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Ambiguità dello straniero: ardente desiderio da una parte e ripulsa dall’altra (da parte del noi).

Radcliffe-Brown sostiene che la società sia paragonabile a un organismo, in cui i vari elementi sono

collegati da nessi di tipo funzionale, così da garantire il mantenimento della struttura nel suo

insieme. Parlare con gli altri, sposarsi con gli altri, guerreggiare con gli altri sono attività che

comportano sempre una qualche alterazione del noi, una modificazione del noi che consiste

nell’acquisizione di un qualche altro, nell’incorporazione di un suo frammento o aspetto del noi. Il

noi fa di tutto probabilmente perché l’interazione con gli altri e la loro inevitabile acquisizione siano

sottoponibili a controllo, non superino una certa soglia critica che costituirebbe una minaccia per la

sua integrità. La lontananza e la separazione non sono un fatto originario bensì un fenomeno

derivato, prodotto reattivamente dal noi. Il modello di rapporti tra noi e lo straniero che qui viene

proposto come primario è dunque determinato dall’idea del carattere intrinseco degli altri rispetto al

noi.

- Filone storicistico: Herder e Geertz;

- Filone strutturalistico: L. H. Morgan e Lévi-Strauss.

Se gli storicisti asseriscono che l’uomo è un animale essenzialmente incompleto sul piano biologico

e che per completarsi assume le forme sempre particolari e storiche della cultura in cui vive, gli

strutturalisti pongono in luce come alla base di ogni forma, organizzazione o sistema vi sia una

scelta di certi criteri ad esclusione di altri. In ogni caso la particolarità appare essere il prezzo

inevitabile che si paga per dare forma a ciò che gli uomini sono e fanno, alle loro azioni, ai loro

prodotti, ai loro significati.

Così vicino lo straniero offre al noi uno specchio di ciò che non siamo, ma avremmo potuto

diventare; indica le strade diverse che avremmo potuto prendere, diventando quindi non noi, ma

altri. In questo modo il senso della particolarità si traduce in un senso delle possibilità: noi siamo

così ma avremmo potuto essere diversamente e lo straniero non soltanto è più vicino ma è implicato

nella possibilità del noi, ovvero nelle sue stesse radici. Il confronto del noi con lo straniero non è

dunque soltanto esterno, occasionale e accademico, è invece anche interno, strutturale ed

esistenziale.

Triplice disagio:

1) Il disagio nasce dal senso della particolarità, specialmente quando il noi avverte lo scarto tra

le sue pretese di universalità, di unicità e di esclusività delle alternative possibili. Le società

provvedono in molti modi a sopperire al senso della precarietà ad esempio esigendo

costruzioni mitologiche, elaborando rituali, fissando costumi di pensiero e di azioni che

siano garanti dell’identità del noi. Nei casi di esogamia, di cannibalismo e di antropologia lo

straniero appare come una fonte irrinunciabile dell’alimentazione del noi. Il disagio della

particolarità viene in qualche modo alleviato procurandosi altre possibilità e integrandole

con le proprie. La soluzione a questa prima forma di disagio culturale è l’integrazione degli

altri in noi, è un cercare di sostenere il noi con le proteine di cui è possessore lo straniero;

2) La presenza degli altri e dello straniero in noi rischia di stravolgere la nostra stessa natura, di

aumentare i rischi di modificabilità del noi e quindi le ragioni del senso di precarietà. Questo

disagio nasce dunque dalle stesse procedure di integrazione degli altri, le quali si tramutano

immediatamente in minacce per l’integrità del noi. Alla luce dell’esigenza dell’integrità lo

straniero assume un volto del tutto negativo. Una volta introdotto lo straniero, il noi deve

essere in grado di metabolizzarlo, di assimilarlo al proprio essere, in modo che non si

produca la confusione tipica delle barbarie (es. nazismo);

3) Non vi è dubbio che il disagio della particolarità, la necessità dell’integrazione, nonché la

minaccia dell’integrità possano essere attentamente considerate anche al di fuori di una

prospettiva noi-centrica, ossia in una prospettiva in cui il riconoscimento dell’essenzialità

dello straniero in noi si spinge fino al punto di rinunciare all’immagine del noi come corpo

unico ed esclusivo. Non un noi corposo e reificato ma un noi mobile e radicalmente

situazionale si presenta come la prospettiva migliore per riconoscere ed accogliere lo

straniero, senza cadere nelle angosce torbide ed oscure delle minacce di imbarbarimento, e

rivalutando al contrario, come tipica della cultura, una buone dose di eterogeneità, di

confusione, di dissonanze e di contrasti, insomma proprio “quella cosa fatta di stracci e

toppe chiamata civiltà” di cui parla Lowie.

- Comunicazione (4)

Viviamo in un mondo inter-connesso, sempre più intrecciato e connesso nel quale un evento locale

può avere ripercussioni a catena ben oltre i limiti politici e culturali del suo accadere. In tale mondo

è difficile sottrarsi alla rete delle interconnessioni, ritagliarsi angoli esclusivi, costruirsi nicchie

protette. Ad esempio la pubblicazione di alcune vignette satiriche relative a Maometto su un

giornale danese nel 2005 ha provocato disordini e proteste di piazza, con distruzione di ambasciate

non solo in tutto il Medio Oriente e in Indonesia ma anche in alcuni paesi dell’Africa e

dell’America. I mezzi di comunicazione di massa trasmettono le vignette e i loro possibili

significati in ogni parte del mondo grazie al raggio di azione globale. I soggetti che le ricevono

possono essere molto diversi tra loro, e possono anche essere diversi dai soggetti a cui le immagini

erano originariamente indirizzate.

