Riassunto esame Culture dei media digitali, prof. Lughi, libro consigliato "Lo spirito del tempo" di Edgar Morin
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in lui. C’è uno sdoppiamento del lettore (o spettatore) sui personaggi, una interiorizzazione dei per-
sonaggi nel lettore (o spettatore), simultanei e complementari, secondo dei transfert incessanti e va-
riabili. L’estetica non va definita come la qualità propria dell’opera d’arte, ma come un tipo di rap-
porto umano molto più ampio e fondamentale. Sul piano estetico, lo scambio tra il reale e l’immagi-
nario, per quanto degradato, è lo stesso scambio tra l’uomo e l’aldilà, tra l’uomo e gli spiriti o gli
dei, che si effettuava attraverso lo stregone o il culto. La degradazione è precisamente il passaggio
dal magico all’estetico. Nel corso dell’evoluzione, la poesia si è distaccata dalla magia e la letteratu-
ra dalla mitologia; alcuni secoli dopo, anche la musica, la scultura e la pittura si sono distaccate per
interi settori dalla religione; il fine cultuale o rituale delle opere del passato si è atrofizzato o è pro-
gressivamente scomparso, per lasciare affiorare il fine propriamente estetico. Il mondo immaginario
non è più soltanto consumato sotto forma di riti, di culti, di miti religiosi, di feste sacre in cui gli spi-
riti si incarnano, ma anche sotto forma di spettacoli, di relazioni estetiche. La cultura di massa è sen-
za dubbio la prima cultura nella storia mondiale che sia anche pienamente estetica: malgrado i miti
è una cultura fondamentalmente profana. La cul-
e gli addentellati religiosi (come il culto delle star),
tura di massa pone l’accento sul godimento individuale del presente; che manca, nel rapporto esteti-
co, un’offerta di sé agli dei, al mondo, ai valori trascendenti. Affini alle partecipazioni (proiezioni-
identificazioni) magiche e religiose per il loro carattere spesso immaginario, le partecipazioni este-
tiche sono affini, per il loro carattere profano, alle partecipazioni affettive che regolano i nostri rap-
porti con gli altri (affetti, amori, odi, ecc.), come con le grandi potenze della vita (nazione, patria,
famiglia, partito, ecc.). Ma anche qui, il rapporto estetico si differenzia per l’assenza di implicazioni
pratiche, fisiche o vitali immediate. Certamente, le proiezioni-identificazioni toccano tutte le sfere
dell’interesse umano; certamente, non ci sono vere frontiere tra i tre ordini – pratico, magico-religio-
so, estetico – e i loro rapporti sono fluidi. Ma quello che si viene a definire, in particolare nell’imma-
ginario, è una sfera propriamente estetica: ed è quindi il significato e il ruolo dell’immaginario nel
rapporto estetico che bisogna ormai analizzare. L’immaginario è l’aldilà multiforme e pluridimen-
sionale della nostra vita, e nel quale le nostre stesse vite sono ugualmente immerse. L’immaginario
comincia dall’immagine-riflesso, cui fornisce un potere fantasma – la magia del doppio – e si dilata,
sino ai sogni più folli, dispiegando all’infinito le nebulose mentali. Dà volto non soltanto ai nostri
desideri, alle nostre aspirazioni, ai nostri bisogni, ma anche alle nostre angosce e ai nostri timori. Le
grandi mitologie contengono, diversamente mescolate, le differenti virtualità e i differenti livelli
dell’immaginario. Ma ogni grande mitologia ha le proprie strutture, e ogni cultura orienta a suo mo-
do i rapporti tra gli uomini e l’immaginario. L’immaginario è un sistema proiettivo che si è costitui-
to come sistema spettrale, e consente la proiezione e l’identificazione magica, religiosa o estetica.
Nel rapporto magico o religioso la comunicazione immaginaria agisce profondamente sulla vita: l’
immaginario detta i suoi comandamenti. Nel rapporto estetico può sembrare, al contrario, che la vita
sia posta tra parentesi: ma questo rapporto estetico procura evasione o divertimento, può avere una
funzione consolatoria e regolatrice nella vita, sia orientando le interne pressioni verso evasioni im-
maginarie, sia consentendo parziali appagamenti psichici, analoghi in certo senso all’appagamento
onanistico, in cui si fa l’amore con una figura immaginata. Nella proiezione c’è sempre una certa
liberazione psichica, cioè un’espulsione di quanto fermenta nel fondo oscuro del sé. Fra tutte le
proiezioni possibili, la più significativa è quella che assume carattere di esorcismo, allorché fissa il
male, il terrore e la fatalità su personaggi teleologicamente votati a una morte quasi sacrificale: cioè
la tragedia. Le potenze di proiezione – cioè anche di diversione, di evasione, di compensazione, di
espulsione, persino di transfert quasi sacrificale – si espandono su tutti gli orizzonti dell’immagina-
rio. Tessono gli universi enfatici dell’epopea, del fantasmagorico, del fantastico. Si slanciano negli
altrove dello spazio e del tempo, in contrade esotiche o passati favolosi. Si tuffano nei bassifondi
del crimine e della morte. Si sollazzano negli universi idealizzati dove tutto è più intenso, più forte,
migliore. Entro tutte queste proiezioni, agisce una certa identificazione: il lettore o spettatore, men-
tre si libera di virtualità psichiche che fissa sugli eroi in situazione, si identifica al tempo stesso con
personaggi che tuttavia gli sono estranei, sentendosi vivere di esperienze che pure non vive. Diversi
fattori favoriscono l’identificazione; l’optimum dell’identificazione si stabilisce ad un certo grado di
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equilibrio tra realismo e idealizzazione: occorre che ci siano condizioni di verosimiglianza e di ve-
ridicità che assicurino la comunicazione con la realtà vissuta, che i personaggi partecipino per qual-
che lato all’umanità quotidiana, ma occorre anche che l’immaginario si elevi di qualche gradino più
in su della vita quotidiana, che i personaggi vivano con maggiore intensità, con più amore, con più
ricchezza affettiva dei comuni mortali. Occorre anche che le situazioni immaginarie corrispondano
a interessi profondi, che i problemi trattati concernano intimamente bisogni e aspirazioni dei lettori
o degli spettatori; occorre infine che gli eroi siano dotati di qualità estremamente simpatiche. A que-
sto livello i personaggi suscitano affetto, amore, tenerezza; divengono non soltanto gli officianti di
un mistero sacro nella tragedia, ma gli alter ego idealizzati del lettore o dello spettatore, che realiz-
zano appieno ciò che egli sente possibile in sé. Inoltre questi eroi di romanzo o di film possono di-
ventare degli esempi, dei modelli: l’identificazione “bovaristica” suscita un desiderio di imitazione.
Desiderio che può sboccare nella vita, determinando mimetismi particolari, ovvero orientando com-
portamenti essenziali, come la ricerca dell’amore e della felicità. A un massimo di proiezione-iden-
tificazione, dunque, l’immaginario produce miti direttivi che possono costituire veri e propri model-
li di cultura. Inversamente, c’è un optimum proiettivo dell’evasione, come della purificazione, vale
a dire dell’espulsione-transfert delle angosce, dei fantasmi, dei timori, come dei bisogni insoddisfat-
ti e delle aspirazioni proibite. Ma l’optimum e il suo contrario variano non soltanto in funzione dei
temi romanzeschi, ma anche in funzione dei lettori e degli spettatori (età, sesso, condizione, classe
sociale, nazionalità, psicologia individuale, ecc.). Tra uomini di classi sociali, condizioni, razze, e-
poche differenti, un campo comune immaginario è possibile e, di fatto, esistono campi immaginari
comuni. Comuni nel senso che i rapporti di proiezione-identificazione possono manifestarsi in mo-
do multiforme. Il campo immaginario comune consente di concepire che un’opera, frutto di condi-
zioni psicologiche, sociologiche e storiche determinate, possa avere un’espansione che ne travalichi
l’ambiente e l’epoca. Che è poi il paradosso dell’universalità dei capolavori. Le opere d’arte univer-
sali sono quelle che contengono in sé originariamente, o accumulano in sé, possibilità infinite si pro-
iezione-identificazione. La cultura di massa sviluppa i propri campi comuni immaginari nello spa-
zio: l’aspirazione a un pubblico massimo la porta ad adattarsi alle classi sociali, alle età, alle nazioni
più differenti. Ma ciò non impedisce che essa esprima delle correnti sociali predominanti nella civil-
tà occidentale. Per comprendere la sua specificità, bisogna considerare i suoi temi, e al tempo stesso
le loro radici storiche e sociologiche e la loro diffusione.
Parte Seconda: Una mitologia moderna
La cultura di massa si sviluppata a partire dagli anni Trenta, ma solo dopo la seconda guerra mon-
diale si è mostrata come una tematica coerente in tutti i Paesi occidentali. Le masse popolari e di
una parte delle campagne accedono a nuovi standard di vita: entrano progressivamente nell’univer-
so del benessere, del loisir, dei consumi. Le trasformazioni quantitative operano una lenta metamor-
fosi qualitativa:i problemi della vita individuale si pongono ormai con insistenza. Il lavoro salaria-
to, nell’ambito dei giganteschi complessi burocratici e industriali è privato di senso creativo, di au-
La relativa sicurezza acquisita nel lavoro e gli sviluppi del loisir tendo-
tonomia e di responsabilità.
no a diminuire l’intensità affettiva delle preoccupazioni legate alla vita lavorativa. La cultura di
massa si costituisce in funzione dei bisogni individuali emergenti. Fornisce alla vita privata le im-
magini e i modelli che danno forma alle sue aspirazioni. Questa cultura non è soltanto evasione, ma
al tempo stesso è contraddittoriamente integrazione.
