Riassunto esame costituzionale II, testo consigliato I diritti fondamentali, autore Paolo Caretti
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riguardo alla normativa apposita prevista in relazione alle condizioni di ingresso nel territorio
nazionale e alle condizioni di soggiorno sul territorio nazionale. Uno status particolare è quello dei
rifugiati, ossia i cittadini stranieri che, per il timore fondato di essere perseguitati per motivi di
razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si
trovino fuori dal paese di cui hanno cittadinanza. Diversa ancora è la disciplina del diritto d’asilo,
riconosciuto allo straniero a cui sia impedito, nel suo paese, l’effettivo esercizio delle libertà
democratiche garantite dalla Costituzione italiana.
In definitiva, ai cittadini di altri Stati membri europei è riconosciuto uno status del tutto peculiare
che li distingue dagli altri stranieri. In questo senso, con il Trattato di Maastricht è stata disciplinata
la nozione di cittadinanza europea, che si acquista in virtù del possesso della cittadinanza di uno
degli Stati membri e comporta il rinascimento di una serie di diritti. Presenta quindi ancora un
carattere derivato e complementare rispetto alla cittadinanza nazionale, affiancandola senza
sostituirvisi.
FORMAZIONI SOCIALI
L’art 2 Cost garantisce il riconoscimento dei diritti inviolabili anche nelle formazioni sociali. Si tratta
di una grande novità rispetto sia all’ordinamento statutario sia a quello fascista, in cui le formazioni
intermedie fra Stato e cittadini erano trattate con grande diffidenza. Tale garanzia ricompense tutte
quelle formazioni che nascono spontaneamente nella comunità per le più diverse finalità, e dunque
consente l’espansione del principio pluralistico anche nelle istituzioni.
Non vi è tuttavia un perfetto parallelismo tra l’individuazione dei diritti inviolabili dell’uomo come
singolo e di quelli delle formazioni sociali, in quanto taluni diritti sono ontologicamente solo propri
del singolo mentre, viceversa, alle formazioni sociali sono riconosciuti tutti i diritti funzionali al
perseguimento delle finalità che si propongono di raggiungere. Un altro profilo problematico è
quello del rapporto fra associato e formazione sociale, nel senso della riferibilità o meno dell’art 2
ai diritti del singolo all’interno della formazione stessa. I profili toccati sono due: da un lato, la
libertà di costituire associazioni con fini statuari e, all’interno, il profilo dell’autorganizzazione
interna, dall’altro, i diritti dei singoli verso le associazioni stesse. In particolare, si è affermata l’idea
per cui la libertà di associazione vale come limite non solo nei confronti dei pubblici poteri ma
anche verso gli stessi associati, i quali diritti individuali dovranno pertanto cedere di fronte
all’esercizio delle attività associative.
Logicamente, tanto le formazioni sociali sono titolari di diritti, quando ad esse si estendono anche i
“doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (nuovamente, solo quelli riferibili ai
fenomeni associativi, non quelli che hanno come destinatari i singoli).
LIMITI ALL’ESERCIZIO DEI DIRITTI FONDAMENTALI
La nostra Costituzione ha accolto il principio della tassatività dei limiti all’esercizio dei diritti di
libertà, a cui corrisponde il principio della presunzione della massima espansione delle norme
costituzionali, ossia interpretazione estensiva delle norme relative.
Il limite centrale è quello legato alla capacità giuridica, presupposto che catalizza in sé gli stessi
diritti inviolabili e doveri inderogabili: i diritti costituzionali di libertà sono, per loro natura,
“personalissimi” e dunque inidonei ad essere trasferirti o ad essere esercitati da altri. Per godere di
tali diritti risulta allora indispensabile disporre di una capacità naturale che consistente nella
capacità di compiere le attività materiali in cui le libertà si estrinsecano, oppure nella capacità di
agire ex art 2 cc. Tra i limiti all’esercizio dei diritti fondamentali troviamo dunque l’età, per cui ad
esempio ai minori è precluso il diritto di voto e sono imposte limitazioni connesse alla potestà
genitoriale. Altri limiti derivano invece dal particolare status degli stranieri, nonché dalle c.d.
situazioni di soggezione speciale, ossia le ipotesi di ridotta capacità giuridica causata
dall’inserimento del soggetto in strutture che richiedono particolari restrizioni a suo carico (es
militari, detenuti, malati).
La rilevanza del concetto di capacità giuridica viene ribadito dall’art 22 Cost: “Nessuno può essere
privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome”. Si tratta
evidentemente di un riferimento all’esperienza fascista, ma la sua portata va oltre il riferimento al
passato, arrivando a porre un limite al legislatore diverso e più ampio di quello previsto all’art 3
Cost. Un’eccezione a tale disposizione è contenuta nella disposizione XIII finale della Costituzione,
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la quale pone restrizioni al diritto di elettorato e alla libertà di circolazione e soggiorno in capo alla
casa Savoia, ma una legge costituzionale del 2002 ne ha fatto venir meno gli effetti. Tuttora
vigente è invece la disposizione XIV che sancisce l’irrilevanza dei titoli nobiliari, i quali valgono oggi
come parte del nome. La giurisprudenza ha comunque affermato che ciò non comporta una
lesione del diritto al nome in quanto attiene ad una dimensione ormai priva di tutela.
- LIMITI GENERALI
I limiti generali sono riconducibili alla necessità come fonte del diritto e ai vari obblighi di carattere
generale rinvenibili nel testo costituzionale. Il tema della necessità può essere affrontato sotto vari
profili: è innanzitutto la fonte “naturale” diritto, ma è anche fonte “straordinaria”, ossia quando il
diritto ne prevede l’ingresso nella forma ma lascia libera la sostanza (es decreti legge). Invece,
parlando di “necessità come fonte del diritto” si allude a quelle situazioni di emergenza che
determinano, in nome della salus rei publicae, nuove norme non previste dall’ordinamento e in
contrasto con quelle collocate sul più alto gradino gerarchico.
Il Costituente non ha tuttavia accolto alcuna proposta volta ad introdurre poteri governativi di
sospensione delle libertà costituzionali in casi eccezionali, salva la successiva ratifica del
Parlamento, e questo probabilmente per il ricordo degli istituiti abusati in epoca pre-fascista (stato
d’assedio) e fascista (stato di pericolo pubblico). Nel silenzio della Costituzione, una prima
alternativa è stata quella di riferirsi all’art 78, dunque alla deliberazione dello stato di guerra: si è
allora sostenuta la sua estensibilità anche alle situazioni di conflitto interno, sulla base del
presupposto che esso sancisce in ogni caso il primato del Parlamento quale unico organo abilitato
a deliberare lo stato di emergenza. Altri si sono invece riferiti alla possibilità di ricorrere ad appositi
decreti legge in quanto atti adottati in casi straordinari di necessità ed urgenza; tesi a cui si è
peraltro riferita la Corte costituzionale in un’occasione. Da ultimo, è stata avanzata l’ipotesi
interpretativa seco cui, in caso di emergenza costituzionale, si debba propendere per l’adozione di
una legge costituzionale ad hoc; questa appare proprio la tesi più condivisibile, ma evidentemente
la quesitone rimane aperta.
Nell’ordinamento precostituzionale, strumenti utilizzati in funzione di sospensione dei diritti
fondamentali furono anche le ordinanze di necessità e di urgenza. Tra queste, la più significativa
era sancita dal t.u. delle leggi di pubblica sicurezza del 1931 che autorizzava il prefetto, in caso di
urgenza o per grave necessità pubblica, ad adottare i provvedimenti indispensabili per la tutela
dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica. Le ordinanze sono rimaste nel nostro ordinamento,
con i limiti imposti loro dalla Corte costituzionale di rispetto della Costituzione e della riserva di
legge: si tratta di provvedimenti amministrativi adottati proprio al fine di fronteggiare situazioni di
grave pericolo, con la peculiarità di poter derogare anche alle prescrizioni legislative vigenti. La
legislazione più recente ha poi affiancato a queste un altro tipo di ordinanze, con riferimento non
solo a calamità o catastrofi naturali ma anche ad “altri eventi” (e a prescindere dalla deliberazione
dello stato di emergenza), che devono essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari per
intensità ed estensione. Tale tendenza legislazione lascia evidentemente intravedere un potere di
deroga di portata indefinita e prolungata, se non addirittura la possibilità di far assumere contenuti
stabili ad alcune ordinanze, con molti fondati dubbi sulla sua legittimità costituzionale.
Limiti all’esercizio dei diritti di libertà sono poi i doveri inderogabili di solidarietà previsti dal
Costituente stesso, ma passibili di essere aumentati dalla legislazione ordinaria.
Da ultimo si è molto discusso circa la possibilità di annoverare fra i limiti generali quello dell’ordine
pubblico, non menzionato espressamente dalla Costituzione ma ritenuto operante dalla Corte
costituzionale pure nell’accezione di “ordine pubblico costituzionale”. Tuttavia, ciò che non
convince è la sua qualificazione come limite generale, dunque applicabile a tutti i diritti di libertà, in
quanto ciò rischierebbe di limitare il principio di tassatività dei limiti accolto: appare allora più
ragionevole ricostruirlo come riassuntivo dei limiti speciali. È infatti solo laddove la Costituzione fa
espressa menzione di questi limiti speciali che si può parlare di esigenze di ordine pubblico come
legittime limitazioni ai diritti di libertà.
