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Nell’apprendimento entra sempre in gioco una dimensione latente, di cui fanno parte
rappresentazioni, realtà fantasmatica, il passato relazionale e l’inconscio.
Educare deriva dal latino “ex ducere”, cioè portare fuori ciò che c’è dentro all’altro.
Il modello psicosocioeducativo è un procedimento per osservare, auto-osservarsi ed intervenire,
per produrre consapevolezza e favorire lo sviluppo di un senso del sé integrato (accettazione degli
aspetti positivi e negativi) e stabile. Una sua peculiarità è il fatto che non lavora solo sul piano
cognitivo, ma anche su quello affettivo.
I tre punti chiave del modello sono:
-il focus sulla vita intrapsichica del soggetto (emozione),
-l’analisi delle relazioni sociali del contesto in cui il soggetto è immerso (relazione),
-le scelte che favoriscono la crescita del soggetto, cioè come si può andare ad agire
concretamente per aiutare il soggetto in formazione (azione).
(È importante aiutare i soggetti in formazione a sviluppare un processo decisionale adeguato,
quindi non prendere le decisioni al posto loro, ma permettergli di capire come prendere una scelta,
qualsiasi essa sia. Però bisogna anche tenere in considerazione la dimensione affettiva: crescere
è un processo doloroso perché implica la perdita di alcune parti di sé, o comunque la rinuncia alla
possibilità di svilupparle. Non possiamo imparare a fare tutto, e quando prendiamo una direzione,
inevitabilmente rinunciamo ad altre alternative possibili).
Il termine “psico” fa riferimento allo studio della struttura della mente e alle difese inconsce, “socio”
all’attenzione per le dinamiche relazionali di gruppo, e “educativo”alla parte trasformabile che
esiste sempre in ogni persona e contesto collettivo.
Può essere considerato come un approccio olistico perché si tratta di prendersi cura di una
persona nella sua interezza, tenendo sempre in considerazione il contesto (familiare, scolastico ed
extrascolastico).
Un soggetto evolve in conformità all’ambiente educativo in cui cresce e perciò ogni suo disagio,
sintomo, criticità, va letto in chiave interpersonale: bisogna pensare al soggetto non come singolo,
ma come membro dei suoi gruppi di appartenenza. L’importanza del contesto si può ben
comprendere se teniamo in considerazione il fatto che l’identità personale si sviluppa a partire
dalla consistenza della rete di legami che la riconoscono, la contengono e la sostengono nel
tempo. Il legame di attaccamento alla madre porta alla costruzione di modelli operativi interni che
orientano le relazioni successive e le aspettative nei confronti degli altri, ma anche il senso di sé.
Quindi bisogna riconoscere che un rapporto non è mai duale, entrano sempre in gioco le
rappresentazioni dei legami tra i diversi adulti di riferimento che si hanno in mente.
Certamente questa è una visione più complessa delle cose, ma è anche quella più valida.
L’obiettivo finale di questo modello è quello di produrre cambiamento, che è appunto il risultato del
processo di apprendimento intrapreso. Il cambiamento permette all’individuo di modificarsi
continuamente, evitando comportamenti ripetitivi che generano fissità e quindi malattia. Il bambino
deve evolvere nel tempo in conformità alla sua età, cambiare nel tempo pur continuando a sentirsi
se stesso.
Non si tratta solo di educare il singolo perché possa star bene con se stesso, ma perché possa
adattarsi al proprio ambiente sociale. Il fine ultimo quindi è quello di far sì che il bambino durante il
suo sviluppo maturi una coscienza morale che gli consenta di avvertire un senso si responsabilità
per se stesso e gli altri. Per fare ciò bisogna valorizzare il piacere che si prova nel vedere l’altro
felice, e il proprio piacere per il fatto di sentirsi accettati come parte di un gruppo (il bisogno di
appartenenza sociale è una dei bisogni più importanti per la specie umana). Col tempo si avrà un
sistema di regolamentazione interna ( Super-io).
La tecnica utilizzata è quella narrativa: la parola permette di riconnettere contenuti consapevoli ed
inconscio, realtà materiale e fantasmatica, passato e presente, per potersi proiettare poi nel futuro.
Lo sviluppo di un Io narrante è fondamentale per la costruzione di un senso di identità stabile ed
integrato, fondato sulla continuità. Tessere un filo narrativo della propria storia garantisce la
sensazione che esista un’unica trama, nonostante la discontinuità dell’esistenza. Altrimenti si può
sviluppare un senso del sé frammentato, che porta alla sensazione di andare in pezzi. All’inizio il
bambino viene raccontato dagli altri, in primis dai genitori.
Questo modello può rivelarsi utile per l’attività del genitore, dell’educatore/insegnante, e del
terapeuta, tra cui è possibile riscontrare un parallelismo.
Infatti tutte queste figure sono implicate nell’aiutare il bambino nella strutturazione di un apparato
per pensare i pensieri, che permetta di elaborare adeguatamente le informazioni. L’introspezione
ha un ruolo importante in questo processo. Bion, nella teoria della reverie materna, spiega come la
madre permetta al bambino di sviluppare un apparato di pensiero mettendogli a disposizione la
propria mente per trasformare stati affettivi selvaggi in pensieri comunicabili. Questo processo
deve esser portato avanti dagli educatori e, nel caso in cui ci siano delle difficoltà, anche dal
terapeuta. Molte difficoltà della natura umana (devianza sociale, disagio, follia, possono essere
spiegate facendo riferimento ad una carenza in questo apparato di pensiero).