Capitolo ottavo. Simpatia e happy end
A partire dagli anni Trenta, vengono a precisarsi chiaramente le linee di forza che orientano l’imma-
ginario verso il realismo e stimolano l’identificazione dello spettatore o del lettore con l’eroe. Verso
il 1939-1940, nel cinema americano prima, e poi in quello occidentale, si compie un’evoluzione ve-
ramente radicale e significativa. L’intrigo si inscrive in schemi plausibili. Lo scenario offre tutte le
apparenze della realtà. L’attore diviene sempre più “naturale”, tanto da apparire non più come un
mostro sacro nell’atto di compiere un rito, ma come un doppio esaltato dello spettatore, a cui lo vin-
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colano legami di rassomiglianza e, contemporaneamente, di profonda simpatia. L’eroe simpatico,
così diverso dall’eroe tragico o da quello che ispira pietà, e che si espande a detrimento di entrambi,
è l’eroe legato allo spettatore tramite meccanismi di identificazione. Può essere ammirato, compian-
to, ma occorre sempre amarlo: ed è amato perché è amabile, e capace a sua volta di amare. A partire
dagli anni Trenta, tra la corrente realista, l’eroe simpatico e l’happy end, viene a stabilirsi una corre-
lazione sempre più stretta. L’happy end è la felicità raggiunta dagli eroi simpatici, conquistata quasi
in modo provvidenziale, al termine di prove che avrebbero dovuto portare naturalmente al fallimen-
to o a una tragica conclusione. L’introduzione massiccia dell’happy end restringe l’universo della
tragedia nell’immaginario contemporaneo. Rompe con una tradizione millenaria che nasce con la
tragedia greca e prosegue con il teatro spagnolo del secolo d’oro, con il dramma elisabettiano, con
la tragedia classica francese, con il romanzo di Balzac, Stendhal, Zola, Daudet, con il melodramma,
il romanzo naturalista e il romanzo popolare, con il cinema melodrammatico, infine, dell’epoca del
muto. Il lieto fino rompe non soltanto con la tradizione occidentale, ma anche con quella universale,
che,del resto, si mantiene ancora parzialmente nei film latinoamericani, e, più largamente, nei film
indiani e egiziani. Nella tradizione millenaria e universale, l’eroe, redentore o martire, o meglio re-
dentore e martire, fissa su di sé, talvolta fino alla morte, la sventura e il dolore. La grande tradizione
ha bisogno non soltanto del castigo dei cattivi, ma anche del sacrificio degli innocenti, degli uomini
puri e generosi. Il sacrificio può consistere sia nella morte che in una lunga vita di sofferenze. Nel
film a lieto fine, se l’eroe subisce del male e soffre sino alla tortura, morale e fisica, le traversie so-
no di breve durata, accompagnano raramente tutta una vita o tutta l’infanzia. L’eroe che supera i ri-
schi, sembra essere divenuto invulnerabile alla morte. Il film termina con una specie di eterna pri-
mavera, in cui l’amore splenderà per sempre, talvolta accompagnato dal denaro, dal potere o dalla
gloria. L’happy end non è riparazione o alleviamento, ma irruzione della felicità. Nel lieto fine ci
sono vari gradi di felicità, da quella totale (amore, denaro, prestigio) fino alla speranza della felicità,
in cui la coppia parte coraggiosamente sulla strada, verso la vita. Rari o marginali sono i film che fi-
niscono con la morte o, peggio, con il fallimento dell’eroe. Con l’irruzione massiccia dell’happy end
l’idea di felicità diviene il fulcro affettivo del nuovo immaginario. Correlativamente, l’happy end
implica un intenso attaccamento di identificazione all’eroe. Il legame sentimentale e personale che
si costituisce tra lo spettatore e l’eroe è tale, nel nuovo clima di simpatia, di realismo e di psicologi-
smo, che lo spettatore non sopporta più che il suo alter ego sia immolato. Al contrario, ne attende il
successo, la buona riuscita, la prova che la felicità è possibile. Così, paradossalmente, nella misura
in cui il film si avvicina alla vita reale, termina con la visione più irreale e più mitica: la soddisfa-
zione dei desideri, la felicità eternizzata. La cultura di massa, nel lieto fine, offre un nuovo modo e-
stetico-realistico di sostituzione della salvezza religiosa, in cui l’uomo raggiunge, per procura, la
sua aspirazione all’eterno. Parallelamente, l’happy end si è sviluppato nel romanzo popolare mo-
derno, nella stampa sentimentale e infine nella corrente maggiore del cinema, mentre persiste, allo
stadio inferiore della cultura di massa, un settore melodrammatico ed epico, e, allo stadio superiore,
un settore tragico. La forza vincolante dell’happy end si manifesta in modo rivelatore nell’adatta-
La pressione del lieto fine è così forte, da giungere persino a mu-
mento di opere narrative al cinema.
tare il finale dei romanzi che pure dovrebbero essere protetti dal rispetto feticistico dell’opera d’arte.
L’happy end, attraverso un rapporto di identificazione spettatore-eroe simpatico, rientra in una con-
cezione articolata della vita. La cultura di massa si sforza di acclimatare, familiarizzare e infine sof-
focare l’assurdo, di dare un senso alla vita escludendo il non-senso della morte. L’happy end è po-
stulato dall’ottimismo della felicità, dall’ottimismo del rendimento dello sforzo. D’altronde, ogni
intervento del potere politico nel campo della cultura postula anch’esso un lieto fine, poiché il pote-
re afferma che tutto è bene nella società su cui spadroneggia. Ecco perché accanto all’happy end
privato del film occidentale, coesiste un happy end politico; nell’Unione Sovietica e nelle democra-
zie popolari, il finale ottimistico imperò durante l’era staliniana, dopo la quale la nuova corrente si
espresse con la tragedia. Ma c’è una differenza tra il finale ottimistico in favore del sistema sociale
e l’happy end in favore dell’individuo privato. Nell’happy end privato, l’eliminazione o l’elusione
dell’assurdo, la volontà di salvare gli eroi dai pericoli, costituiscono negativamente una sorte di si-
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curezza sociale o di assicurazione contro i rischi immaginari, e, positivamente, una valorizzazione
mitologica della felicità. Questi due aspetti, negativo e positivo, mostrano che l’happy end dà una
forma immaginaria sintetica alle aspirazioni vissute, che prendono consistenza nel Welfare State e
nella ricerca della felicità privata. La tirannia del lieto fine corrisponde al nuovo demos.
Capitolo nono. I vasi comunicanti
A partire dal XIX secolo, vengono introdotti nei giornali il romanzo d’appendice e il racconto. Ma
soltanto all’inizio del XX secolo, l’immaginario spiega le vele verso i mass-media. In tal modo l’im-
maginario, precedendo il nuovo corso, conquista un posto di grande rilievo in quei settori che sem-
bravano rivolti unicamente all’informazione (stampa), alla rappresentazione del reale (cinema), alla
trasmissione delle comunicazioni (radio). Un duplice settore viene dunque a costituirsi nell’ambito
dei mass-media: in ogni spettacolo cinematografico, accanto al grande film romanzesco, è riservata
una parte all’attualità e persino al documentario; i programmi televisivi si distribuiscono secondo
un’alternanza dell’informativo e dell’immaginario, del documentario e dello spettacolo; e la stessa
dualità viene a riprodursi nella stampa. A partire dagli anni Trenta, la cultura di massa straripa dall’
immaginario e conquista l’informazione. La manipolazione drammatica tende così a prevalere sull’
informazione propriamente detta. Ponendo in risalto tutto ciò che può essere commovente, sensazio-
nale, eccezionale, la stampa di massa pone evidentemente in rilievo tutto ciò che riguarda i divi: con-
versazioni, amori, confidenze e dispute vengono diffusi da articoli, pettegolezzi, flash, come se il let-
tore fosse il voyeur di un grande spettacolo permanente di cui questi divi sono gli attori. Così i temi
fondamentali del cinema – avventure, imprese, amori, vita privata – sono privilegiati allo stesso mo-
do nell’ambito dell’informazione. La stessa politica, sia pure parzialmente, entra nel campo della
cultura di massa, specialmente negli Stati Uniti: la battaglia elettorale assume sempre più l’aspetto
di una competizione televisiva, in cui le qualità simpatiche del candidato, il volto, il sorriso e la bel-
lezza della moglie, divengono possibilità politiche. Reciprocamente, la propaganda politica utilizza,
ormai a proprio vantaggio, alcune ricette di popolarità elaborate dalla cultura di massa. relativamen-
te indifferente ai temi propriamente politici, la cultura di massa canonizza i personaggi per il biso-
gno stesso di avere dei divi, e in tal senso esalta la grandiosità olimpica dei ricevimenti, delle visite
ufficiali, ecc., mentre prospetta tutte le dimensioni della familiarità privata del divo politico. Il nuo-
vo corso, infine, accentua l’evidenza dei fatti di cronaca. Nei fatti di cronaca, gli argini della vita
normale sono travolti dall’incidente, dalla catastrofe, dal crimine, dalla passione, dalla gelosia, dal
sadismo. L’universo del fatto di cronaca ha questo in comune con l’immaginario (il sogno, il film, il
romanzo), che anch’esso infrange l’ordine delle cose, viola i tabù, spinge all’estremo la logica delle
passioni; e questo in comune con la tragedia, che anch’esso subisce l’implacabile fatalità. D’altra
parte, i fatti di cronaca sono tanto più privilegiati, quanto più sono spettacolari. La stampa seleziona
le situazioni esistenziali cariche di grande intensità affettiva. Nel fatto di cronaca, la situazione è pri-
vilegiata, e i personaggi affettivamente significativi sono illuminati partendo da situazioni-chiave.