- LIMITI SPECIALI
Sono limiti che risultano dalle singole disposizioni costituzionali che disciplinano i singoli diritti di
libertà, e operano soltanto nei confronti di questi in cui sono espressamente previsti:
sicurezza pubblica, punta a consentire l’esercizio di attività finalizzate alla prevenzione di reati. È
• generalmente previsto all’art 16.I Cost, ma anche dall’art 17.III in relazione alla libertà di riunione
e dall’art 41.II in relazione all’iniziativa economica. Si ritiene inoltre operante anche in relazione
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agli artt 13 e 14 laddove giustificano, in casi eccezionali e delimitati, misure temporanee limitative
della libertà personale e di domicilio.
sanità e incolumità pubblica, da interpretare in stretto collegamento con la tutela del diritto alla
• salute ex art 31, ossia non solo come diritto dell’individuo, ma anche come interesse della
collettività. Tale previsione giustifica tutta una serie di restrizioni, fra cui ad esempio la
legislazione sui trattamenti sanitari obbligatori. Alla sanità e incolumità pubblica si riferisce inoltre
sia l’art 14.III in materia di libertà di domicilio, sia l’art 16.I in relazione alla libertà di circolazione e
soggiorno.
buon costume, unico espressamente previsto nei confronti della libertà di manifestazione del
• pensiero in ognuna delle sue diverse accezioni. Si ritiene che ne siano escluse solamente le
manifestazione del pensiero collegate alla scienza e all’arte, le quali godono, ex art 33, di una
tutela più accentuata. La nozione si riferisce, oggigiorno, non più all’ampia “morale comune” o
“etica sociale”, bensì alla sfera più ristretta del pudore sessuale, in particolare riferita alla
speciale tutela dello sviluppo della personalità dei minori. È evidentemente necessaria un’attenta
valutazione dei fatti da parte degli organi giudiziari, e questo comporta un uso prudente dello
strumento punitivo.
dignità umana, collegata strettamente al canone fondamentale dell’art 2 e deriva dal principio
• personalistico.
interesse patrimoniale dello Stato, rinvenibile in diverse disposizioni costituzionali, fra cui gli artt
• 23 e 53 in relazione al dovere contributivo e l’art 14.III in relazione alla libertà di domicilio. In
generale, tale limite e da ritenersi operante in tutte quelle disposizioni attraverso cui lo Stato
esercita una funzione perequativa in vista dell’attuazione del principio di eguaglianza sostanziale.
TUTELA DEI DIRITTI FONDAMENTALI
Gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali si dividono in 2 categorie:
azionabili di fronte a LESIONI CAGIONATE DAI PUBBLICI POTERI
1. ABUSI COMMESSI DAL LEGISLATORE. Strumento principale di tutela è il controllo di
• legittimità costituzionale contro leggi o atti aventi forza di legge con contenuto contrario a
Costituzione. Negli anni, la Corte ha adottato particolari tecniche decisorie che le hanno
consentito di andare aldilà della schematica distinzione fra sentenza di accoglimento e rigetto:
in particolare, va ricordato il ricorso al parametro della ragionevolezza della legge e al giudizio
di bilanciamento tra interessi costituzionalmente rilevanti. In quest’ultimo caso, la Corte ha
affermato che, in caso di contrasto, il legislatore deve rispettare il criterio della proporzionalità,
nel senso che la compressione di un diritto a favore di un altro non può mai risolversi nella
lesione del contenuto essenziale dello stesso, ossia al di sotto di una misura minima che
renderebbe la situazione inammissibile. La Corte ha facoltà di sanzionare eventuali lesioni
derivanti anche da comportamenti omissivi, come ad esempio la mancata attuazione di norme
costituzionali programmatiche.
Il controllo opera solo successivamente all’entrata in vigore della legge, mentre l’unico
meccanismo preventivo previsto è esercitato dal Presidente della Repubblica in sede di
promulgazione delle leggi.
Un tema delicato è quello delle lesioni ai diritti di libertà da parte di una legge di revisione
costituzionale, risolta dalla giurisprudenza con l’individuazione di un nucleo di “principi
supremi”, fra cui appunto il contenuto essenziale della disciplina dei diritti di libertà, che non
sono suscettibili di alterazioni e modifiche nemmeno attraverso il procedimento di revisione
costituzionale.
ABUSI COMMESSI DAL GOVERNO. Possono derivare da:
• atti limitativi dei diritti fondamentali nella proclamazione dello stato di guerra, il rimedio è il
• ricorso al giudice per violazione dei poteri straordinari conferiti dal Parlamento.
atti adottati nell’esercizio di poteri straordinari, gli strumenti dipendono dalla natura
• dell’atto adottato, normativa o amministrativa.
Per gli atti normativi primari (decreti legislativi e decreti legge) gli strumenti sono analoghi
a quelli previsti per la legge, in quanto atti impugnabili di fronte alla Corte costituzionale e
oggetti di controllo preventivo da parte del PdR. Ma il ricorso a questi atti può comportare
anche un altro tipo di abuso, ossia la violazione della riserva di legge, soprattutto in
relazione alla decretazione d’urgenza: la Corte si è così avocata il potere di poter
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giudicare sulla “evidente mancanza” dei presupposti di straordinaria necessità ed
urgenza sia del decreto legge sia della legge di conversione dello stesso. Tuttavia, ad un
contrazione numerica dei decreti leggi è corrisposto l’aumento considerevole dei decreti
legislativi con un affievolimento nelle leggi di delega dell’indicazione die principi e criteri
direttivi. Ed è questo il motivo per cui la Corte costituzionale ha “preso di mira” la
legislazione delegata.
Per gli atti normativi secondari (regolamenti) il loro procedimento è “garantito”, in quanto
vede il coinvolgimento di più organi, ossia Consiglio dei Ministri, Consiglio di Stati, PdR e
Corte dei conti. Il contenuto è poi ulteriormente suscettibili di passare all’esame del
sindacato di legittimità esercitato dai giudici comuni, anche se è escluso dal sindacato di
legittimità costituzionale della Corte.
Per i provvedimenti amministrativi la tutela è assicurata principalmente dal sindacato
giurisdizionale, affermato dalla Costituzione secondo un sistema dualistico: la
magistratura ordinaria competente per i casi in cui si lamenta la lesione di diritti soggettivi
e la magistratura amministrativa competente per i casi in cui si lamenta la lesione degli
interessi legittimi e anche dei diritti soggettivi.
ABUSI DELLA FUNZIONE GIURISDIZIONALE. Vanno qui richiamati innanzitutto i principi
• costituzionali volti a tutelare la posizione del cittadino nei confronti del giudice nell’esercizio
delle sue funzioni:
diritto di difesa (art 24.I), è garantito a tutti il diritto ad agirebbe in giudizio a tutela dei
• propri diritti ed interessi legittimi. In attesa che questa disposizione fosse attuata nel
nuovo c.p.p., è stata la Corte costituzionale ad intervenire ed limare gli aspetti della
disciplina ereditata dal regime fascista, palesemente in contrasto con tale principio
costituzionale. La Corte ha inoltre precisato che il diritto di difesa, mentre consiste nel
diritto a farsi assistere da un difensore, non consiste anche nel diritto all’autodifesa inc
tanto la presenza del difensore è un elemento indispensabile. Nel 1990 il legislatore ha
allora introdotto il sistema di assunzione da parte dello Stato delle spese di patrocinio per
quei soggetti che abbiano un reddito inferiore ad una determina soglia (pur essendo un
criterio fortemente restrittivo).
diritto al giudice naturale precostituito per legge (art 25.I), si collega al principio per cui
• non possono essere istituiti giudici straordinari o speciale (art 102.II): entrambi mirano
evidentemente a garantire al cittadino la terzietà ed imparzialità del giudice. L’unica
deroga ammissibile al secondo principio è la presenza di quei giudici speciale da esso
direttamente richiamati e che già operavano prima del varo della Costituzione, ossia
Consiglio di Stato, Corte dei conti e Tribunali militari. La Carta ha significativamente
sancito l’importante novità dell’indipendenza giudiziale sotto due profili, come
indipendenza esterna nei confronti degli altri poteri dello Stato e come indipendenza
interna rispetto alla struttura organizzativa nell’ambito di cui esercitano le loro funzioni;
entrambe si collegano all’art 101.II per cui “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”.
Sotto il primo profilo, il Consiglio superiore della magistratura è titolare di un potere
disciplinare, mentre sotto ila secondo sono sanciti il principio di inamovibilità e il divieto di
operare distinzioni fra in magistrati se non in relazione alle loro differenti funzioni.
irretroattività della legge penale (art 25.II), nessuno può essere punti se non in forza di
• una legge entrata in vigore in precedenza al fatto. Da notare è che la materia penale è
l’unica rispetto a cui il Costituente ha sancito il principio di irretroattività, affermando
quindi l’ammissibilità di leggi retroattive in tutte le altre materie salvo un attento controllo
sulla loro ragionevolezza.
personalità della responsabilità penale (art 27.I), impedisce che il cittadino sia chiamato a
• rispondere per fatto altrui, ed elimina dunque la responsabilità oggettiva.
presunzione di non colpevolezza (art 27.II) fino a che non intervenga una sentenza di
• condanna definitiva. Si traduce nella direttiva al legislatore di regolamentare procedimenti
e istituiti processuali in modo che il soggetto coinvolto nella vicenda non ne subisca gli
effetti negativi anticipati rispetto al momento di accertamento delle responsabilità.
ricorso in Cassazione contro sentenze e provvedimenti limitativi della libertà personale
• (art 111.II), posto che potrà essere richiesto il riesame anche nel merito dell’ordinanza
che dispone un misura coercitiva davanti al c.d. Tribunale della libertà.
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diritto ad un giusto processo (art 111), integrato dalla l cost 2/1999. Consiste in:
• principio del contraddittorio tra le parti in condizioni di parità e di fronte ad un giudice
• terzo ed imparziale;
ragionevole durata dei processi, in relazione a cui è stato introdotto un meccanismo
• riparatorio accompagnato da uno specifico fondo (nel nostro ordinamento con la l
89/2001);
diritto, nel processo penale, della persona accusata di essere informata nel più
• breve tempo possibile e in maniera riservata;
garanzia del contraddittorio nella formazione della prova, sempre nel processo
• penale;
rigoroso rispetto del principio di non colpevolezza di fronte a dichiarazioni di una
• persona che successivamente si sottragga all’interrogatorio.
obbligo di riparazione dell’errore giudiziario art 24.III) e diretta responsabilità dei
• funzionari e dipendenti pubblici (art 28). Riguardo al primo profilo si tratta di una
riparazione qualificabile come diritto soggettivo e diretto ad ottenere un risarcimento tanto
del danno materiale quanto di quello morale. Quanto invece alla responsabilità civile dei
giudici, questa riguarda i casi in cui sono chiamati a rispondere personalmente del danno
ingiustamente recato ad un soggetto sottoposto alla loro giurisdizione nell’esercizio della
stessa. Riguarda i casi di dolo o diniego di giustizia, ma anche il caso della colpa grave.
azionabili di fronte a LESIONI DOVUTE A COMPORTAMENTI DEI PRIVATI. Tale tutela è prima
2. di tutto penalistica, a cui si aggiunge quella civilistica, restitutoria o risarcitoria che sia. In molti
casi la tutela si esplica attraverso la diretta applicazione da parte dei giudici delle norme
costituzionali.