Quando invece le cose funzionano il bambino diventa dotato di potenzialità creativa ed è sempre
più capace di elaborare informazioni, riconoscere stati d’animo, collegare idee, formulare nuovi
pensieri.
L’applicazione del modello psicosocioeducativo rientra negli interventi di promozione del
benessere, di prevenzione, o meglio di “psicoigiene” (termine coniato da Bleger, che poneva più
attenzione sulla salute e sulla vita quotidiana, non sulla malattia).
La teoria e la pratica sono sempre unite: si raccolgono indizi, emozioni, suggestione, si leggono i
dati raccolti, si rielaborano, si restituiscono all’individuo al momento giusto, traducendole in idee
trasmissibili all’individuo e propagandabili alla collettività.
CAMBIAMENTO vs FISSITA’
Il benessere di un individuo è legato alla sua capacità di evolvere in conformità alla sua età.
Alcuni bambini possono trovasi nella condizione patologica del blocco evolutivo: non è possibile
assolvere ad un compito evolutivo tipico della propria età, e questo fa sì che lo sviluppo si
interrompa e il bambino rimanga bloccato in una modalità di pensiero e quindi di comportamento
non adeguata all’età. Ad esempio il bambino che ha problemi nel processo di individuazione-
separazione può tendere eccessivamente all’egocentrismo, non rendendosi conto della realtà
esterna, delle necessità delle altre persone, e non tollerando la frustrazione. Questo rende
impossibile l’apprendimento.
Spesso si ha un falso sé, che avvolge il vero sé e non gli permette di esprimersi.
Un altro problema frequente è quello di un eccesso di invidia. Il concetto di invidia è stato
ampiamente studiato da Melanie Klein, che la considerava come una delle più forti espressioni
della pulsione di morte. L’invidioso attacca il legame con gli oggetti buoni e cerca di distruggerli
perché non può sopportare di non essere in grado di produrre qualcosa di tanto perfetto (es. latte
materno, interpretazioni del terapeuta).
Chi non riesce a cambiare, ad evolvere nel tempo:
1) non è in grado di adattarsi all’ambiente sociale che lo circonda
2) non riesce a sviluppare un pensiero flessibile, creativo, divergente, ma è contraddistinto da
fissità, da una sclerotizzazione dei comportamenti che porta alla stereotipia.
Pichon Riviére, psicoanalista argentino, sostiene che il punto di convergenza tra formare e curare
stia nella mobilità psichica richiesta da nuovi apprendimenti, che entrano nella mente
destrutturando stereotipi e fissità. Alla base vi è in entrambi i casi un legame emotivo.
APPRENDIMENTO
-operazione intellettuale mediante la quale si accumulano informazioni e saperi, che però non sono
mai una semplice aggiunta, perché entrano in interazione con la conoscenza accumulata
precedentemente
-modifica del sistema nervoso prodotta dall’esperienza
-modifica del comportamento, cambiamento non necessariamente intellettuale.
EDUCARE
Nel processo educativo vi è una inevitabile asimmetria: l’adulto ha maggiore responsabilità verso il
piccolo.
L’educatore può costituire una base sicura per il bambino, e favorire quindi lo sviluppo di un
attaccamento sicuro anche quando la relazione con la madre non era ottimale. I bambini più gravi
però potrebbero aver perso la speranza di poter trovare un adulto di cui fidarsi (es. bambini con
disturbo reattivo dell’attaccamento - attaccamento inibito - che si ha nei casi di maltrattamento,
trascuratezza e adozione).
Nonostante tale asimmetria, chi insegna è allo stesso tempo nella posizione di dover imparare
qualcosa dal bambino, è un’occasione di scambio. Inoltre al bambino va riconosciuto un ruolo
attivo.
Un principio base dell’educare sta nella capacità di accettare, trasformare e rimodellare i contenuti
mentali negativi dell’altro per integrarli con quelli positivi.
L’aggressività e la sessualità devono essere incanalate in un agire socialmente accettabile
(sublimazione della libido).
Bisogna anche saper motivare e far tollerare la giusta dose di frustrazione che fa parte del
processo di apprendimento (importante fattore emotivo):
-quando studiamo dobbiamo tollerare il fatto di non poter saper tutto, e quindi di essere
inevitabilmente carenti; è una rinuncia all’onnipotenza
-non è possibile imparare e migliorare se stessi in poco tempo o con un minimo sforzo; il vero
maestro di vita insegna che ci vuole tempo, impegno e fatica per raggiungere i propri obiettivi
esistenziali. C’è sempre una quota di dolore mentale da tollerare.
EMPATIA
Chi mette in atto il modello psicosocioeducativo deve avere la capacità di immedesimarsi nell’altro,
di sintonizzarsi sui suoi vissuti affettivi, in modo tale da poter sviluppare una comprensione che
non è soltanto di tipo cognitivo, ma anche affet