Infine, una certa stampa secerne senza sosta una vera e propria sostanza romanzesca o drammatica
travestita da informazione, al fine di portare settimanalmente alla ribalta i suoi divi. L’informazione
romanzata e divizzata, da una parte, il fatto di cronaca dall’altra, fanno appello in definitiva agli stes-
si processi di proiezione-identificazione del film, del romanzo, del racconto. Infatti, i personaggi nel-
la situazione drammatica dei fatti di cronaca, i divi nella situazione romanzesca dell’attualità, forni-
scono una materia reale, ma della stessa struttura affettiva dell’immaginario. Il fatto di cronaca fa le
veci della tragedia, la divizzazione quelle della mitologia. Così, mentre la materia immaginaria pri-
vilegiata dal nuovo corso della cultura di massa è quella che presenta le apparenze della vita vissuta,
la materia informativa privilegiata è quella che presenta le strutture affettive dell’immaginario. Men-
tre l’immaginario si innesta nel realismo (dando a questo termine non il senso ristretto che ha assun-
to nella letteratura e nel cinema, ma un senso globale che lo oppone alla fantasmagoria e al fantasti-
co), l’informazione tende a strutturare l’avvenimento in modo romanzesco o teatrale (cinematografi-
co, insomma), e sviluppa una tendenza mitologizzante. Il nuovo corso tende a moltiplicare i contatti
tra la cultura di massa e i suoi consumatori. È così che la stampa di massa introduce e generalizza la
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posta dei lettori, che non soltanto sono invitati a dare la loro opinione, ma a chiedere consigli (posta
sentimentale). Alla radio e alla televisione, il nuovo corso stabilisce un contatto di simpatia. Un nuo-
vo stile, fatto di familiarità, di amicizia, di complicità, succede alla solennità impostata e cerimonia-
le. Contemporaneamente, il nuovo corso ha sviluppato in modo massiccio i giochi-concorsi con la
partecipazione del pubblico, cui si dà accesso nelle sale dove si realizzano le grandi trasmissioni di
Ha aggiunto il viso simpatico dell’an-
varietà e di giochi. La televisione ha reso tutto questo visibile.
nunciatrice, non soltanto bella, ma soprattutto dolce e sorridente. Ha moltiplicato la familiarità della
cultura di massa. La cultura di massa tende a costituire idealmente un gigantesco club di amici, una
grande famiglia non gerarchizzata. In questa oceanica e multiforme simpatia, il nuovo corso prose-
gue nel suo moto, al di là dell’immaginario e dell’informazione, proponendo consigli di savoir vivre.
Attraverso i consigli d’amore e di vita privata, i consigli di igiene, si esprime un tipo ideale di uomo
e soprattutto di donna, un modello sempre sano, giovane, bello, seducente. Tutti questi consigli van-
no cumulativamente nel senso del prestigio personale, del rilievo sociale, del benessere. A questi
consigli apparentemente disinteressati si aggiungono le onnipresenti esortazioni della pubblicità. La
pubblicità diviene così parte integrante della cultura di massa, la quale concerne ugualmente la salu-
te, il comfort, l’agiatezza, il prestigio, la bellezza, la seduzione. La cultura di massa sviluppa nell’im-
maginario e nell’informazione romanzata i temi della felicità personale, dell’amore, della seduzio-
ne. La pubblicità propone i prodotti che assicurano benessere, comfort, liberazione personale, rango
sociale, prestigio, e anche seduzione. Questa complementarietà insiste su uno stesso tessuto umano,
che è quello della vita privata. Di qui lo stretto legame tra pubblicità e cultura di massa. Essa è, in un
certo senso, un riflesso pubblicitario dell’evoluzione consumista del mondo occidentale. In un altro
senso, la pubblicità è un aspetto della cultura di massa, uno dei suoi prolungamenti pratici. In altri
termini, attraverso l’immaginario, attraverso l’informazione romanzata o divizzata, attraverso i con-
tatti e i consigli, attraverso la pubblicità, si attua il grande moto di quei temi fondamentali che ten-
dono a incarnarsi nella vita quotidiana. Ed è un’immagine della vita desiderabile, il modello di uno
stile, che i molteplici settori e temi della cultura di massa in definitiva disegnano. Questa immagine
è allo stesso tempo edonistica e idealizzante; si fonda, da una parte, sui prodotti industriali di consu-
mo e d’uso il cui insieme fornisce il benessere e lo status; dall’altra, sulla rappresentazione delle a-
spirazioni private – l’amore, il successo personale e la felicità.
Capitolo decimo. I divi
Dove il reale incontra l’immaginario, si pongono i personaggi in vista della grande stampa, i divi
moderni. Questi divi non sono soltanto le star del cinema, ma anche i campioni, i principi, i re, i
playboy, gli esploratori, gli artisti celebri. Il divismo degli uni nasce dall’immaginario, cioè dai ruoli
impersonati nei film (star), il divismo degli altri nasce dalla loro funzione sacra (regalità, presiden-
za), dalle loro imprese eroiche (campioni, esploratori) o erotiche (playboy). L’informazione conver-
te questi divi in vedette dell’attualità. Porta alla dignità di eventi storici avvenimenti privi di ogni si-
gnificato politico. Questo nuovo Olimpo è in effetti il prodotto più originale del nuovo corso della
cultura di massa. Le star erano già state in precedenza promosse alla divinità: il nuovo corso le ha
umanizzate, ha moltiplicato le relazioni umane con il pubblico. Dopo che le star inaccessibili e su-
blimi del cinema sono discese sulla terra, la vita dei divi partecipa alla vita quotidiana dei mortali, i
loro amori partecipano dei rischi degli amori mortali, i loro sentimenti sono condivisi dall’umanità
media. I nuovi divi sono calamitati sia sull’immaginario che sul reale: ideali inimitabili e al tempo
stesso modelli inimitabili, la loro duplice natura è analoga alla duplice natura teologica dell’eroe-dio
della religione cristiana: divi e dive sono superumani nel ruolo che impersonano, e umani nell’esi-
stenza privata che vivono. La stampa di massa, mentre investe i divi di un ruolo mitologico, si cala
nella loro vita privata per estrarne la sostanza umana che permette l’identificazione. Un Olimpo di
vedette domina la cultura di massa, ma comunica, attraverso questa cultura, con l’umanità corrente.
I divi, attraverso la loro duplice natura, divina e umana, mettono in atto una circolazione permanen-
te tra il mondo della proiezione e il mondo dell’identificazione. Concentriamo su questa duplice na-
tura un possente complesso di proiezione-identificazione. Fondendo la vita quotidiana e la vita olim-
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pica, i divi divengono modelli di cultura nel senso etnografico del termine, vale a dire modelli di vi-
ta. Sono eroi modelli: incarnano i miti di autorealizzazione della vita privata. Effettivamente, i divi,
e soprattutto gli attori, sono i grandi modelli offerti dalla cultura di massa, e senza dubbio, tendono
a spodestare gli antichi modelli (genitori, educatori, eroi nazionali). Si può dire che i molteplici mo-
delli di condotta che riguardano gesti, comportamenti, modi di incedere, bellezza, si integrano in un
grande modello globale, un modello di stile di vita fondato sulla seduzione, l’amore, il benessere. In
questo senso, le star, nella loro vita di loisir, di gioco, di spettacolo, di amori, di lusso, e nella loro
ricerca permanente della felicità, rappresentano i tipi ideali della cultura di massa. I divi sono pre-
senti in tutti i settori della cultura di massa. Mettono in comunicazione tre universi – quello dell’
immaginario, quello dell’informazione, e quello dei consigli, delle esortazioni e delle norme. Con-
centrano in sé i poteri mitologici e i poteri pratici della cultura di massa. In questo senso, la superin-
dividualità dei divi è il fermento dell’individualità moderna. Come ogni cultura, la cultura di massa
produce i propri eroi, i propri semidei, benché essa si fondi su ciò che è appunto la decomposizione
del sacro: lo spettacolo, l’estetica. Ma, a dire il vero, la mitologizzazione è atrofizzata; non ci sono
veri dei; eroi e semidei partecipano all’esistenza empirica, inferma e mortale. Sotto la pressione ini-
bitrice della realtà informativa e del realismo immaginario, sotto il peso dei bisogni di identificazio-
ne e delle norme della società dei consumi, la mitologia è costretta a volare basso, e non può svilup-
parsi come nelle religioni e nelle epopee. Come ogni cultura, la cultura di massa elabora dei model-
li, delle norma; ma, per questa cultura strutturata secondo le leggi di mercato, non ci sono prescrizio-
ni imposte, bensì immagini o parole che invitano all’imitazione, consigli ed esortazioni pubblicita-
rie. L’efficacia dei modelli proposti viene proprio dal fatto che corrispondono ad aspirazione e biso-
gni che si sviluppano realmente.
Capitolo undicesimo. La pistola
Ormai da lungo tempo, Hollywood ha proclamato la sua ricetta: a girl and a gun, una ragazza e una
pistola. L’erotismo, l’amore e la felicità da una parte; dall’altra, l’aggressione, l’avventura, il delitto.
