gli effetti sulle strutture e gli eventuali danni subiti dalle opere umane;
• gli effetti sulle persone (paura, panico o altro);
• o sull’idrografia;
le eventuali modificazioni indotte sulla morfologia
• certe conseguenze secondarie che si possono produrre (ad es. le frane);
• le fonti bibliografiche utilizzate;
• il livello di incertezza dei dati catalogati.
È molto raro che un terremoto superficiale si verifichi con una scossa isolata, quanto piuttosto
all’interno di una sequenza sismica; le sequenze possono essere di tipo diverso:
• →
Scossa principale repliche = alla prima scossa, sempre quella di magnitudo più
elevata, segue un ulteriore rilascio di energia mediante una serie di eventi di minore
intensità; numero e forza di queste repliche tendono a ridursi col passare dei giorni.
• → →
Scosse premonitrici scossa principale repliche = in questo tipo di sequenza la
scossa più violenta è preceduta da altre, deboli ed in numero sempre limitato.
• Sciame sismico = si registrano varie scosse, arealmente molto localizzate e di breve
durata, tra le quali non si può riconoscere un evento principale; in genere essi non sono
eccessivamente pericolosi.
• Scosse multiple = sono costituite da due o più episodi principali che avvengono in un arco
di tempo della durata anche di alcuni mesi; queste sequenze possono essere assai
pericolose.
La macrozonazione sismica si basa su valutazioni statistiche in merito alla probabilità che in una
certa area si manifesti un determinato livello di scuotimento del suolo.
In Italia il primo tentativo di classificazione risale al 1984 [fig. 3.18, in alto], ma nel 1998 venne
proposta una modifica [fig. 3.18, in basso] inquadramento dell’Italia.
Nei primi anni Duemila si è arrivati ad un completato Grazie ai valori
probabilistici di accelerazione calcolati dall’INGV, la Protezione Civile ha potuto stabilire la
classificazione attuale dei comuni italiani, secondo quattro classi di pericolosità [tab. 3.3]:
→ →
1) Pericolo elevato (possibilità di terremoti fortissimi) PGA > 0,25 comuni appartenenti a
Sicilia, Calabria, Basilicata, Puglia, Molise, Abruzzo, Campania, Lazio, Umbria, Marche e
Friuli [fig. 3.19]; → ≤
2) Pericolo medio (possibilità di terremoti forti) 0,15 < PGA 0,25
→ ≤
3) Pericolo basso (minore possibilità di terremoti forti) 0,05 < PGA 0,15
→ ≤
4) Pericolosità molto bassa (terremoti rari e poco forti) PGA 0,05
La microzonazione sismica riguarda aree ristrette e dipende da condizioni locali legate alla
topografia ed alla geologia dei singoli siti. La microzonazione, al contrario della macrozonazione,
deve tenere conto di tutte le possibili amplificazioni delle scosse e di altri fenomeni di pericolo,
come la liquefazione, che si potrebbe manifestare nei diversi luoghi [fig. 3.20]. →
In sede di microzonazione vi è la possibilità che certi terreni vadano in “liquefazione” «la perdita
totale di resistenza di terreni incoerenti saturi sotto sollecitazioni statiche o dinamiche, in
conseguenza delle quali essi raggiungono uno stato di fluidità pari a quello di una massa viscosa».
La liquefazione può avvenire anche durante un terremoto, infatti se il sisma ha intensità e durata
elevata, si può arrivare a una temporanea condizione di “galleggiamento” delle particelle solide
nell’acqua di falda. Gli effetti della liquefazione possono causare l’affondamento o il ribaltamento di
ottimi edifici antisismici, il cedimento di ponti e viadotti, il galleggiamento di serbatoi sotterranei, il
franamento di interi versanti, la formazione di fratture dalla quale fuoriesce grande quantità
d’acqua da allagare vaste zone e lo sconvolgimento della morfologia di aree fluviali, lacustri o
costiere.
Per valutare il pericolo di liquefazione bisogna considerare vari aspetti:
• i terremoti che producono liquefazione in aree pianeggianti sono caratterizzate da
magnitudo in genere superiore a 5,5. La durata dello scuotimento deve essere non inferiore
a 15 secondi.
• I terreni interessati sono costituiti da sabbie fini sciolte di granulometria uniforme, tali terreni
derivano da: depositi deltaici recenti, terreni di riporto, depositi palustri, meandri fluviali,
paleoalvei e terrazzi.
• La liquefazione in zone di pianura difficilmente si spinge a profondità di 15-20 metri.
I danni più antichi dovuti per la liquefazione riguardano il terremoto nel 373 a.C., che colpì il
Peloponneso, la città di Elice sparì con tutti i suoi abitanti senza lasciare alcuna traccia, in quanto
i terreni sabbiosi, sui quali era stata edificata, collassarono e scivolarono in mare. Altri due eventi,
riguarda il grande terremoto dell’Alaska
nel XX secolo, si hanno nel 1964, il primo (Mw 9,2) e si
registrarono enormi modificazioni del paesaggio. Il secondo riguarda la città di Niigata, in
Giappone (Mw 7,6), in cui si ebbero danni gravissimi alle infrastrutture viarie, il ribaltamento
completo di edifici e l’abbassamento del livello del suolo anche di due metri [fig. 3.23]. In Italia
fenomeni di liquefazione sismica (in modo meno catastrofiche) si sono verificate nel terremoto del
e quello dell’Irpinia
Friuli nel 1976 nel 1980, ma le manifestazioni assai più rilevanti sono
riconducibili al grande terremoto del 1783 in Calabria, in cui vi sono state fenditure, frane,
depressioni e movimenti della vegetazione anche ad alto fusto. Anche i terremoti