TUTELA DEI DIRITTI FONDAMENTALI IN AMBITO INTERNAZIONALE
CEDU
•
Le garanzie giurisdizionali della tutela dei diritti fondamentali nell’ambito della CEDU si fondano
tutte sul suo art 13, il quale riconosce ad ogni individuo che lamenta una violazione dei diritti e
delle libertà sancite nella Convenzione, il diritto ad un ricorso effettivo davanti ad un tribunale
nazionale. Il riferimento al ricorso effettivo è fondamentale in quanto garantisce la sussidiarietà del
circuito internazionale rispetto a quello nazionale, in quanto la possibilità di adire al primo è
subordinato al previo esaurimento dei ricorsi interni “effettivi”. L’art 6 prevede poi il diritto di ogni
individuo a veder esaminata equamente e pubblicamente la propria causa, da parte di un tribunale
indipendente e imparziale costituito per legge, il diritto a che tale causa sia decisa entro un termine
ragionevole, il diritto ad essere informato nel più breve tempo possibile della natura dell’accusa a
suo carico e il diritto ad avere i tempo per predisporre la propria difesa. L’accusato ha inoltre diritto
all’assistenza di un difensore, eventualmente accedendo al gratuito patrocinio, e ha diritto a far
esaminare i testimoni a suo carico e discarico. Le garanzie sancite dall’art 6 coincidono dunque
con il diritto di difesa, il giusto processo e la precostituzione del giudice naturale, con i relativi
corollari: per il primo il diritto di accesso al giudizio e il diritto di godere dell’assistenza di un
difensore; per il secondo il principio del contraddittorio, della ragionevole durata del processo, della
necessaria pubblicità delle udienze e il diritto a predisporre una difesa adeguata, con relativa
udienza dei testimoni; infine, per il terzo l’imparzialità, terzietà e indipendenza del giudice.
UE
•
Nell’ambito dell’ordinamento dell’Unione è l’art 47 della Carta di Nizza a riconoscere ad ogni
individuo il diritto ad un ricorso effettivo per la tutela dei suoi diritti e libertà fondamentali,
accompagnato dal diritto a veder esaminata la sua causa equamente, in pubblica udienza e da un
giudice naturale, indipendente e imparziale, e dal diritto a farsi assistere, difendere e
rappresentare, anche attraverso il gratuito patrocinio. Evidentemente, la Carta non aggiunge novità
rispetto al sistema giù delineato nella CEDU e nelle tradizioni costituzionali comuni degli Stati
membri, in quanto ritroviamo anche qui i 3 profili attinenti al diritto di difesa, al giusto processo e
alla precostituzione del giudice naturale. In merito al diritto di difesa, la Corte di giustizia ha più
volte affermato la sua configurazione come diritto fondamentale che emerge dalla tradizioni
costituzionali degli Stati membri e il suo ruolo centrale nello svolgimento di un processo equo.
Anche in questo caso implica il diritto ad avere una difesa tecnica, ad avere tempo sufficiente a
predisporre la propria difesa, ad essere edotto della natura e dei motivi dell’accusa in modo
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dettagliato e in una lingua comprensibile, ad essere esaminato con un procedimento rispetto
anche del principio del contraddittorio e a rendere note all’organo decisorio tutte le informazioni
necessarie affinché questo possa decidere della fondatezza o meno del ricorso. Quanto al giusto
processo, questo richiama nuovamente il diritto al contraddittorio e alla partita delle armi, il diritto
alla prova contraria e all’accesso ai documenti necessari per esercitare il diritto di prova. Infine, il
principio di precostituzione del giudice naturale è considerato nuovamente come l’individuazione di
un giudice naturale precostituito per legge al fine di affermare la garanzia di un tribunale
indipendente e imparziale, tanto sotto un profilo soggettivo (nei confronti del soggetto giudicato)
quanto oggettivo (nel senso di offrire garanzie tali da non mettere in discussione la sua
imparzialità).
Capitolo IV - La tutela internazionale dei diritti fondamentali
La tutela dei diritti fondamentali a livello internazionale ha la sua prima tappa nell’adozione della
Carta delle Nazioni Unite del 1945, che enuncia le finalità generali dell’ONU richiamando il
mantenimento della pace mondiale e la tutela dei diritti dell’uomo. È su questa base che sarà
adottata tre anni dopo la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, contenente ulteriori
specificazioni. Dal punto di vista del loro contenuto, tali atti rappresentano un arricchimento dei
tradizionali cataloghi dei diritti di libertà, accompagnati dalla previsione della tutela di altre posizioni
soggettive identificabili con la categoria dei diritti sociali, che nello stesso periodo cominciano ad
apparire anche nelle carte costituzionali europee. Dal punto di vista del loro valore giuridico invece,
tali atti per essere applicati fanno interamente affidamento sull’azione degli Stati che li hanno
sottoscritti e ratificati, responsabili politicamente su questo versante rispetto all’ordinamento
internazionale.
Questo interesse del diritto internazionale ed europeo nei confronti dei diritti fondamentali inaugura
sicuramente una nuova e proficua stagione di diritti, tale da estenderne e rafforzarne la tutela aldilà
di quanto affermato a livello nazionale, ma si apre anche a profonde contraddizioni e rischi. In
primo luogo basta pensare agli strumenti utilizzati per contrastare le violazioni generalizzate dei
diritti umani da parte di uno Stato che, da un lato, si sono esplicati nell’istituzioni di appositi
tribunali internazionali incaricati di perseguire i crimini contro l’umanità, ma che, dall’altro, hanno
coinciso con il ricorso alla forza, in palese rottura con quanto previsto dalla Carta delle Nazioni
Uniti e dal diritto costituzionale della maggior parte dei paesi. Seconda è la difficoltà, riscontrata a
livello internazionale, di ricondurre i diritti sociali fra i diritti fondamentali, che ha avuto quale
conseguenza una bipartizione delle due sfere di diritti minando l’impostazione unitaria fatta propria
dai costituenti del secondo dopoguerra. Terzo problema è l’appannamento della riserva di legge in
questo settore, dovuta all’espansione nello stesso di una normativa frutto di un potere legislativo
atipico ed internazionale. Da ultimo bisogna considerare l’utilizzo ambiguo che si fa del termine
“diritti dell’uomo” che, per un verso, allude a diritti di stampo giusnaturalista in chiave
individualistica, mentre per altro sembra ignorare il problema causato dal fatto che alcuni soggetti
hanno assommato in sé una tale somma di diritti e di potere che è richiesto un attivo intervento dei
pubblici poteri alla ricerca di nuove garanzie rispetto agli abusi di questi.
Accanto a queste convenzioni internazionali troviamo oggi dei veri e propri atti internazionali di
tutela dei diritti fondamentali dotati di un autonomo sistema di garanzie. In quest’ambito si iscrive
ad esempio la CEDU, Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, sottoscritta a Roma nel 1950 dagli Stati membri del Consiglio d’Europa. Al pari degli
atti sottoscritti in seno all’ONU contiene un catalogo di diritti cui intende riservare tutela, accanto ai
limiti che essi incontrano e alle modalità attraverso cui possono essere legittimamente compressi.
Avremo allora il diritto alla vita, alla libertà personale, al lavoro, alla libertà dagli arresti, ad un
giusto processo, alla presunzione di innocenza sino all’accertamento giudiziale della colpevolezza,
a non essere puniti per fatti non previsti dalla legge come reati al momento del loro compimento,
alla riservatezza, alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, e ancora il diritto alla libertà di
riunione pacifica e di associazione e il diritto a formare una famiglia. Rispetto alla nostra carta
costituzionale emerge sicuramente la maggiore ricchezza ed articolazione del catalogo dei diritti
della CEDU, con il medesimo riferimento all’istituto della riserva di legge (limitato invece per
quanto riguarda la riserva di giurisdizione), ed emerge anche la medesima previsione di possibili
giustificate limitazioni ai diritti, assai più ampia ma anche più generica. Tale genericità lascia ai
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legislatore nazionali un ampio margine di discrezionalità in sede applicativa, il c.d. “margine di
libero apprezzamento”, che la Corte deve considerare nel decidere le controversie, e che a questo
fine bilancia con il principio del c.d. “consenso esterno”, ossia la tendenza legislativa prevalente
negli ordinamenti statali in relazione al problema in esame. Ma la vera novità della CEDU consiste
nel meccanismo posto a presidio dell’effettivo rispetto del suo contenuto, che passa attraverso
l’istituzione di una Corte europea dei diritti dell’uomo (prima del Protocollo di Strasburgo del 1994
scissa in Corte e Commissione europea dei diritti dell’uomo), le cui sentenze condannano gli Stati
a riparare alle eventuali violazioni accertate della Convenzione. Secondo quanto disposto dal
Protocollo n 14 CEDU, tale riparazione non consiste solo nel risarcimento del danno subito, bensì
anche nell’esperire ogni tentativo volto a provvedere la restitutio in integrum della situazione lesa.
Siamo evidentemente di fronte ad un sistema di tutela dei diritti di libertà che va ad integrare i
circuiti nazionali, e che opera laddove essi si siano rilevati inefficaci nel tutelare i diritti elencati
nella Convenzione.