Questi due temi congiunti, portatori gli uni di valori femminili, gli altri di valori virili, sono tuttavia
vettori diversi. I temi avventurosi e criminali non possono realizzarsi nella vita e tendono a distribu-
irsi proiettivamente. I temi amorosi interferiscono con le esperienze vissute e tendono a distribuirsi
per l’identificazione. Le esaltanti avventure cinematografiche rispondono alla mediocrità dell’esi-
stenza reale. Nella cultura di massa la vita non è soltanto più intensa, è altra. La nostra vita quotidia-
na è sottomessa alla legge: gli istinti sono repressi, i desideri censurati, le paure mascherate, assopi-
te. Ma la vita è un film, dei romanzi, dei fatti di cronaca, è la vita in cui la legge è infranta, domina-
ta o ignorata, dove il desiderio subito diviene amore premiato, dove gli istinti si fanno violenza, pu-
gni, omicidi, dove la paura diviene suspense, angoscia. Questa liberta propriamente immaginaria, è
quella assunta dai doppi nelle mitologie arcaiche, quella di cui godono gli dei e che gli eroi delle
mitologie storiche conquistano, quella che privilegia i re dei racconti popolari, quella che appare in
forme ingenue e assolute nell’infantile Tintin e nel puerile Superman. I ricchi e i divi sfuggono alle
strettezze della vita quotidiana: si spostano con l’aereo, amano, divorziano facilmente. Invero, an-
che i divi subiscono delle servitù e non sfuggono completamente alla legge. E pertanto rivelano
anch’essi il loro lato umano, che li rende identificabili. Ma l’ossigeno che respirano è più ricco, la
loro facilità di movimento più grande. L’extra-libertà è evidentemente quella dei viaggi nel tempo e
nello spazio, delle avventure storiche ed esotiche. Questo mondo altro e più libero è quello dei cava-
lieri e dei moschettieri come quello della giungla, della savana, delle foreste vergini, delle terre sen-
za legge. Gli eroi di quest’altro mondo sono l’avventuriero, il giustiziere, il raddrizzatore di torti. La
caratteristica del western è quella di situarsi in un tempo epico e genetico agli inizi delle civiltà, che
è insieme un tempo storico, realistico, recente (fine del XIX secolo). La legge non vi regna ancora,
ma è sul punto di costituirsi. L’infra-libertà si esercita al di sotto delle leggi, nei bassifondi della so-
cietà, presso i vagabondi, i ladri, i gangster; un mondo notturno che è forse uno dei più significativi
della cultura di massa. Infatti l’uomo civilizzato, soggetto ai regolamenti e alla burocrazia, si libera
proiettivamente nell’immagine di chi osa rapinare o possedere, che osa uccidere, che osa obbedire
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alla propria violenza. Nello stesso tempo, la gang esercita un fascino particolare, poiché essa si fon-
da sulla partecipazione comunitaria al gruppo, sulla solidarietà collettiva, sulla fedeltà personale,
sull’aggressività verso tutto ciò che è estraneo, sulla vendetta, sulla realizzazione degli istinti preda-
tori e depredatori. La gang è come il clan arcaico, ma purificato di ogni sistema tradizionale di pre-
scrizioni e divieti, come un clan allo stato nascente. Il tema della libertà si presenta attraverso le fi-
nestre sempre aperte dello schermo, del video, del giornale, come evasione onirica o mitica al di
fuori del mondo civilizzato, chiuso, burocratizzato. È in questo senso che esiste una relazione pro-
fonda tra il tema del re e quello del vagabondo, tra il tema del fuorilegge e quello del tahitiano, tra
lo stato di natura e la gang. La cultura di massa prosegue la grande tradizione immaginaria di tutte
le culture: ma ciò che la distingue dalle altre, è l’esteriorizzazione multiforme, massiccia e perma-
nente della violenza, che sorge dai comics, dalla televisione, dal cinema, dai giornali (fatti di crona-
ca, incidenti, catastrofi) e dai libri (serie nera, polizieschi, d’avventura). Il grande fascino della mor-
te emerge oscuramente, sotto l’esplodere della violenza. Alla proliferazione delle violenze immagi-
narie si deve aggiungere il risalto dato alle violenze che esplodono ai margini della vita quotidiana
sotto forma di incidenti, catastrofi, delitti. La stampa della cultura di massa apre le sue colonne ai
fatti di cronaca, vale a dire agli avvenimenti contingenti, giustificati soltanto dal loro valore emozio-
nale. Attraverso il fatto di cronaca, attraverso le stranezze del comportamento umano che riflettono
la vera natura dell’uomo, infine attraverso l’universo del crimine, il lettore riscopre allo stato vissu-
to e compiuto i suoi sogni più inconsci. Sadici e assassini sono la personificazione di istinti sempli-
cemente repressi degli altri uomini, l’incarnazione dei loro delitti immaginari, delle loro violenze
sognate. Le strutture del fatto di cronaca sono le stesse dell’immaginario. Ma c’è una differenza fon-
damentale tra il fatto di cronaca e il film. Il film a lieto fine risparmia i suoi eroi: la morte in quanto
sofferenza, perdita irreparabile, è carpita a profitto della morte per aggressione, dell’omicidio che
colpisce le comparse o i cattivi. Per contro, il fatto di cronaca è tragico: la fatalità colpisce vittime
innocenti; la morte ghermisce ciecamente sia i buoni che i cattivi. Il fatto di cronaca resuscita la tra-
gedia, scomparsa dall’immaginario. le vittime del fatto di cronaca, come quelle della tragedia, sono
proiettive, cioè offerte in sacrificio alla sventura e alla morte. Ma un conto è il sacrificio rituale dei
giorni festivi, un conto l’infornata quotidiana che i falliti della vita apportano alla morte. Così, para-
dossalmente, l’identificazione con il protagonista del fatto di cronaca è minore dell’identificazione
con gli eroi del cinema, e meno intensa la comunicazione tra l’uomo e le pagine di cronaca del gior-
nale, che non quella tra quest’uomo quotidiano e il cinema. Ciò non impedisce tuttavia che, per uno
strano rovesciamento moderno, sia la realtà, e non l’immaginario, a rifornire del senso del tragico la
cultura di massa. I bisogni aggressivi che non si attuano nella fascia centrale sono tenuti in vita sia
dai fatti di cronaca dei giornali e dalle avventure cinematografiche che dagli sport violenti o compe-
titivi. Questi bisogni vengono così eccitati, o al contrario calmati, purificati? In che misura ci si sca-
rica psichicamente, e si opera la catarsi, o invece permane la carica aggressiva? Per parte mia, credo
che le due serie contraddittorie di ipotesi siano egualmente fondate. Lo spettacolo della violenza in-
cita e al tempo stesso placa: incita parzialmente l’adolescenza, in cui la proiezione e l’identificazio-
ne non si distribuiscono ancora in modo razionale come negli adulti, a cercare esecutori pratici della
violenza, in particolare nelle “piccole compagnie” moderne, ma nello stesso tempo placa in parte i
bisogni aggressivi della pubertà. D’altronde, nelle nostre società c’è un settore crescente di scariche
aggressive fisiche, costituito dallo sport. Resta un problema più centrale: c’è un fondo di violenza
nell’essere umano che precede la nostra e ogni altra civiltà, e che non può essere ridotto una volta
per tutte da nessuno dei mezzi di civilizzazione attualmente noti. La civiltà è una sottile pellicola
che può solidificarsi e contenere il fuoco centrale, ma senza spegnerlo. L’esperienza prova che nes-
suno è definitivamente civilizzato: un tranquillo borghese può diventare, in condizioni determinate,
una S.S. o un torturatore. La cultura di massa ci droga, ci ubriaca di voci e di furori. Ma non ci ha
guariti dei nostri furori fondamentali: piuttosto li distrae, li proietta in film e in fatti di cronaca. 21
Capitolo dodicesimo. L’eros quotidiano
In Unione Sovietica o in Cina, l’erotismo è ancora inimmaginabile, proprio in quanto tenuto fuori
dalle immagini, confinato nel segreto dei comportamenti privati. Nel mondo capitalista, la religione
frena il prodigioso slancio dell’erotismo. Ma è nel flusso della cultura di massa che l’erotismo trion-
fa: non soltanto i film, i comics, i settimanali, gli spettacoli, sono sempre più pigmentati di immagi-
ni erotiche, ma quotidianamente gambe nude, petti superbi, capigliature scintillanti, labbra dischiu-
se, ci invitano a consumare sigarette, dentifrici, saponi, bevande analcoliche, e un’intera serie di
merci tutt’altro che estetiche. Il denaro, sempre insaziabile, si rivolge all’eros, costantemente inap-
pagato, al fine di stimolare il desiderio, il piacere e il godimento, evocati dai prodotti immessi sul
mercato. Nella sua espansione verticale, il capitalismo, dopo aver annesso il mondo dei sogni, si
sforza di addomesticare l’eros, addentrandosi nelle profondità dell’onirismo e della libido. A sua
volta l’eros entra trionfalmente nel circuito economico, munito della potenza industriale. È un eroti-
smo immaginario, cioè dotato di immagini e di immaginazione, che si impregna dei prodotti fabbri-
cati e dona loro un’aureola; ma questo erotismo immaginario, del resto, si adatta all’erotismo reale,
che non è soltanto moltiplicazione dello stimolo epidermico, ma anche moltiplicazione dei fantasmi
della libido. L’erotismo della merce è soprattutto pubblicitario,e pertanto concerne direttamente la
cultura di massa, che ingloba i più importanti mezzi di pubblicità moderni (giornali, radio, televi-
sione). L’iniezione di erotismo nella rappresentazione di una merce di per sé non erotica ha il com-
pito non soltanto di eccitare direttamente il consumo maschile, ma di abbellire agli occhi della don-
na la merce di cui potrà appropriarsi, ponendo in gioco nell’eventuale cliente la magia dell’identifi-
cazione seduttrice. La merce gioca a fare la donna desiderabile, per essere desiderata dalle donne,
facendo appello al loro desiderio di essere desiderate dagli uomini. Contemporaneamente, la pin-up
diviene simbolo estetico delle qualità, indicando come, nel suo campo, il prodotto possiede le virtù
affascinanti della bellezza femminile. Ci sono stati in ogni tempo prodotti di seduzione: ma solo il
nuovo corso pubblicitario ha trasformato i prodotti di igiene in prodotti di bellezza e di seduzione.