La dimensione del senso e dell’intenzionalità si arricchisce di almeno due elementi:

- Attesa: si è culturalmente programmati per ottenere dall’altro un certo tipo di

comportamento;

- Risposta: si attende dall’altro un certo tipo di comportamento perché si ha dell’altro una

certa immagine composta sia di esperienze precedenti sia da pregiudizi.

Sia l’elemento attesa che l’elemento risposta non dipendono soltanto dall’immagine che noi

abbiamo dell’altro ma dipendono anche dall’immagine che noi abbiamo di noi stessi e va da sé che

l’immagine di noi stessi è strettamente correlata all’immagine che ci facciamo degli altri, e

viceversa.

Il dialogo comporta il riconoscimento dell’alterità, della sua presenza, della sua imprescindibilità.

Occorre però chiedersi: a) le condizioni che lo rendono possibile; b) le modalità mediante cui può

realizzarsi; c) i contenuti/temi che lo sostanziano; d) i soggetti che lo possono attivare e che possono

essere coinvolti.

Conviene collocare la nozione di dialogo nella categoria “comunicazione interculturale”.

L’Europa ha a lungo concepito la comunicazione interculturale di cui era protagonista come un

discorso a senso unico: che fosse animata dal desiderio di oro, di spezie o di pellicce, la sua

espansione a livello mondiale veniva concepita come una diffusione di verità assoluta, universale e

incontestabile. Ad es. il cristianesimo è una religione che ha accompagnato e sostenuto l’Europa

nella sua espansione mondiale. Oltre alla sicurezza teologica, l’Europa moderna si avvantaggiava

però anche di una sicurezza epistemologica: la scienza. Con o senza Dio, l’Europa ha in ogni caso

preteso di costruire un sapere universale riguardante la storia, oltre che la natura, ed è con questo

sapere che si è sentita legittimata a distruggere le culture altrui, obbligando le società extraeuropee a

incamminarsi lungo la strada che avrebbe condotto tutti gli esseri umani verso la civiltà moderna,

sia essa da intendere come capitalismo, socialismo o qualsiasi altra cosa. Ad esempio la borghesia

voleva trascinare nella civiltà anche le nazioni più barbare. Proviamo ora a togliere l’idea che vi sia

un noi depositario di una verità universale.

Invece che pensare a una verità universale, si ritiene importante considerare i contenuti culturali

mediante cui gli esseri umani modellano se stessi e orientano le proprie vite, individuali o collettive.

Diviene facile, a partire da questa seconda concezione, sollevare il dubbio che la verità universale

sbandierata da un qualche noi non sia altro che una cultura (una religione o un sapere)

universalizzata.

Sostituire la cultura alla verità, ritenere che i noi si alimentino soprattutto di cultura, fa sì che si

generi un senso di parità: tutti i noi sono culturali, sono fatti di cultura, e nessuno di essi può

pretendere perciò di imporsi sugli altri, brandendo una verità assoluta.

Completezza/incompletezza bivio nella costruzione del noi:

- Concezione 1: i noi si diversificano e si gerarchizzano secondo che siano completi o carenti

di verità e la comunicazione va da chi è completo e chi è incompleto;

- Concezione 2: tutti i noi sono a loro modo completi (completi di cultura, non di verità) e la

cultura svolge qui una insostituibile funzione di riempimento di vuoti in quanto essa

interviene a colmare le carenze e i vuoti della natura umana. La cultura non è in grado di

elaborare forme di umanità universali, essa offre completezza. Le culture particolari che

finiscono per essere mondi chiusi e relativamente completi non avvertono l’esigenza di una

comunicazione interculturale in nessuna direzione;

- Concezione 3: l’incompletezza biologica dell’uomo richiede sì l’intervento della cultura

come nella concezione 2, ma la cultura, sempre particolare, non svolge una funzione di

riempimento, bensì di sfrondamento e di riduzione; e questa incompletezza culturale appare

come la motivazione più profonda del ricorso all’alterità e alla comunicazione interculturale.

L’incompletezza non è dunque una condizione originaria e negativa a cui occorre porre

rimedio con azioni di completamento, è invece una condizione a cui si aspira e a cui occorre

giungere con azioni di in-completamento.

L’incompletezza è ciò che rende possibile e che anzi favorisce e stimola la comunicazione

interculturale; soltanto riconoscendo la propria incompletezza culturale una società si rende

disponibile alla comunicazione, la ricerca, la agogna. Qui la comunicazione interculturale non è un

semplice scambio di opinioni, si fa invece particolarmente intensa, configurandosi come la

condizioni indispensabile per la sopravvivenza dei gruppi, di noi e degli altri.

La concezione 3: in primo luogo non vagheggia un mero ideale, essa descrive una sit

Dettagli
A.A. 2017-2018
22 pagine
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SSD Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-DEA/01 Discipline demoetnoantropologiche

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher alessandro.lora-1993 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Antropologia culturale e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli studi di Torino o del prof Favole Adriano.