Un sistema analogo è stato previsto in seno all’Unione europea, pur con caratteristiche differenti e
diverse fasi di sviluppo. Gli allora trattati istitutivi delle Comunità non contenevano un catalogo di
diritti fondamentali, eccezion fatta per quei diritti strettamente connessi al perseguimento delle
finalità economiche (es libertà di concorrenza, libertà di circolazione di merci, capitali e lavoratori,
libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi). Assicurare la tutela di tali diritti è compito della
Corte di giustizia, la cui opera interpretativa è proprio quanto segna l’ingresso della giustizia
comunitaria anche nel campo della tutela dei diritti fondamentali non nominati dai trattati. In una
sentenza del 1969 la Corte afferma dunque la propria competenza ad assicurare il rispetto dei
diritti fondamentali della persona in quanto ricompresi nei principi generali dell’ordinamento
comunitario, e di conseguenza pienamente giustiziabili di fronte ad eventuali violazioni. Nel fare
ciò, la Corte specifica che si ispirerà alle tradizioni costituzionali degli Stati membri e ai trattati
internazionali eventualmente ratificati in materia, senza mai ammettere provvedimenti incompatibili
con i diritti riconosciuti e garantiti in ciascun ordinamento nazionale. Tale impostazione finisce per
tradursi, con il Trattato di Maastricht, in un’apposita disposizione dei trattati con cui l’Unione
afferma di aderire alla CEDU. In definitiva, si tratta di un modello di tutela distinto sotto molti aspetti
da quelli delle Costituzioni nazionali: innanzitutto è centrato sul giudice, vero arbitro nella scelta
delle fattispecie tutelabili e nella misura di tale tutela, laddove invece la legge appare solo sullo
sfondo con un ruolo perlopiù negativo, ossia di non poter introdurre limiti all’esercizio dei diritti.
Nelle Costituzioni nazionali riscontriamo invece precisi cataloghi di diritti protetti, e il sistema della
loro tutela si articola proprio sulla riserva di legge, quest’ultima strumento di implementazione e
promozione dei diritti stessi.
In questo senso, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Carta di Nizza, 2000)
rappresenta un primo tentativo di arrivare ad una più puntale formalizzazione del modello di tutela,
pur mantenendo con esso forti legami di continuità: è stata infatti intesa come una sorta di
consolidamento della giurisprudenza premessa del giudice comunitario, e insieme come strumento
interpretativo delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri. Il catalogo dei diritti si
suddivide in sei titoli (dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia) e presenta
notevoli novità rispetto al livello nazionale, soprattutto in relazione a quelle posizioni soggettive
emerse con il diffondersi delle nuove tecnologiche e con i più recenti sviluppi economici e sociali. Il
quadro muta ancora una volta con il Trattato di Lisbona, con cui viene espressamente elevata la
Carta allo stesso livello gerarchico dei trattati, attribuendole il loro medesimo valore giuridico.
Nessun dubbio allora che oggi la Carta debba rappresentare il principale parametro per la Corte di
giustizia nella risoluzione delle controversie con oggetto la violazione di un diritto fondamentale da
parte tanto delle istituzioni europee quanto degli Stati membri. Vi sono, rispetto all’esperienza
pregressa, alcuni elementi di continuità, fra cui: l’articolazione dei diritti nei medesimi sei titoli; la
medesima tecnica redazionale, la quale descrive i singoli diritti in forma di mero elenco e non li
disciplina più compiutamente; il medesimo ruolo centrale del giudice, con la possibilità di
interpretazioni creative; la mancata predeterminazione espressa e tassativi dei limiti all’esercizio
dei diritti a favore di clausole generali. Parallelamente si possono riscontrare forti elementi di
discontinuità/novità: il margine di interpretazione creativa giudiziale è ristretto, in quanto il giudice
ha un preciso parametro di riferimento codificato; l’introduzione del principio di riserva di legge,
tanto europea quanto nazionale, ai fini di introdurre limitazioni; l’esplicita riconduzione della tutela
dei diritti alle finalità generali dell’Unione e, soprattutto, all’organizzazione e ai poteri delle
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istituzioni europee, sancendo così non solo una tutela negativa, ma anche positiva e di tipo
promozionale dei diritti stessi. Come che sia, anche la Carta di Nizza ha valore esclusivamente
sussidiario rispetto alla tutela nazionale, e dunque non può essere interpretato come limitativa o
lesiva dei diritti fondamentali riconosciuti dalle Costituzioni nazionali; sulla stessa linea, la Carta
non può nemmeno estendere l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione aldilà delle
competenze sancite dai Trattati.
I due sistemi, della CEDU e della Carta di Nizza, si legano attraverso l’art 6.II TFUE, il quale
afferma che l’Unione aderisce alla Convenzione di Roma. Si pone quindi il problema di raccordare
le disposizioni dei due testi: nel caso in cui i diritti della Carta corrispondano a quelli tutelati dalla
CEDU, il significato e la portata di questi sono uguali a quelli conferiti dalla Convenzione, ad
eccezione del caso in cui il diritto dell’Unione intenda assicura una tutela maggiore al diritto in
questione. Da un lato, dunque, pieno ossequio all’interpretazione della Corte europea dei diritti
dell’uomo, ma dall’altro, la riserva di una libertà di manovra nel caso in cui la tutela assicurata
dall’Unione superi quella assicurata dalla CEDU.
Ovviamente, il funzionamento di questi due sistemi di tutela sovranazionali ha dei riflessi sul piano
delle regole e delle procedure nazionali. Entrambi i sistemi prevedono infatti la possibilità di
ricorrere direttamente agli organi giudiziali internazionali in caso un soggetto ritenga che un atto
statale abbia lesto un suo diritto tutelato, rispettivamente, dalla Carta o dalla Convenzione.
Eventuali sentenze di aggiornamento assicurano una tutela immediata all’attore, ma lasciano
integra la validità e l’efficacia della norma nazionale, limitandosi a dichiararne la non conformità
all’ordinamento internazionale. In particolare, il rapporto fra diritto interno ed internazionale è stato
riscritto a seguito dell’introduzione del nuovo testo dell’art 117.I Cost, il quale impone allo Stato
l’obbligo costituzionale di rispettare gli obblighi assunti per il tramite di un trattato internazionale,
quale è la CEDU. È sulla base di ciò che la Corte costituzionale, con le sentenze n 348-349/2007,
ha introdotto il principio dell’interpretazione conforme, stante il quale il giudice, di fronte alla dubbia
conformità di una norma nazionale ad una internazionale, deve tentare di risolvere il dubbio in via
interpretativa, e laddove non ci riuscisse, ha l’obbligo di sollevare la questione di legittimità
costituzione della norma interna così da evitare la violazione del parametro ex art 117. La Corte a
riservato a se stessa il compito di decidere circa la conformità o meno della norma nazionale alla
disposizione della CEDU così come interpretata dal suo giudice, ed essa potrà funzionare da
norma interposta nel giudizio di illegittimità costituzionale solamente nel caso in cui assicuri al diritti
in questione una tutela almeno equivalente a quella sancita nella Costituzione.
Diversa è invece la soluzione di analoghi problemi posti in relazione al diritto comunitario: qualora
si presenti il dubbio di contrasto fra normativa nazionale e comunitaria, la Corte ha affermato
l’obbligo per il giudice comune di interpretare la normativa interna in senso conforme a quella
europea e, nell’ipotesi di accertato contrasto, di disapplicarla direttamente nella controversia in
questione. Ultimo problema sono i casi di c.d. “doppia pregiudizialità”, ossia i casi in cui il
contenuto di una disposizione nazionale si possano ritenere lesivi tanto della Carta di Nizza quanto
della nostra Costituzione. Qui, la Corte costituzionale ha affermato la necessità di dare la
precedenza alla normativa comunitaria, interpellando per prima la Corte di giustizia, e solo in
seconda battuta se stessa, e solo nel caso in cui la disposizione in questione sia lesivi dei principi
supremi dell’ordinamento costituzionale. Evidentemente, il sistema di tutela dei diritti subisce, in
relazione al sistema dell’Unione europea, una modifica di non poco conto, rimettendo al giudice
comune la soluzione di possibili interferenze e riservando alla Corte costituzionale un ruolo
residuale. Non è insomma mutata la sola posizione dei singoli, ma anche la posizione e il ruolo dei
tradizionali soggetti cui è affidata l’implementazione della tutela dei diritti fondamentali.
Capitolo V - L’interpretazione dell’art 2 della Costituzione
L’art 2 afferma: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come
singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede
l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Il
riferimento alla Repubblica non va inteso solo come Stato-apparato, bensì anche come Stato-
comunità, per cui la tutela dei diritti fondamentali non si risolve come monopolio esclusivo dei
poteri statali, ma coinvolge anche autonomie territoriali e funzionali, nonché le articolazioni della
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società civile e delle autonomie dei privati. Secondo, il riferimento non è ai soli cittadini ma a tutti
gli uomini, portatori di valori individuali e sociali preesistenti all’organizzazione statale. In questo
senso, l’art 2 segna il superamento della tesi statocentrica, che affermava il fondamento dei diritti
invidiati in un’autolimitazione dello Stato.
L’art 2 esprime nella sua essenza il PRINCIPIO PERSONALISTA, il quale caratterizza tutte le
disposizioni costituzionali che tutelano una sfera della personalità, fisica e morale, che è
comunque intangibile sia per i pubblici poteri sia per i privati. Ad esempio, anima anche l’art 3.II
laddove richiede l’intervento dei pubblici poteri per modificare o rimuovere le condizioni
economiche e sociali che “impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.
Alcuni hanno sostenuto che l’art 2 istituisca una norma a “fattispecie aperta”, riferibile cioè al
riconoscimento e alla tutela di valori e di diritti che, pur non espressamente previsti dalla
Costituzione, emergono a livello di costituzione materiale. E tale tesi trova riscontro sia nella
giurisprudenza della Corte costituzionale, sia e soprattutto in quella della Cassazione. Nonostante
ciò, è andata incontro ad obiezioni consistenti, prima fra tutti la mancanza di una base testuale dal
momento che né l’art 2 né altri sembrano presupporla. Secondo, molti di quei valori e diritti che si
vorrebbero ulteriormente costituzionalizzati in forza dell’art 2 sono in realtà riconducibili a quelli
espressamente previsti; di conseguenza, la tesi finirebbe per sottovalutare la potenzialità
interpretativa delle singole norme costituzionali. Ancora, bisogna tener presente che il
riconoscimento di un diritto comporto il necessario corrispondente riconoscimento di un dovere, e
non può dunque essere un riconoscimento non espresso. Tali considerazione non comportano
ovviamente la possibilità di non assoggettare l’art 2 ad una più ampia interpretazione estensiva,
che anzi ne esprime una delle potenzialità più significative e lo rende fondamento di diverse sfere
di tutela.