La pubblicità di massa ha svelato l’erotismo prima latente (e inoltre soffocato) del prodotto di igie-
ne tipo, il sapone, e lo ha permeato di erotismo, sino a trasformarlo in un prodotto di seduzione. La
pubblicità ha rapidamente colmato la distanza che separava la pulizia dalla bellezza, e la bellezza
dal sex appeal. L’erotismo si è specializzato e si è diffuso. Si è specializzato nei prodotti con finalità
particolarmente erotiche la cui pubblicità divora i rotocalchi. Si è diffuso nell’ambito dei consumi
immaginari: praticamente non c’è film senza dèshabillé, fumetto senza eroina dalla scollatura pic-
cante, quotidiano senza foto di stelle, rotocalco senza pin-up. Dai primi del Novecento, una gigante-
sca Psiche, dalle mille e mille incarnazioni immaginarie, si sveste lentamente: le gambe ci sono pro-
gressivamente apparse, inebrianti; le acconciature si sono disfatte e rifatte, e le anche dimenate. Dal
il gioco dello striptease si svolge attorno al petto: il busto argina appena il tumulto prorompen-
1950,
te dei seni. La donna-oggetto, oggetto di divertimento, di piacere, oggetto di lusso, sarebbe in un
certo senso la vittima del cinismo gaudente dell’uomo. Ma di fatto, il regno della donna-oggetto è l’
altra faccia del regno della donna-soggetto. A differenza delle riviste licenziose e dello striptease
propriamente detto, le immagini erotiche non si rivolgono in modo particolare agli uomini, ma alle
donne e agli uomini insieme, e spesso soprattutto alle donne. Le immagini che attraggono il deside-
rio maschile suggeriscono alla donna i suoi comportamenti di seduzione: sono i modelli da cui at-
tinge i suoi poteri. Le immagini più fortemente erotizzate sono quelle della pubblicità dei prodotti di
bellezza, che si rivolgono direttamente alle donne consumatrici, al fine di proporre loro conquiste e
successo. L’erotismo della cultura di massa è di per sé ambivalente. Suppone un certo rapporto di
equilibrio tra i tabù sessuali e la licenza che li corrode. Svolge la funzione di catalizzatore perma-
nente, solo perché si aggira attorno al tabù fondamentale che non può infrangere. Si agita perché la
nudità totale e il coito sessuale restano interdetti nelle immagini, e subiscono molteplici divieti nella
vita pratica. L’erotismo della cultura di massa resta segnato dalle sue origini americane: sorto come
reazione antipuritana, subisce tuttavia la maledizione puritana del sesso e si vendica con un’erotizza-
zione generale del resto del corpo. Da un certo punto di vista, l’erotismo rimanda alla sessualità, me-
diante le sue permanenti allusioni, e non poche immagini erotiche sono risarcimenti simbolici del 22
coito. Da un altro, diffondendo l’attrazione sessuale sull’insieme del corpo, l’erotismo toglie alla
sessualità potere di concentrazione. Ogni progresso dell’erotismo comporta un indebolimento della
differenziazione sessuale, e i progressi dell’omosessualità sono un aspetto di tale indebolimento.
Diffondendo e spargendo l’erotismo in tutti i settori della vita quotidiana, la cultura di massa dilui-
sce ciò che prima era concentrato. Sembra che una super-erotizzazione proceda di pari passo col
progredire della semi-frigidità e della semi-impotenza. L’erotismo della cultura di massa si sforza di
riconciliare l’anima e l’eros. Al cinema, l’erotismo e l’immaginario sono reciprocamente mezzo e
fine; l’industria dell’anima e l’industria dell’eros sono una sola grande industria. Il mondo della cul-
tura di massa non è un universo che si abbandona alla sessualità bruta, ma un universo permeato di
erotismo epidermico. Il capitalismo, fondandosi su queste fonti di profitto, ha eccitato simultanea-
mente e correlativamente l’anima, l’eros e l’amore. L’erotismo fa la spola tra i divi, le stelle del ci-
nema, la stampa, la pubblicità, la volontà di sedurre e di amare. Incita ad ogni forma di consumo, e
quindi anche al consumo amoroso: denominatore comune tra l’universo dell’amore, l’universo della
promozione dei valori femminili e l’universo dei consumi.
Capitolo tredicesimo. La felicità
L’idea della felicità raggiunge l’apice nelle civiltà individualiste, favorita dall’impoverimento dei va-
lori tradizionali. La cultura di massa traccia un profilo particolare e complesso della felicità, insieme
proiettivo e di identificazione. In essa la felicità è mito, ossia proiezione immaginaria di archetipi di
felicità, ma nello stesso tempo è idea-forza, ricerca vissuta da milioni di adepti. Questi due aspetti
sono in parte radicalmente dissociati, in parte fusi insieme. L’ideale immaginario della vita piena di
rischi si oppone all’ideale pratico della sicurezza contro ogni rischio. L’ideale del giustiziere asceti-
co si oppone all’ideale del padre di famiglia soddisfatto; l’ideale della lotta si oppone a quello del
benessere; l’ideale dello stato di natura a quello del comfort hi-tech. Così, nella concezione stessa
della felicità, si può constatare una bipolarità e un antagonismo tra modi proiettivi e identificativi,
ma tra le due felicità si danno dei compromessi. Alla tematica della felicità personale si aggiunge
quella non meno fondamentale dell’amore, che implica la coppia. Parimenti, il tema della felicità è
legato al tema del presente; l’happy end è una proiezione durativa di un momento di felicità in cui si
trovano esaltati in un abbraccio il matrimonio, la vittoria e la liberazione. Il film e la canzone pos-
sono esaltare l’amore povero, un cuore e una capanna, e dirci che l’amore è tutto mentre il resto non
è niente. La pubblicità, al contrario, può dimostrare che non c’è felicità possibile al di fuori del com-
fort e di un alto tenore di vita. La felicità si sforza di superare tale alternativa, conciliando l’essere e
l’avere. La felicità empirica scaccia o respinge le mitologie dell’aldilà, ma crea necessariamente una
propria mitologia, destinata a mascherare le zone d’ombra in cui la felicità è inesorabilmente messa
dall’insuccesso, dalla morte. La cul-
in discussione dal senso di colpa, dalla sessualità, dall’angoscia,
tura di massa tende a rigettare i nodi oscuri della vita mortale, come i deliri sessuali, la cattiva sorte,
la tragedia, insomma tutto ciò che rientra sotto il nome di cronaca, in cui ciascuno si sente non coin-
volto personalmente, ma oscuramente esposto. Anche la morte è potentemente respinta dalla mito-
logia della felicità, potente e fragile come ogni fede. La felicità è la religione dell’uomo moderno,
illusoria come tutte le religioni: è una religione senza sacerdoti, che funziona industrialmente. È la
religione dell’era della tecnica, e di qui la sua apparente profanità. Indubbiamente, nella storia dell’
umanità, non c’è mai stato un appello così diffuso ed intenso alla felicità, che è il leitmotiv della
cultura di massa (e i divi sono tra i grandi modelli proiettivi e di identificazione della felicità mo-
derna). L’amore – che è comunicazione con un altro sé estraneo all’io, intensità affettiva su cui si
fonda la felicità – è senza dubbio l’aspetto più virulento della cultura di massa.