Un problema in parte analogo si è posto in riferimento alla nuova potestà statutaria delle regioni, in
base al quale alcune di esse si sono spinte a definire l’impegno a riconoscere nuovi diritti, diversi
da quelli espressamente previsti dalla Costituzione. La Corte costituzionale si è così trovata di
fronte al problema di decidere se gli statuti fossero o meno fonti abilitate ad integrare il catalogo di
diritti fondamentali sancito dalla Costituzione, ma la risposta è stata nettamente negativa sulla
base che gli statuti non sono affatto costituzioni, bensì fonti regionali a competenza riservata e
specializzata. La linea interpretativa adottata appare pienamente condivisibile, in quanto esclude
una volta per tutte che la materia dei diritti fondamentali possa essere differenziata da regione e
regione. Le regioni non hanno dunque possibilità alcuna di muoversi sul terreno della creazione di
nuovi diritti, ben potendo però svolgere il loro impegno nell’implementazione concreta dei diritti
costituzionali già sanciti.
La lettura data dell’art 2 Cost porta, in definitiva, a valorizzare il concetto di INVIOLABILITÀ dei
diritti, inteso come irripetibilità degli stessi anche attraverso il procedimento di revisione
costituzionale. Si tratta tuttavia di un’inviolabilità che attiene unicamente al nucleo essenziale dei
diritti di libertà, la cuoi violazione comporterebbe un turbamento dell’equilibrio nel rapporto fra gli
stessi che è proprio alla base della forma di Stato sancita dalla nostra Costituzione. Tale tesi è
stata avvallata anche dalla Corte costituzionale, e dunque risulta prevalente in dottrina l’idea della
presenza di limiti impliciti alla revisione costituzionale, accanto all’unico espresso dall’art 139 (la
forma repubblicana). Alcuni di questi limiti sono stati individuati nel principio della sovranità
popolare (art 1), nel principio di unità e indivisibilità dello Stato (art 5) e nei diritti inviolabili della
persona (art 2): tutti principi il cui sovvertimento sarebbe operabile solo attraverso un nuovo
processo costituente e un nuovo patto sociale.
IL CONCETTO DI “UOMO”
Un aspetto essenziale dell’art 2 è l’identificazione dell’uomo titolare dei diritti inviolabili e dei doveri
inderogabili. In linea di principio e salve diverse prescrizioni costituzionale, il concetto comprende
sia i cittadini sia gli stranieri, con una forte innovazione rispetto al principio di reciprocità fissato
all’art 16 delle disposizioni preliminari al c.c.
Appare tuttavia necessario, su questo versante, fare riferimento all’art 2 in combinato disposto con
l’art 32 al fine di risolvere alcuni problemi relativi all’inizio alla vita umana, e quindi alla tutela del
concepito, e al suo momento finale, in riferimento alla disponibilità del “diritto alla vita”. Quanto al
primo profilo, il nostro ordinamento non riconosce l’equiparazione della posizione del concepito a
quella del nato, in quanto la sua tutela giuridica può cedere di fronte alla sussistenza di un pericolo
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grave per la salute della madre: non esiste equivalenza fra il diritto alla vita e alla salute di chi è già
persona e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora divenire. È stato su questa linea
disciplinato l’istituto dell’aborto, possibile entro i primi 90 giorni qualora la prosecuzione della
gravidanza comporti pericolo per la salute fisica o psichica della madre in relazione al suo stato di
salute, alle sue condizioni economiche, sociali o familiari, alle circostanza in cui è avvenuto il
concepimento, o ancora a previsione di anomalie o malformazioni del concepito. È evidente che la
posizione giuridica del concepito risulta problematica.
Riconducibili a questo profilo sono poi altri due temi: il divieto di brevettabilità del corpo umano e
quelli relativi alla fine della vita della persona. Rispetto a quest’ultimo, le problematiche più delicate
riguardano ovviamente il suicidio e l’eutanasia. Premessa da cui partire è il principio per cui, nel
nostro ordinamento, il diritto alla vita ed all’integrità psicofisica è un diritto soggettivo assoluto,
sicuramente indisponibile (e ciò rende l’art 5 c.c. legittimo in quanto vieta gli atti di disposizione del
proprio corpo che cagionino un diminuzione permanente dell’integrità fisica o quando siano
contrari a legge, ordine pubblico o buon costume). Si discute tuttavia sul fatto se il diritto alla vita
sia o meno irrinunciabile, ossia se il rispetto della persona umana possa arrivare fino ad impedire
alla persona che lo desidera di interrompere la propria vita. A tale proposito, unanimemente si
ritiene non punibile il suicidio, proprio alla luce del combinato disposto degli artt 2 e 32, che
assimila il diritto alla vita a quello alla salute, non imponibile coattivamente. Ciò non equivale ad
ammettere tuttavia un vero e proprio diritto al suicidio, il quale va viceversa ricondotto alla
categoria degli atti giuridicamente tollerati poiché costituisce un disvalore. Maggiori difficoltà si
riscontrano in relazione all’eutanasia, ammessa ormai da alcuni ordinamenti contemporanei e che
consiste nell’intervento programmato intenzionalmente volto ad interrompere direttamente una vita,
quanto questa si trovi in particolari condizioni di sofferenza, inguaribilità o prossimità alla morte.
Bisogna innanzitutto distinguere fra eutanasia attiva, ossia cagionare la morte del paziente tramite
un trattamento medico o farmacologico, e passiva, ossia la mera interruzione del trattamento
terapeutico. Tale distinzione ha una sua rilevanza giuridica in quanto, mentre l’eutanasia passiva
consensuale è sicuramente lecita in quanto riconducibile al diritto di rifiutare i trattamenti sanitari,
l’eutanasia attiva pone problemi più complessi, pur consensuale. In ogni caso la volontà
dell’interessato assurge ad elemento essenziale, e il suo consenso deve essere personale,
espresso, consapevole, libero e spontaneo.
Capitolo V - Il principio di eguaglianza
L’art 3 rappresenta un punto di riferimento primario per cogliere il rapporto fra la nostra forma di
stato e la tutela dei diritti fondamentali, introducendo, da un lato, una dimensione positiva di tali
diritti come strumenti di partecipazione democratica e disegnando, dall’altro, un ruolo dello Stato
non solo di astensione dalle sfere di autonomia privata, ma anche di azione attiva nel promuovere
la realizzazione di un assetto sociale complessivo in cui sia assicurato a tutti un esercizio effettivo
delle libertà costituzionali. Così, al principio di EGUAGLIANZA FORMALE del I comma (“Tutti
hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di
razza, di lingua, di religione, di opinione politiche, di condizioni personali e sociali”), si
affianca quello di EGUAGLIANZA SOSTANZIALE al II comma (“È compito della Repubblica
rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e
l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del
Paese”). Le due accezioni risultano, nella loro concreta applicazione, interdipendenti, nel senso
che si limitano e compleanno a vicenda: quella sostanziale stempera l’eccesso di rigore della
formale, mentre questa impedisce alle azioni positive di divenire azioni ingiustizia, dando luogo a
casi di “discriminazione all’incontrario”.
Il principio di eguaglianza formale si traduce innanzitutto nel divieto, in primis rivolto al legislatore
ordinario, di adottare trattamenti irragionevolmente differenziati fra i cittadini. Consiste cioè in un
divieto di introdurre discriminazioni illegittime, non solo basta su uno dei parametri espressamente
elencati dalla norma, ma anche basate su una valutazione irrazionale delle situazioni di fatto che
porta il legislatore a trattare in modo irragionevolmente eguale situazioni diverse, oppure in modo
diverso situazioni assimilabili. Solo in questa sua accezione è in grado di conciliarsi con
l’eguaglianza sostanziale, la quale impone l’adozione di trattamenti differenziati, volti ad eliminare
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le situazioni di diseguaglianza esistenti. È del resto anche l’impostazione accolta dalla Corte
costituzionale, che nella sentenza n 3/1957 ha affermato il principio per cui l’eguaglianza deve
essere intesa come “trattamento eguale di condizioni eguali e trattamento diseguale di
condizioni diseguali”, con un conseguente ambito piuttosto ampio di discrezionalità del
legislatore nel valutare le singole situazioni. Non stupisce quindi che la Corte, già nelle sentenze n
53-56/1958, abbia affermato il proprio sindacato su quelle leggi che assoggettino a trattamenti
eguali situazioni da esse stesse definite e qualificate come diverse, con il riferimento espresso alla
“patente irragionevolezza” e al “manifesto arbitrio” del legislatore. Le distinzioni fondate su uno dei
sette parametri di cui all’art 3 potranno in tanto dirsi legittime in quanto risultino ragionevolmente
giustificabili, e di conseguenza il principio di eguaglianza finisce per porsi come un vincolo negativo
per il legislatore. Così come configurato oggi (dopo una fase in cui la Corte si avvaleva del c.d.
“giudizio ternario”, il giudizio di ragionevolezza investe direttamente valutazioni di adeguatezza,
pertinenza, congruità, proporzionalità, di coerenza interna o di ragionevolezza intrinseca della
legge. Si assegna dunque al principio di eguaglianza un significato oggettivo quale limite ultimo e
generale di discrezionalità del legislatore, e nel contempo metro minimo di riesame delle sue
scelte: acquista, in definitiva, la natura di principio di chiusura di ogni manifestazione legislativa,
che ancora a coerenza e ragionevolezza.
EGUAGLIANZA FORMALE
Il nucleo forte dell’art 3.I è costituito dal divieto espresso di introdurre trattamenti differenziati a
causa di uno dei motivi elencati dalla stessa disposizione costituzionale al fine di farne motivo di
discriminazione nel godimento dei diritti e delle libertà. È ovviamente ammessa, viceversa, la
legislazione “positiva” nella misura in cui siano necessarie ad impedire che sesso, lingua ecc ecc
divengano elementi di una discriminazione di fatto, ossia motivi di “handicap sociale”. Bisogna
inoltre disgiungere fra le forme di discriminazione diretta, quando una persona è trattata meno
favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe tratta un’altra in una situazione analoga, e
discriminazione indiretta, quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un
comportamento apparentemente neutri possono mettere determinate persone in una situazione di
svantaggio rispetto ad altre.
- DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE IN RAGIONE DEL SESSO
L’art 29.II Cost, in materia di rapporti fra coniugi, afferma il principio di eguaglianza morale e
giuridica degli stessi, limitabile dalla legge solamente “a garanzia dell’unità familiare”. All’attuazione
di questa norma si è arrivati con il tempo, attraverso l’eliminazione delle disparità di trattamento
esistenti tanto in materia penale quanto civile (con il c.d. nuovo diritto di famiglia del ’75).
Questione ancora aperta è l’automatica attribuzione del cognome del padre ai figli legittimi, ritenuta
da molti lesiva del principio di eguaglianza giuridica fra coniugi, ma che la Corte costituzionale non
si è sentita di rigettare totalmente, rimettendone la modifica alla discrezionalità del legislatore.
L’art 29.I riconosce “i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”, ponendo
conseguentemente il problema del riconoscimento degli stessi alle famiglie di fatto. La Corte ha
sempre ritenuto non ammissibile la totale equiparazione dei due nuclei familiari in ragione dei
caratteri di stabilità, certezza, reciprocità e corrispettività dei diritti e doveri che nascono solo dal
vincolo matrimoniale; tuttavia, non ha mai ritenuto che ciò ostacolasse il riconoscimento alle
famiglie di fatto di forme di tutela proprie della famiglia “legittima”, soprattutto in presenza di figli, e
in virtù dell’art 3 come principio di eguaglianza e ragionevolezza. L’estensione della disciplina della
tutela è stat ribadita anche con riferimento alle coppie di fatto omosessuali, in questo caso
ricondotta all’art 2 Cost e alla sua protezione delle formazioni sociali.
Oltre che nei rapporti familiari, l’eguaglianza fra sei trova applicazione nei rapporti di lavoro
secondo quanto disposto dall’art 37, in virtù del quale alla donna lavoratrice devono esser
riconosciuti “gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”,
ma anche condizioni di lavoro che ne salvaguardino l’ “essenziale funzione familiare”. Ulteriore
corollario è quanto disposto dall’art 51: “Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere
agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di parità, secondo i requisiti stabiliti dalla
legge”; di conseguenza, la Corte ha escluso che l’appartenenza all’uno o all’altro sesso possa
essere indicato dal legislatore quale requisito legittimo per accedere ai pubblici uffici. Il dibattito
odierno in tema tocca in verità un nuovo aspetto, ossia quello relativo alla progressione di carriera
dai livelli più bassi a quelli dirigenziali, che è caratterizzato in molti settori da forti squilibri fra
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uomini e donne e ha comportato l’istituzione di un apposito Comitato nazionale che si occupi del
problema. Sempre su questo versante, il c.d. Codice delle pari opportunità (dlgs 198/2006) reca
“azioni positive per l’imprenditoria femminile”, con disposizioni volte a promuovere l’eguaglianza
sostanziale e le parti opportunità nell’attività economica e imprenditoriale.
Un problema più che aperto è quello dell’effettivo accesso delle donne alle cariche politiche in
condizioni, se non di parità, almeno di equilibrio rispetto ai candidati di sesso maschile. A tal fine
erano state introdotte apposite regole nella legislazione elettorale che puntava ad assicurare un
sostanziale equilibrio fra i due sessi nella formazione delle liste. Tali disposizioni sono state,
tuttavia, dichiarate incostituzionali dalla Corte sulla base della considerazione che non sono
ammesse deroghe al principio per cui l’elettorato passivo va riconosciuto rigorosamente in egual
misura a tutti i cittadini. Il legislatore ha allora propeso per la modifica costituzionale, introducendo
con la l cost 1/2003 un apposito comma nell’art 51 che recita: “la Repubblica promuove con
appositi provvedimenti le parti opportunità tra donne e uomini”. Anche i legislatore regionali si sono
poi mossi in questa direzione, pur con una prudenza tale da non rendere le disposizioni adottate
incisive sul riequilibrio della rappresentanza dei sue sessi in seno ai Consigli. Infine, la nuova legge
di finanziamento pubblico dei partiti ha previsto che un quota del rimborso per le spese elettorali
sia destinata ad iniziative volte ad accrescere la partecipazione attiva delle donne alla vita politica.
Il divieto di discriminazioni in ragione del sesso si riflette anche sulla posizione di transessuali e
omosessuali, nel senso che si debbono ritenere illegittime le discipline discriminatorie in ragione
del mutamento dell’identità sessuale o in ragione dell’orientamento sessuale. Quanto ai primi, in
attuazione del diritto all’identità personale, è stata consentita la rettificazione del sesso nei registri
dello stato civile per effetto di una sentenza passata in giudicato; quanto ai secondi rimangono
invece aperte delicate questioni circa la loro idoneità o meno all’adozione di figli. Il divieto di
discriminazione in base all’orientamento sessuale è stato recepito anche in tema di accesso e
apparenza alle forza armate, e più in generale in tema di occupazione e lavoro.
- DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE IN RAGIONE DELLA RAZZA
Si tratta di un divieto destinato essenzialmente a risolvere un problema del passato ma che,
oggigiorno, è diventato di grande attualità in relazione all’accentuarsi dei fenomeni di
immigrazione. Non a caso, la trasformazione della nostra società in una società multirazziale ha
già comportato un’applicazione del divieto assai più intensa di quanto prospettato. Così, con la l
654/1957 in Italia abbiamo proceduto a rendere esecutiva la convenzione internazionale
sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, punendo chiunque propagandi idee
fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, o chiunque istighi a commettere violenza per
gli stessi motivi. Allorché poi sia accertato con sentenza irrevocabile che l’attività di organizzazioni,
associazioni, movimenti o gruppi abbia favorito la commissione di uno di tali reati, il Ministro
dell’interno ne decreta lo scioglimento e la confisca dei beni con decreto.
Anche in questo caso, le forme di tutela sono state estese tanto alle discriminazioni dirette
(quando, per la razza o l’origine etnica una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia,
sia stata o sarebbe trattato un’altra in una situazione analoga) quanto alle discriminazioni indirette
(quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento
apparentemente neutri possono mettere le persone di una determinata razza od ordine etnica in
una situazione di svantaggio rispetto ad altre). La parità di trattamento si applica a tutte le persone,
sia nel settore pubblico sia nel settore privato.
Un’applicazione significativa di questo divieto si ha in relazione al reato di genocidio, che
costituisce eccezione al divieto di estradizione dello straniero del cittadino per reati politici. Tale
revisione costituzionale (avvenuta con l cost 1/1967) si è resa necessaria per riparare ad alcune
abnormi pronunce che avevano negato l’estradizione di cittadini tedeschi imputati di genocidio in
ragione del carattere politico dello stesso. Il crimine di genocidio rientra fra l’altro nella competenza
della Corte penale internazionale qualora esso costituisca “motivo di allarme per l’intera comunità
internazionale”.
- DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE IN RAGIONE DELLA LINGUA
Tale divieto non si limita ad imporre un obbligo negativo al legislatore, ma promuove anche una
sua tutela positiva ricavabile dall’art 6 Cost: “La Repubblica tutela con apposite norme le
minoranze linguistiche”. La tutela così delineata implica tanto l’affermazione del bilinguismo,
quanto il diritto all’uso esclusivo della propria lingua. A tal proposito sia la giurisprudenza
costituzionale sia il c.p.p. hanno affermato il diritto di utilizzazione della propria lingua in giudizio,
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pur limitato dalla Corte al solo caso del processo che si svolga davanti all’autorità con competenza
sul territorio di insediamento della minoranza.
La tutela delle minoranze linguistiche costituisce uno dei principi fondamentali dell’ordinamento
costituzionale, ma fino ad anni recenti è stato adempiuto solo in maniera disorganica e
complessivamente insoddisfacente. Manca infatti una legge statale che disciplini in via generale la
materia, per cui l’attuazione è passata essenzialmente attraverso l’attuazione delle diverse
disposizioni statutarie regionali. Il sistema di tutela, di conseguenza, si caratterizzava per un
notevole grado di differenziazione: ad esempio, mentre in Valle d’Aosta ci si limitava a parificare la
lingua francese a quella italiana, in Trentino Alto Adige la tutela dei gruppi linguistici diveniva
elemento caratterizzante della stessa organizzazione territoriale (un esempio fra tutti è la
possibilità di richiedere la votazione “per gruppi linguistici” in seno al Consiglio regionale). Aldilà di
tali differenziazioni, sicuramente legittime ex art 6, il problema da considerare è che il sistema
costruito dalle Regioni ha assicurato una forma di tutela anche molto forte alle minoranze
linguistiche demograficamente più consistenti, mentre analoga attenzione non è stata rivolta a
quelle meno consistenti. Deve dunque essere accolta con favore l’approvazione della legge-
quadro sulla tutela delle minoranza linguistiche (l 482/1999), la quale qualifica tale protezione e i
diritti di libertà delle persone appartenenti a minoranze come “parte integrante della protezione
internazionale dei diritti dell’uomo”. La legge individua innanzitutto quali siano le minoranze
linguistiche a cui si applicano gli istituti della tutela ivi previsti (le c.d. “minoranze storiche”, mentre
restano escluse quelli che si insediano sul territorio in seguito ai flussi di immigrazione), per poi
dettare la disciplina della tutela stessa. Questa attiene soprattutto a due profili: da un lato, il profilo
più strettamente culturale, e dall’altro, il profilo più vario legato all’uso delle minoranze nelle
assemblee elettive e negli organi collegiali degli enti territoriali. Affinché gli istituti previsti
divengano operativi sono necessarie due condizioni: o che vi sia un’apposita delibera del Consiglio
provinciale che riconosca l’esistenza di una minoranza fra quelle elencate, o che, in caso la
minoranza non abbia questa caratteristica, la maggioranza della popolazione residente si
pronuncia a favore dell’applicazione del regime. Da ultimo, occorre tener presente che si registra
una crescente tendenza da parte di alcune regioni a legiferare circa l’uso di lingue in minoranza
nell’insegnamento scolastico.
- DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE IN RAGIONE DELLA RELIGIONE
Il principio di eguaglianza in materia religiosa trova il suo svolgimento negli artt 7, relativo al
rapporto Stato-Chiesa cattolica, e 8, relativo al rapporto Stato-altre confessioni religiose.