Capitolo quattordicesimo. L’amore
Nella cultura di massa, il tema dell’amore è divenuto così ossessivo da comparire anche nelle situa-
zioni in cui di norma non dovrebbe essere presente. L’avventuriero, il cowboy, lo sceriffo, incontra-
no immancabilmente nella foresta vergine, nella savana, nel deserto, nelle grandi pianure dell’Ovest
l’amore di un’eroina tanto bella quanto truccata. La stampa, da parte sua, polarizza l’human interest
23
sul tema dell’amore. Questo amore cantato, fotografato, filmato, intervistato, falsato, svelato, rive-
duto, appare come evidente e naturale: è il tema centrale della felicità moderna. È caratteristica del-
la cultura di massa universalizzare questa ossessione in tutti i suoi settori. Questa universalizzazione
fa dell’amore il grande archetipo dominante della cultura di massa. Caratteristica della cultura di
massa è proprio di esprimere una tematica dell’amore al tempo stesso vincente e capace di giustifi-
carsi in sé. A partire dagli anni Trenta, con l’happy end, l’amore è diventato trionfale. Supera la bar-
riera del sesso per inverarsi nell’unione dei corpi: supera gli ostacoli della vita per trovare compi-
mento nella coppia; è ormai il fondamento del matrimonio, più che un impedimento ad esso. Sino
all’affermarsi della cultura di massa, il tema dell’amore borghese si esauriva nel conflitto triangola-
re tra il marito, l’amante e la moglie, e i temi popolari dell’amore si svolgevano secondo una sorta
di gioco dell’oca in cui si trattava di superare ostacoli e trabocchetti di ogni sorta. Senza abolire que-
sti temi, la cultura di massa ha fatto si che l’amore doppiasse il capo dei conflitti tragici o melodram-
matici e quello delle subordinazioni. Inoltre, a differenza dei film latinoamericani, asiatici o sovieti-
ci, in cui l’amore pone i suoi problemi nell’ambito del matrimonio, o è costretto a inchinarsi dinanzi
alla legge o al dovere, il cinema occidentale, massiccia avanguardia immaginaria, fa sfociare l’amo-
re nel libero mare del compimento di sé. Così si configura l’amore del nuovo corso immaginario:
non più l’amore della principessa di Clèves o di Emma Bovary, che si spezza contro le istituzioni,
non più l’amore integrato (nell’ambito della famiglia) o l’amore disintegrante (cui è necessario
scampo la morte: Tristano e Isotta, Romeo e Giulietta); ma l’amore divenuto fondamento necessario
di ogni vita personale. Fin dal XIII secolo, la tradizione occidentale dell’amore ha istituito un’oppo-
sizione tra l’amore sessuale e quello spirituale. I temi spirituali erano valorizzati, mentre i temi ses-
suali subivano la maledizione del peccato. La stessa opposizione si ritrova nel romanzo popolare e
nel cinema dei primi decenni: da una parte una vergine innocente o il casto eroe; dall’altra, la donna
perversa o l’ignobile seduttore. A partire dagli anni Trenta, i temi verginali e i temi impuri si sono
dissolti gli uni negli altri, con la decadenza dell’amore puramente spirituale, così come dell’amore
puramente fisico, a favore di un tipo sintetico di amore, spirituale e carnale a un tempo, simboleg-
giato dal bacio sulla bocca, e di un tipo sintetico di amanti, beneficiari entrambi del prestigio erotico
della vamp o del seduttore, ma anche della purezza d’animo dell’eroe e della vergine, talché l’attra-
zione sessuale e l’affinità delle anime si coniughino in un sentimento totale. così i nuovi eroi del ci-
nema portano in sé la totalità sintetica dell’eros unito alla psiche, mentre tramontano le vergini e le
vamp, i cavalieri serventi e i vili seduttori. In questo amore sintetico, la donna tende ad apparire si-
multaneamente come amante, compagna, anima-sorella, donna-bambina e donna-madre, e l’uomo
come protettore e protetto, debole e forte. La coppia emerge dunque nel cinema occidentale come
portatrice dell’insieme dei valori affettivi. Il film è l’incontro di un uomo e di una donna, soli, estra-
nei l’uno all’altra, ma che una necessità assoluta sta per legare insieme. Il personaggio centrale ed
essenziale dell’amore è la coppia. La coppia nasce dalla dissoluzione della famiglia, ma nasce anche
come fondamento del matrimonio. L’amore è molto più dell’amore, è il nucleo fondamentale dell’
esistenza, secondo l’etica dell’individualismo privato; è l’avventura che giustifica la vita. L’amore
della cultura di massa, se ha perduto la virulenza disintegrante e il panteismo illimitato dell’amore
romantico, ha conservato il suo valore assoluto e totalizzante. L’amore della cultura di massa trova i
suoi contenuti nella vita e nei bisogni reali (l’individualismo privato moderno), e fornisce loro i pro-
pri modelli. È attraverso il tema dell’amore che si operano le influenze dirette del cinema; model-
landosi sui comportamenti amorosi dei film, i processi di identificazione sfociano in una mimesi di
tipo pratico. Le influenze, del resto, si distribuiscono a molteplici livelli. Da una pare, l’industria
della bellezza e della seduzione si sviluppa all’ombra dello star-system; dall’altra, gli eroi del cine-
ma suscitano l’imitazione dei loro gesti, del loro modo di camminare, persino del loro abbigliamen-
to. Infine, sul piano psicologico, si impone l’idea della necessità assoluta dell’avventura amorosa. È
così che opera il circuito tra il film e la vita, tra l’immaginario e il reale: il bisogno d’amore che si
sente nella vita trova nel film i propri modelli, le guide, gli esempi, che rifluiscono sulla vita dando
forma all’amore moderno. Ma il cinema non è tutta la cultura di massa: la tematica dell’amore re-
gna in forme diverse nei racconti della stampa sentimentale, nella posta delle lettrici, nei fatti di 24
cronaca, e infine nelle indiscrezioni sulla vita dei divi. La stampa sentimentale, resta in parte al li-
vello melodrammatico-proiettivo del cinema muto e dell’antico romanzo popolare, mentre la stam-
pa femminile bovaristica è incentrata non soltanto sull’immaginario realistico, ma sulla praxis fem-
minile. D’altronde, i fatti di cronaca mettono in evidenza le sfrenatezze dell’amore, in particolare il
delitto passionale. La cultura di massa privilegia l’amore sintetico, nucleare e totale, ma non l’amo-
re folle. L’immaginario cinematografico coincide con la stessa concezione nucleare dell’amore, lad-
dove vengono distribuiti alla periferia gli amori melodrammatici troppo irreali, i consigli non troppo
saggi, le folli passioni dei fatti di cronaca. L’insieme della cultura di massa costituisce un sistema
complesso, che provoca e frena al tempo stesso gli eccessi dell’amore, a vantaggio dell’amore nu-
cleare. Tuttavia, recenti sviluppi mettono in discussione, se non la stessa prospettiva nucleare, per lo
meno il tema dell’amore unico. Le perturbazioni della vita amorosa dei divi tendono, paradossal-
mente, a demitologizzare l’amore del cinema. La grande stampa diviene lo specchio di questa proli-
ferante instabilità, che corrisponde alla realtà stessa dell’ultimo stadio dell’amore: poiché l’amore
diviene tanto più relativo, quanto più vuole mantenersi nell’assoluto; dacché l’amore “unico” divie-
ne quotidiano, perde sapore, e si parte di nuovo alla ricerca dell’amore unico. La molteplicità degli
amori unici in una vita, diviene un cancro interno dell’amore, che gli toglie l’eternità. I divi fanno
dunque rientrare il mito dell’amore nella realtà del tempo – e nella realtà del nostro tempo.
Capitolo quindicesimo. La promozione dei valori femminili
Erede della cultura borghese, la cultura di massa si orienta naturalmente verso la promozione dei
valori femminili. In ciò può ravvisarsi il riflesso di un’evoluzione ben nota: la femminilizzazione
delle civiltà che hanno raggiunto un certo livello di benessere o di ricchezza; questo rigoglio che
forse, in quanto indebolimento, è già decadenza. Nell’ambito della cultura di massa, i temi virili
(aggressione, avventura, omicidio) sono proiettivi, mentre i temi femminili (amore, focolare dome-
stico, comfort) sono identificativi. La parte virile non è soltanto sognata, ma trova sbocchi sempre
nuovi in un particolare settore, che è quello dello sport e del loisir, appunto il terreno di esercizio
della virilità nella cultura di massa. È dunque sul piano del gioco che sport, judo e caccia propongo-
no la salvaguardia o la rinascita dei valori virili. Si tratta di una pratica, certo: ma di una pratica lu-
dica. La vera praxis culturale concerne i valori femminili: amore, comfort, benessere. La cultura di
massa è femminile-maschile, nel senso che nei film, nella stampa, nelle trasmissioni radio e televi-
sive, si trovano contenuti sia d’interesse maschile che d’interesse femminile. Forse il contenuto del-
lo sport è maggiormente maschile, ma nella cultura di massa non esistono settori specificatamente
maschili. La stampa femminile integra in sé, trasformandole, la letteratura sentimentale a basso co-
sto e il giornalismo di moda. I due grandi temi della stampa femminile – da una parte, la casa e il
benessere; dall’altra, la seduzione e l’amore – sono in effetti i due grandi temi di identificazione
della cultura di massa, ed è proprio nell’ambito di questa stampa che guadagnano uno stretto rap-
porto con la vita pratica: consigli, ricette, modelli, buoni indirizzi, posta del cuore, orientano e gui-
dano il quotidiano saper vivere. Il modello di donna sviluppato dalla cultura di massa ha l’apparen-
za della pupattola d’amore. La pubblicità e i consigli sono orientati con grande precisione sui carat-
teri sessuali secondari (capelli, petto, bocca, occhi), sugli attributi erogeni (sottovesti, vesti, parure),
su un ideale di bellezza sottile e slanciata nelle anche, nella schiena, nelle gambe. Il motore primo
della moda è evidentemente il bisogno di cambiamento allo stato puro, che nasce dalla stanchezza
del già visto e dall’attrazione del nuovo; il secondo, il desiderio di originalità personale attraverso l’
affermazione dei segni di appartenenza all’elite. Ma il desiderio di originalità, non appena la moda
si diffonde, si muove in senso contrario: l’unico, moltiplicandosi, diviene standard. La cultura di
massa svolge una funzione capitale nella moda moderna: è strumento di democratizzazione imme-
diata di quanto è aristocratico, consente al pubblico di imitare rapidamente l’elite; e si pone al servi-
zio dell’adesione identificativa con tutti i suoi mezzi. Con la cultura di massa opera una dialettica di
aristocratizzazione e di democratizzazione, svolta a tutti i libelli per standardizzare infine presso il
grande pubblico le gioie della super-individualizzazione aristocratica. Così la cultura di massa, sul
piano della moda femminile, rivela la funzione che le è propria: dà accesso ai grandi archetipi divi-
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stici, procura il prestigio dell’alta individualità e della seduzione; in breve, consente l’identificazio-
ne mimetica. Nello stesso tempo, alimenta l’ossessione dei consumi, la cui importanza come stimo-
lo economico cresce costantemente nelle società occidentali. Il focolare domestico, il benessere, la
moda, l’erotismo, sono i settori in cui la cultura femminile è essenzialmente pratica. Per contro, l’
immaginario si estende nei domini del cuore: racconti, romanzi, fotoromanzi, cine-romanzi, ecc. Ma
qui bisogna notare che nei domini del cuore si definiscono tre zone precise: prima di tutto la zona
tutelare (posta delle lettrici, problemi sentimentali, annunci matrimoniali); poi la zona della realtà
romanzata e del realismo romanzesco, che ingloba romanzi, novelle, biografie sentimentali delle ce-
lebrità, informazioni fiabesche sull’esistenza dei divi; infine, viene la zona dei cine-romanzi e dei
fotoromanzi della stampa sentimentale. In questi feuilleton illustrati si ritrovano i vecchi temi del
romanzo popolare del XIX secolo, con orfanelle, castelli, misteri di nascita, orribili malintesi, perfi-
di felloni, cuori puri. La stampa femminile presenta dunque il microcosmo dei valori pratici fonda-
mentali della cultura di massa, l’affermazione dell’individualità privata, il benessere, l’amore, la fe-
licità. E questi valori fondamentali sono, in effetti, dei valori prettamente femminili. I temi maggiori
delle femminilità si sviluppano anche negli altri ambiti della cultura di massa: la stampa non fem-
minile non è maschile, ma femminile-maschile, e ingloba tutti i temi della stampa femminile (moda,
cuore, consigli pratici, vite romanzate, ecc.). Ma la preponderanza della femminilità si manifesta nel
fenomeno delle cover-girl. Il fatto che nei settimanali femminili predomini il volto della donna e
non quello dell’uomo, indica che il punto essenziale è il modello di identificazione della donna se-
ducente, e non l’oggetto da sedurre. La coincidenza della donna soggetto e della donna oggetto as-
sicura l’egemonia del volto femminile. È il regno non soltanto della donna soggetto-oggetto, ma dei
valori femminili, rispetto ai quali, nel complesso della cultura, non ci sono modelli di identificazio-
ne maschile capace di porsi in concorrenza. Occorre esaminare l’archetipo della donna moderna:
donna certamente emancipata, ma la cui emancipazione non ha attenuato le due funzioni, seduttrice
e domestica, della donna borghese. L’emancipazione della donna ha luogo non soltanto mediante la
promozione sociale, ma attraverso l’iper-erotizzazione e la trasformazione delle servitù domestiche
in controllo elettrodomestico. Il modello della donna moderna può essere così condensato in tre im-
perativi: sedurre, amare, vivere bene. Ma la sintesi più stupefacente è quella che si raggiunge tra l’e-
rotismo e il cuore: in Gilda, reincarnata in seguito dalla grandi stelle eredi di Rita Hayworth, si può
riconoscere un tipo femminile originale denominato good-bad girl. La good-bad girl ha l’apparenza
di una prostituta o di una vamp, ma il film ci rivela che ha un’anima candida, e un cuore che cerca
soltanto il grande amore. Questa immagine cinematografica è la rappresentazione sublimata della
donna moderna: imbellettata e agghindata da pupattola d’amore, ma ansiosa di un grande amore, di
tenerezza e di felicità. Nello stesso tempo, l’uomo si femminizza: diviene più sentimentale, più te-
nero, più debole. Al padre autoritario succede il padre materno, al marito padrone succede il com-
pagno, all’amante deciso succede l’amante velleitario. Inversamente, l’emancipazione mascolinizza
certi comportamenti femminili: l’autodeterminazione sociologica conquistata dalla donna diviene
autodeterminazione psicologica. Sotto le apparenze femminile emergono comportamenti autonomi
e assertivi. Un modello della donna autodeterminata nel comportamento amoroso trova il suo com-
pimento attuale nell’eroina di Hiroshima mon amour. Il rovesciamento delle parti, in cui la donna
assume l’iniziativa e l’uomo, stranamente, sembra sulla difensiva, ha dato logo a numerose osserva-
zioni psicoanalitiche. Segno che l’attuale decadenza della virilità è forse profonda. Così, non soltan-
to i valori femminili si incarnano e divengono operanti nella società, mentre i valori virili evadono
nei sogni o si attestano negli sport e nei giochi: ma viene a delinearsi e a imporsi un modello di don-
na analogo a quello delle grandi dee dell’Asia Minore, vergini e prostitute, accompagnate dal ma-
schio servo,dall'amante satellite. Anche l’uomo resta immagine ideale, virile e al tempo stesso tene-
ra, protettrice e protetta, ma non più immagine dominante. 26
Capitolo sedicesimo. La giovinezza
Nelle società arcaiche, il vecchio è colui che detiene l’autorità della saggezza. Con lo sviluppo delle
civiltà, l’autorità dei vecchi si degrada, l’accesso allo stato adulto è rallentato; non c’è rottura netta
tra l’infanzia e la maggiore età. Il tipo d’uomo che si impone nelle società storiche è l’uomo adulto.
Ma nel mondo contemporaneo, l’uomo adulto subisce la concorrenza dell’uomo giovane, e persino
giovanissimo. Ogni spinta giovanile corrisponde a un’accelerazione della storia: ma più largamente,
in una società in rapida evoluzione, e soprattutto in una civiltà in divenire accelerato come la nostra,
l’essenziale non è più l’esperienza accumulata, ma l’adesione al movimento. L’esperienza degli an-
ziani diviene desueto almanaccare, anacronismo. La saggezza dei vecchi si muta in vaneggiare. L’u-
niversale ascesa dei giovani nelle gerarchie, corrisponde all’universale svalutazione della vecchiez-
za, che non soltanto non può più rendere operativa la propria esperienza, ma non può aderire ai va-
lori che crescentemente si impongono, quali l’amore, il gioco, il presente. La vecchiezza diviene
come distaccata, rigettata dal corso reale della vita, diviene il mondo di quelli che se ne stanno an-
dando. A questa degerontocratizzazione corrisponde una paidocratizzazione: se il 1789 segna il sor-
gere delle giovani forze politiche (Robespierre, Saint-Just), sin dal 1777, I dolori del giovane Wer-
ther annuncia l’affermazione del giovanilismo culturale. Il romanticismo è un immenso movimento
di fervore e di disillusione giovanili, che succede al crollo del vecchio mondo e annuncia le aspira-
zioni dell’uomo nuovo. In Francia, dopo l’effimera restaurazione pétainistica dei valori senili, nel
1944 si verifica l’irruzione in politica dei vari Chaban-Delmas, Kriegel-Valrimont, Mitterrand, ecc.
Dopo una relativa regerontocratizzazione della politica, a partire dal 1950 si manifesta, nella cultura
di massa, il movimento della nouvelle vague. Ci si può chiedere se l’opposizione delle generazioni
non divenga, in un certo momento, una delle maggiori opposizioni della vita sociale: non c’è una
differenza maggiore, nel linguaggio e nell’atteggiamento verso la vita, tra il giovane e il vecchio
operaio, che tra questo giovane operaio e lo studente? La grande famiglia fondata sull’autorità del
padre ha lasciato spazio al nucleo ristretto fondato sulla coppia. L’emancipazione della donna e la
promozione generalizzata dei valori femminili hanno detronizzato il sovrano mascolino. I nuovi pa-
dri sarebbero ormai incapaci di imporre un’autorità alla quale non credono. Il padre non fissa più
radicalmente il complesso di proiezione e di identificazione, quel conflitto fatto di rivolta e di am-
mirazione, di rifiuto di imitare e di imitazione, attraverso il quale si operava la trasfigurazione del
fanciullo in adulto. L’assenza del padre è risentita come vuoto, angoscia, noia. Senza dubbio so-
pravvive un appello inconscio verso il padre ideale, autoritario ma umano, che è mancato alle vitti-
me sempre più numerose di un padre troppo umano. Da parte sua, la madre che lavora, la madre
sempre giovane che vuole vivere il più a lungo possibile la propria vita, perde anche lei qualcosa
della sua presenza ossessiva e oceanica per il bambino. I bambini dell’età nuova, vezzeggiati dai
genitori come mai è successo in passato, non vi ritrovano tuttavia l’immagine della Madre, sovrana
che tutto avvolge, e quella del Padre, sovrano che tutto ordina. Queste grandi immagini, che hanno
imperato nelle religioni e nei miti, si disperdono nell’immaginario moderno. L’ossessione dei geni-
tori ha segnato l’immaginario fino agli anni Sessanta. Dalla tragedia antica al romanzo popolare, la
famiglia rimane il luogo delle discordie esistenziali; il melodramma trova la sua molla nel mistero
della nascita (bambino abbandonato o sottratto), nelle figure del patrigno e della matrigna. Ma il
rapporto immaginario padre-figlio, e più largamente figli-genitori, a partire dal XVI secolo segue a
suo modo l’evoluzione reale. Nei secoli XVI-XVII, Amleto e il Cid aprono una breccia nell’obbe-
dienza incondizionata al padre. Amleto esita a obbedire all’imperativo di vendetta del padre assas-
sinato. Non aderisce del tutto alla logica implacabile della vendetta familiare: è troppo preoccupato
dei propri problemi. In questa esitazione si infiltra la modernità, cioè la mancata identificazione con
il padre. Soltanto in extremis Amleto compirà l’atto di identificazione. Nel Cid, Rodrigo resta certa-
mente fedele all’esigenza paterna, e respinge l’esigenza dell’amore; ma Chimene è autorizzata dalla
nuova legge, di cui è simbolo il re, a dimenticare la vendetta. Stavolta la modernità trionfa: al di so-
pra del padre c’è da una parte il re (cioè il dovere nazionale), e dall’altra l’amore. I comics e i film
americani impongono il regno dell’eroe senza famiglia. Un uomo e una donna, soli nella vita, si in-
contrano o affrontano il destino. La scomparsa del tema dei genitori occupa una zona vasta e centra-
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le della cultura di massa. L’invisibilità dei genitori è il tema significativo del cinema americano, an-
corché ci siano settori in cui la famiglia appare come tema euforico o operettistico e non manchi il
settore marginale del padre o della madre decaduti. Il saggio vegliardo è divenuto il vecchietto in
pensione, l’uomo maturo, colui che sta per crollare. Il padre decaduto o benevolo scompare in una
grigia dissolvenza nell’immaginario cinematografico. La donna è dappertutto presente, ma la madre
avvolgente è scomparsa. Il nuovo modello è l’uomo alla ricerca della realizzazione di sé, attraverso
l’amore, il benessere e la vita privata. È l’uomo e la donna che non vogliono invecchiare, che vo-
gliono restare sempre giovani per amarsi sempre e godere sempre del presente. Il tema della giovi-
nezza non concerne soltanto i giovani, ma anche coloro che invecchiano: che non si preparano alla
senescenza, ma al contrario lottano per restare giovani. Negli anni Trenta, le dive cinematografiche
non superavano i venticinque anni, e i divi i ventotto-trenta anni. Trascorso questo stadio, erano
condannati a decadere. Dopo la guerra, i limiti d’età si sono ampliati. Ormai ci sono attori ancora in
attività che superano la cinquantina come Marlene Dietrich, Joan Crawford, Gary Cooper, Clark
Gable. Ciò non significa che la giovinezza abbia cessato di essere un’esigenza del cinema, ma che l’
età di invecchiamento è arretrata. L’attore giovane continua sempre a essere attore giovane; crono-
logicamente, questi attori invecchiano, ma fisicamente e psicologicamente restano giovani, cioè at-
tivi, avventurosi, innamorati. L’industria del ringiovanimento, nata dal maquillage hollywoodiano, è
divenuta non soltanto un’arte di mascherare l’invecchiamento, ma un’arte di porre riparo all’oltrag-
gio degli anni: la chirurgia estetica, i massaggi, le sostanze a base di embrioni o di estratti rigenera-
tori, mantengono o resuscitano le apparenze della giovinezza, e giungono persino a ringiovanire ef-
fettivamente i tessuti; parimenti, tutti i sentimenti che corrispondono alla giovinezza restano vivi, in
particolare l’amore. Nella scia dei divi, anche il ringiovanimento si democratizza. Una nuova arte è
sorta, quella dell’estetica, che si va diffondendo sin nei rioni delle metropoli e nelle piccole città,
procurando simultaneamente giovinezza e bellezza. La vecchiezza è svalutata, e l’età adulta ringio-
vanisce. La giovinezza, a sua volta, non è più propriamente la giovinezza, ma l’adolescenza. L’ado-
lescenza sorge come generazione nella civiltà del XX secolo. Le società arcaiche operavano un bru-
sco passaggio dall’infanzia all’età adulta mediante i riti di iniziazione; l’adolescenza in quanto tale
non appare che quando il rito sociale dell’iniziazione perde la sua virtù operativa, decade o scompa-
re. L’adolescenza è infatti l’età della ricerca individuale dell’iniziazione, il passaggio tormentato tra
un’infanzia che non è ancora finita e una maturità non ancora assunta, tra una presocialità (appren-
distato, studi) e una socializzazione (lavoro, diritti civili). L’abbozzo dell’adolescente compare nell’
antichità con l’efebo ateniese e soprattutto con il personaggio di Alcibiade. Ma l’inquietudine dell’
adolescenza sembra compiuta in Dafni e Cloe, come lo sarà in Romeo e Giulietta, ragazzi che si a-
mano come adulti. Bisognerà attendere il Cherubino del Matrimonio di Figaro e il giovane Werther,
perché prenda corpo davvero un personaggio autenticamente nuovo, incerto, instabile, contradditto-
rio; non ragazzo da una parte e adulto dall’altra, ma torbido incontro delle potenzialità di entrambe
le età. Da questo momento, l’adolescenza troverà il modo di esprimersi direttamente, portando la
poesia alla sua dimensione moderna: Shelley, Novalis e Rimbaud svelano i segreti dell’adolescenza.
Nell’adolescenza la personalità sociale non è ancora cristallizzata: i ruoli non sono ancora irrigiditi
in maschere sui volti, l’adolescente è alla ricerca di se stesso e della condizione adulta, da cui una
prima e fondamentale contraddizione tra la ricerca dell’autenticità e la ricerca dell’integrazione nel-
la società. Verso la metà del XX secolo, tutte queste tendenze individuali sparse hanno trovato una
consistenza sociologica: la costituzione di una generazione adolescente ha luogo non soltanto nella
civiltà occidentale, ma su scala mondiale. Si osserva una tendenza, comune ai gruppi di adolescenti,
ad affermare la propria morale, a ostentare la propria uniforme (blue-jeans, giubbotti di pelle), a se-
guire la propria moda, a riconoscersi in alcuni eroi, proposti dal cinema (James Dean, Belmondo) o
portati alla luce dai fatti di cronaca, mentre una sensibilità adolescente si infiltra nella cultura di
massa (film della nouvelle vague, romanzi della Sagan). L’adolescenza attuale è profondamente de-
moralizzata dalla noia burocratizzata che trasuda dalla società adulta, e forse più ancora dall’incon-
sistenza e dall’ipocrisia dei valori istituiti; e forse profondamente segnata da quel sentimento di an-
nientamento e di possibile suicidio dell’umanità, a cui si invita la bomba atomica. Tuttavia, nella 28
cultura di massa, l’adolescenza guadagna uno stile estetico-ludico che si adatta al suo nichilismo,
un’affermazione dei valori privati che corrisponde al suo individualismo, e quell’avventura imma-
ginaria che nutre, senza saziarlo, il suo bisogno di avventura. James Dean è stato il primo e il su-
premo eroe dell’adolescenza, impersonando furore di vivere e ribellione giovanile, frenesia e stan-
chezza, aspirazione alla pienezza e fascino del rischio; nella sua scia vennero Anthony Perkins e
Belmondo. Il rock and roll fu quindi l’occasione di una nuova esplosione dell’adolescenza su scala
mondiale. Ormai un settore specifico della cultura di massa è dedicato agli eroi e ai valori dell’ado-
lescenza. La cultura di massa tende a integrare i temi dissonanti dell’adolescenza nell’armonia dello
standard, a istituire un “Olimpo dei minori di vent’anni”. Nello stesso tempo, tende a smussare gli
angoli, ad atrofizzare la violenza. I rapporti di protezione-identificazione tra l’adolescenza e la cul-
tura di massa funzionano in modo meno ordinato che per gli adulti: laddove per gli adulti il mondo
della gang, della libertà e del crimine sono pacifiche evasioni proiettive, questi temi possono diveni-
re modelli di comportamento per gli adolescenti; da cui certi effetti della cultura di massa, del ci-
nema in particolare, sulla delinquenza minorile. Esiste un’affinità tra il gruppo adolescente preso-
cializzato, fondato sui rapporti affettivi, e la gang, un’affinità tra il richiamo all’avventura, il grande
slancio al di fuori della legge del mondo immaginario, e l’aspirazione alla libertà, al rischio, l’oscu-
ra percezione del crimine come iniziazione. La cultura di massa diviene dunque ambivalente rispet-
to a un’età ambivalente. L’adolescenza è il fermento vitale della cultura di massa, che è allo stesso
tempo calderone di cultura e brodaglia che nutre e diluisce ogni fermento. Sul piano essenziale, l’
azione pratica dei grandi temi di identificazione della cultura di massa (amore, felicità, valori priva-
ti, individualismo) è più intensa sulla giovinezza, età plastica per eccellenza, che su ogni altra età.
La cultura di massa inizia le nuove generazioni alla società moderna. Reciprocamente, la giovinezza
sente più intensamente l’appello della modernità, e orienta la cultura di massa in tal senso. Nell’ado-
lescenza, dunque, i contenuti e gli effetti della cultura di massa si intensificano. I modelli dominanti
non sono più quelli della famiglia o della scuola, ma quelli della stampa e del cinema. Ma inversa-
mente questi modelli sono resi giovanili, omogeneizzati al pari di quelli femminili. Così la cultura
di massa disgrega i valori gerontocratici, accentua la svalutazione della vecchiezza, dà forma alla
promozione dei valori giovanili, assume una parte delle esperienze adolescenziali. Storicamente, la
cultura di massa accelera lo stesso rapido divenire di una civiltà. Sociologicamente, contribuisce al
ringiovanimento della società. Antropologicamente, verifica la legge del continuo ritardo dell’esi-
stenza, prolungando nell’adulto l’infanzia e la giovinezza. Metafisicamente, costituisce una protesta
senza limiti contro il male irrimediabile della vecchiezza.
Capitolo diciassettesimo. La cultura planetaria
Oggi il sistema delle comunicazioni di massa è un sistema universale. I film di Hollywood si dif-
fondono sui due terzi del pianeta, e comics e cine-romanzi guadagnano una circolazione internazio-
nale. Malgrado le differenze economiche, la cultura di massa penetra nei paesi asiatici e africani in
via di sviluppo. Naturalmente non si può predire se il nuovo corso russo raggiungerà il corso cultu-
rale occidentale. Ma è certo che le spore della cultura di massa sciamano ormai verso l’Unione So-
vietica. La cultura di massa è nella sua natura anazionale, astatale, antiaccumulatrice. I suoi conte-
nuti essenziali sono quelli dei bisogni privati, affettivi, immaginari o materiali. Ma è proprio questo
che fa la sua forza penetrante. I bisogni di benessere e di felicità, nella misura in cui sono stati uni-
versalizzati nel XX secolo, consentono l’universalizzazione della cultura di massa. La cultura di
massa, ovunque si espande, tende a distruggere le culture dell’hic e del nunc. Ma non distrugge il
folclore; piuttosto sostituisce agli antichi folclori un nuovo folclore cosmopolita: cover-boys e co-
ver-girls, rock and roll e sambe, quiz radiofonici e televisivi, ecc. Al cinema, le leggende biblico-
cristiane, le cavalcate di cappa e spada, i western, le avventure africane, costituiscono il tesoro leg-
gendario in cui la predominante hollywoodiana, cioè bianco-americana, non deve nasconderci gli
apporti europei, neri, indiani. Si va diffondendo, inoltre, un linguaggio non più sincretico, ma uni-
versale; il linguaggio delle immagini. Questo cosmopolitismo ha una natura antropologica, cioè un
fondo comune all’uomo di tutte le civiltà, che riguarda anche le passioni primarie o fondamentali, la
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