Nella Costituzione scompare infatti la distinzione religione di stato-altri culti tollerati, fatta invece
propria dallo Statuto Albertino, e si individuano due differenti modalità di regolamentazione dei
rapporti che rispondo alla diversa posizione da ciascuna assunta all’interno della specifica
situazione italiana.
Per i rapporti con la Chiesa cattolica è stato scelto lo strumento concordatario, in virtù del fatto che
questa confessione è rappresentata sul piano istituzionale da un vero e proprio Stato, situazione
all’interno del territorio nazionale. Opportuno appare quindi l’utilizzo di uno strumento di
regolazione dei rapporti internazionali. Viceversa, per i rapporti con le altre confessioni religiose, lo
strumento scelto è stata la legge, da adottarsi previa apposita intensa fra organi statali e
rappresentanze di tali confessioni: si tratta di uno strumento profondamente diverso, legato al
differente status a queste riconosciuto, ossia quello di particolari associazioni dotate di una propria
autonomia organizzativa, da esercitarsi attraverso l’approvazione di statuti non contrastanti con
l’ordinamento giuridico italiano. Nonostante tale differenziazione circa gli strumenti di regolazione
sia nasca senza il benché minimo intento discriminatorio, ha in realtà comportato a lungo una
maggior tutela della confessione cattolica rispetto a quella assicurata alle altre. Tale situazione si è
determinata soprattutto in ragione del ritardo con cui si sono adottate le intese, nonché per il
notevole ritardo con cui si è arrivati alla revisione dei Patti lateranensi.
Rispetto ai Patti, si è precocemente posto il problema di una loro “costituzionalizzazione”, e
dunque la loro possibilità di derogare al dettato costituzionale. L’art 7 riconosce in realtà una via
intermedia, non già una loro “cristallizzazione costituzionale”, ma una costituzionalizzazione del
principio pattizio nei rapporti Stato-Chiesa cattolica, esteso poi anche ai rapporti con le altre
confessioni dall’art 8. I Patti sono quindi considerata una fonte atipica o rinforzata, in quanto resiste
ex art 7 a leggi ordinarie che intendano derogarvi a prescindere da un’intesa con la Chiesa. Ciò
esclude fra l’altro anche l’ammissibilità di un referendum abrogativo su essi, in ragione della loro
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“forza passiva” peculiare, e quindi della loro capacità di “resistenza all’abrogazione”. Più
problematico il profili inerenti il rapporto fra le norme costituzionali e i Patti, il suo contenuto la
Corte costituzionale ha subordinato al pieno rispetto dei principi supremi dell’ordinamento
costituzionale e di cui ha dichiarato l’incostituzionalità di alcune disposizioni. Il problema è tuttavia
di portata più generale, in quanto molti sono gli aspetti contrari ai nuovi principi costituzionali nei
Patti, in particolare in materia di eguaglianza e di libertà di religione. E anche quando, nel 1984, si
è arrivati ad una nuova disciplina del rapporto, si è consentita per lungo tempo la sopravvivenza di
norma che nulla avevano a che fare con il nuovo ordinamento, favorendo anche il consolidarsi di
una situazione che è risultato, successivamente, più arduo modificare. Il nuovo accordo opera un
riallineamento della disciplina concordatario con i principi della Costituzione repubblicana,
riportando su un piano di maggiore eguaglianza di trattamento la confessione cattolica rispetto alle
altre. Uno dei profili che destava maggiori problemi era quello dell’insegnamento nelle scuole
statali della religione cattolica, da ascriversi fra quelli soggettivamente obbligatori, nel senso che
viene comunque attivato a prescindere dall’utenza ma se ne può domandare la dispensa, che ha
certamente un carattere confessionale e che viene impartito da docenti nominati dall’autorità
scolastica d’intesa con quella ecclesiastica. La questione è stata risolta della Corte, con due
sentenze a cavallo fra il 1989 e il 1991: pur essendo lo Stato obbligato ad asciugare
l’insegnamento della religione cattolica, questo è da considerarsi facoltativo per studenti e famiglie,
e per chi decida di non avvalersene non potrà essere previsto alcun obbligo didattico sostitutivo, in
quanto ciò comporterebbe una discriminazione laddove invece non avvalersi dell’insegnamento è
esercizio di una libertà costituzionale.
Le aree di tensione con la Chiesa cattolica non si esauriscono in questo settore. Basta pensare
alla particolare tutela penalistica prevista allora a favore della “religione di Stato”, di cui è
sintomatica l’evoluzione giurisprudenziale del reato di bestemmia. In un primo momento la Corte
aveva respinto i dubbi di legittimità costituzionale della disposizione, e solo 20 anni dopo, con la
sentenza 440/1995), arriva a dichiararne l’illegittimità costituzionale relativamente alla “religione di
Stato”, estendendo così la tutela penale della bestemmia contro tutte le confessioni religione. Allo
stesso modo venivano dichiarate parzialmente incostituzionali le disposizioni che punivano i reati
di vilipendio e di offesa della religione cattolica in maniera più severa rispetto agli altri culti.
Concludendo il percorso di parificazione della tutela penale delle varie confessioni religiosi, nel
2006 la Corte ha esteso a tutti i culti la tutela nei confronti di comportamenti in precedenza puniti
solo se riferiti alla religione cattolica. Da ultimo, un tema particolarmente delicato si è posto in
relazione all’obbligatorietà della presenza del crocifisso nelle aule scolastiche, ma a tal proposito la
Corte non ha preso posizione. Il ricorso è stato però esperito anche nei confronti della Corte
europea dei diritti dell’uomo, la quale ha invece affermato che l’esposizione obbligatoria di un
simbolo di una data confessione religiosa in luoghi pubblici, in particolare aule scolastiche, viola la
Convenzione in quanto limita il diritto dei genitori di educare i figli secondo le proprie convenzioni e
il diritto dei bambini di maturare autonomamente il proprio convincimento religioso. Ma la questione
non si è chiusa, in quanto la sentenza è stata impugnata di fronte alla Grande Camera, che
ribaltando discutibilmente la sentenza di primo grado, ha riaperto la partita.
Riguardo invece alla INTESE, queste sono state concluse a partire dal 1984 con diverse
confessioni religione altre e presentano contenuti non dissimili dal nuovo Concordato; è in tal
senso che si può parlare di una base comune di disciplina dei rapporti generali Stato-confessioni
religiose. Anche in questo caso la Costituzione respinge un modello di regolamentazione
unilaterale dei rapporti, cosicché le leggi adottate si sottraggono a modifiche disposte da leggi
ordinarie successive non derivanti da intese. È invece discussa la possibilità del Parlamento di
modificare il contenuto delle intese sottoscritte dal Governo al momento del loro recepimento,
ammessa in maniera limitata da chi le assimila ad atti di diritto interno (è la tesi che trova
applicazione nella prassi), ma fortemente negata da chi ritiene viceversa le intese atti di diritto
internazionale.
L’art 8.II riconosce anche le confessioni religiose diverse da quella cattolica con cui non è stata
stipulata un’intesa, affermando il loro diritto “di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non
contrastino con l’ordinamento giuridico italiano”. A tal proposito, la Corte ha affermato che tale
limite è da ritenersi riferito ai soli principi fondamentali dell’ordinamento italiano, non già anche a
specifiche limitazioni poste da particolari disposizioni normative (es ordine pubblico). L’odierno
frantumarsi del panorama religioso comporta effettivamente il problema dei rapporti fra Stato e
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confessioni non munite d’intesa: per queste, rimangono in vigore le disposizioni della vecchia
legge del 1929 sui culti ammessi, eccetto quelle contrastanti con la Costituzione. In definitiva,
nonostante la mancanza di una regolamentazione organica rispetto a questi culti, non ha impedito
al legislatore in molti casi di distinguere a più fini le confessioni munite di intese da quelle che ne
sono prive.
Tra l’altro, il moltiplicarsi dei culti e la diffusione delle intese ha riportato alla luce il problema della
definizione giuridica di confessione religiosa, non affrontato dal legislatore e risolto dalla
giurisprudenza in modo contraddittorio. La Corte costituzionale ha ritenuto insufficiente per il
riconoscimento della qualità di confessione religiosa il fatto che un determinato gruppo si qualifichi
come tale, ma, qualora manchi un’intesa con lo Stato, la natura confessionale può essere desunta
“da precedenti riconoscimenti pubblici, dallo statuto che ne esprime chiaramente i caratteri, o
comunque dalla comune considerazione”. Si tratta evidentemente di una defezione ambigua: se
appare condivisibile l’insufficienza dell’autoqualificazione, il riferimento ad una non precisata
“comune considerazione” rende eccessivamente generico il ragionamento. Viceversa,
l’accoglimento pieno del criterio dell’autoqualificazione è stato fatto fatto proprio dalla Cassazione
in una sentenza relativa alla c.d. “Chiesa di Scientology”.
Se gli artt 7 e 8 prevedono un sistema differenziato di disciplina circa i rapporti Stato-Confessioni
religiose, altre due disposizioni prevedono invece un regime di tutela uniforme riguardo
all’esercizio del culto da parte dei fedeli, sia come singoli sia come gruppi. L’art 19 afferma il “diritto
di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale e associata, di
farne propaganda e di esercitarne in privato in pubblico il culto”, con l’unico limite del buon
costume, mentre l’art 20 postula che “il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto di
un’associazione o istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di
speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività”. A ciò va
aggiunto che l’art 8.I, garantendo l’eguale libertà di tutte le confessioni davanti alla legge, coniuga
in un’unica previsione i due elementi della libertà e dell’eguaglianza.
Quanto all’art 19, questo garantisce la LIBERTÀ DI COSCIENZA, facoltà di professore la fede
religiosa in forma individuale o associata, la LIBERTÀ DI CULTO, facoltà di esercitare in privato o
in pubblico le espressioni esterne del sentimento religioso, la LIBERTÀ DI PROPAGANDA
RELIGIOSA, facoltà di fare opera di proselitismo. Da ciò la giurisprudenza ha desunto un diritto
all’onore, alla reputazione e al decoro delle confessioni religiose, che si impone sul diritto di critica,
il quale non può essere esercitato se non nel rispetto della dignità altrui. Il limite espressamente
previsto dall’art 19 è il buon costume, ma c’è da chiedersi se ne sussistano altri implicitamente
desumibili da altre disposizioni costituzionale: es la tutela della salute ex art 32, che non può
essere messa a rischio qualora i genitori rifiutino per motivi religiosi di far praticare una trasfusione
di sangue al figlio minore; a ciò si aggiunge il limite alla libertà di propaganda. L’art 20 invece
contiene un divieto, la cui ratio non impedisce al legislatore di prevedere trattamenti più favorevoli.
- DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE IN RAGIONE DELLE OPINIONI POLITICHE E DELLE
DIVERSE CONDIZIONI PERSONALI E SOCIALI
Il divieto di discriminazione in ragione delle proprie opinioni politiche è rafforzato da tutta una serie
di ulteriori disposizioni costituzionali: art 22, divieto di privare il cittadino della propria capacità
giuridica, della cittadinanza e del nome per motivi politici; art 48, la segretezza del voto; art 21,
libertà di manifestazione del pensiero; art 49 libertà di associazione politica.
Il divieto di discriminazione in ragione delle diverse condizioni personali e sociali deve intendersi
come comportante l’illegittimità di ogni atto posto in essere dai pubblici poteri o dai privati che
possa ledere la dignità e l’onore personale dei singoli. Questo spiega l’articolata legislazione a
tutela dei c.d. “soggetti deboli”.
EGUAGLIANZA SOSTANZIALE
L’art 3.II è la disposizione fondante la forma di Stato sociale, che segna l’acquisizione di una
dimensione nuova dei diritti fondamentali, del tutto sconosciuta all’esperienza precedente: diritti dal
cui effettivo esercizio trae alimenti e sostanza la partecipazione dei singoli e dei gruppi alla vita
sociale e politica. Da tale disposizione scaturiscono 3 principi complementari:
è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli, non solo di carattere giuridico, che la persona
• incontra nel pieno esercizio dei propri diritti;
tutti i lavoratori (sinonimo di cittadini) devono poter partecipare all’organizzazione del Paese;
• 27 di 64
tutela degli interessi “diffusi”.
•
Codifica il principio di eguaglianza sostanziale, con tutti i corollari che esso comporta nell’espresso
riconoscimento dei diritti sociali, fra cui in primo luogo il diritto al lavoro e la tutela dei lavoratori, il
diritto alla salute, il diritto all’istruzione. In tal senso impone al legislatore una precisa direttiva per il
futuro, chiedendogli di rimuovere, attraverso un’effettiva attuazione dei diritti sociali, le
diseguaglianze di fatto presenti nella società, le quali rischiano di rendere per molti puramente
formale il riconoscimento e la tutela dei tradizionali diritti di libertà. Questo non significa però che la
disposizione abbia esclusivamente un valore programmatico.
IL PRINCIPIO D’EGUAGLIANZA IN AMBITO INTERNAZIONALE
CEDU
•
Il principio d’eguaglianza è sancito all’art 14 CEDU: “Il godimento dei diritti e delle libertà
riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione”,
a cui segue un elenco di parametri a cui riferirsi. La Corte di Strasburgo ritiene tale elencazione dei
fattori di discriminazione non tassativa, anzi ritiene di poter individuare caso per caso
discriminazioni incompatibili con la CEDU alla cui base siedono motivi non espressamente
enucleati nell’art 14. E ciò anche nel caso in cui la posizione soggettiva da tutelare non sia
espressamente prevista dalla Convenzione, ma sia frutto dell’estensione dell’ambito di tutela
operata per via interpretativa dalla stessa Corte. Puntualmente, il divieto di discriminazione non si
estende alle c.d. “azioni positive”, in quanto disparità di trattamento ragionevolmente giustificate
dal fine di rimuovere una diseguaglianza di fatto, purché contraddistinte da proporzionalità fra il
sacrificio imposto al diritto o alla libertà e l’obiettivo da raggiungere. Censura sono invece le c.d.
“discriminazioni indirette”, tutte le volte cioè in cui un trattamento normativo omogeneo omette
irragionevolmente di considerare che alcune di esse necessiterebbero di fatto di una disciplina
diversa per non essere discriminate. Si tratta dunque dei casi in cui, senza un giustificazione
oggettiva e ragionevole, gli Stati non applicano un trattamento differente a soggetti in situazioni
sensibilmente diverse.
Occorre osservare che la previsione dell’art 14 di ancorare l’operatività del divieto di
discriminazione all’esistenza di un diritto o di una libertà tutelata nella Convenzione comporta un
restringimento del suo ambito di applicazione. Fa infatti in modo che il principio di eguaglianza
spieghi i suoi effetti solamente unicamente in combinato disposto con diritti e libertà
espressamente tutelati nella CEDU, oppure rispetto a quei diritti e libertà che, pur non
espressamente previsti, sono frutto di un’interpretazione estensiva delle disposizioni stesse in via
giurisprudenziale. Dunque, nonostante la Corte abbia cercato di ampliarne l’ambito di applicazione,
il divieto di discriminazione rimane inevitabilmente limitato alla struttura delineata dall’art 14. È per
questa ragione che il Consiglio d’Europa ha sottoscritto un apposito protocollo, il quale pone le
basi per un futuro ampliamento della tutela attraverso la previsione di un divieto di discriminazione
generale in relazione a “tutti i diritti previsti dalla legge”, e non solamente quelli previsti dalla
Convenzione. Sono tuttavia stati avanzati da più parti rilevanti dubbi circa l’introduzione di una
clausola generale in materia di discriminazione, da alcuni ritenuta superflua e da altri addirittura
controproducente in quanto comporterebbe un aumento esponenziale dei ricorsi individuali.
UE
•
Nel sistema dell’Unione, il principio di eguaglianza è sostanzialmente frutto dell’attività creativa
della Corte di giustizia. Infatti, gli originali trattati istitutivi lo evocavano solo nella previsione di
specifici divieti di discriminazione, tra l’altro limitamenti al campo di applicazione del trattato stesso.
Dunque non un principio generale, bensì una serie di specifici divieti di discriminazione volti a
tutelare non tutti i cittadini, ma solo i soggetti economici dell’ordinamento comunitario (lavoratori,
imprese e consumatori).
È stata proprio la Corte di giustizia ha modificare profondamente questa riduttiva impostazione
iniziale: si è così passati da un principio somma di una molteplicità di divieti alla costruzione di un
principio generale dell’ordinamento comunitario, il quale impone che situazioni comparabili non
siano trattate in modo diverso se ciò non sia obiettivamente giustificabile. Su questa scorta, la
Corte ha fatto proprio anche il principio di eguaglianza sostanziale, censurando le c.d.
discriminazioni indirette. La sua azione non si è tuttavia limitata ad incidere sul significato stesso
del principio, ma si è rivolta anche alla latitudine della sua applicazione: in questo senso, la
giurisprudenza si è mossa verso un’interpretazione estensiva del riferimento iniziale ai soli soggetti
28 di 64
economici per arrivare a ricomprendere tutti i cittadini comunitari, e in alcuni casi anche i non
comunitari legalmente residenti. In definitiva, sono stati proprio gli sviluppi giurisprudenziali ad
avvicinare significato e portata del principio di eguaglianza comunitario a quello proprio degli
ordinamenti nazionali degli Stati membri.
Ulteriori sviluppi sono intercorsi con l’adozione della Carta di Nizza, il cui Capo III è interamente
dedicato al principio di eguaglianza, definito quale principio generale a sé stante, dunque distinto
da specifici divieti di discriminazione, esteso a tutte le persone in quanto collegato alla loro dignità
sociale ed espressamente inteso anche nel suo significato sostanziale.
Capitolo VII - La libertà personale
La disciplina della LIBERTÀ PERSONALE dettata dalla Costituzione contiene tracce di indirizzi
diversi: uno ispirato al garantismo, che punta all’affermazione di una proprietà di tale libertà
rispetto all’impianto complessivo; uno di stampo solidaristico, che coniuga una nozione
esclusivamente individualistica della libertà con una che invece recupera il ruolo dei pubblici poteri
in chiave di promozione della stessa; uno legato alla traduzione culturale prefascista, di cui tende a
conservare gli elementi più garantistici.
L’impianto costituzionale della libertà personale si connota per una portata fortemente innovativa
rispetto all’esperienza precedente, in particolare riguardo alle due garanzie della riserva assoluta di
legge e della riserva di giurisdizione prevista dall’art 13: “Non è ammessa forma alcuna di
detenzione, di ispezione e perquisizione personale, né qualsiasi altra forma di restrizione
della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e
modi previsti dalla legge”. Emerge una nozione di libertà personale quale situazione soggettiva
caratterizzato da un contenuto, in linea di principio, non suscettibile di subire interferenze, e
dunque quale diritto soggettivo perfetto nei confronti tanto dei pubblici poteri quanto dei privati.
Sono tutti elementi che danno il senso di una precisa volontà del costituente di innovare
profondamente rispetto al passato, legato ad una logica opposta a quella repubblicana.
Mentre una tesi riconduce alla copertura costituzionale dell’art 13 esclusivamente la libertà
personale come libertà fisica, un’altra vi riconduce anche la tutela della dignità sociale, ovvero la
tutela della libertà morale. La posizione della Corte costituzionale appare alienata alla prima
ipotesi, benché abbia avuto qualche oscillazione non marginale. Peraltro, la nozione si presenta di
ardua precisazione in quanto si riferisce ad una c.d. “LIBERTÀ-SITUAZIONE”. La Costituzione
consente certamente di enucleare una serie di situazioni che costituiscono il nocciolo duro ed
indiscusso della libertà in esame, ma ciò non significa che esse esauriscano l’ambito di
applicazione della garanzia costituzionale. Tale nucleo essenziale attiene alla tutela del singolo in
relazione alle limitazioni del processo penale, in linea con il tradizionale significato di libertà
personale come “LIBERTÀ DAGLI ARRESTI”.
Il quadro tracciato dal costituente risulta complesso e articolato, in quanto procede secondo un
metodo di progressiva enucleazione di autonome fattispecie da quell’unica libertà individuale, da
cui discendeva come unico corollario l’inviolabilità del domicilio. Oggi, alla tutela della persona in
quanto tale, dunque della persona fisica ex art 13, si affianca la tutela della persona in una serie di
proiezioni ed attività essenziali al suo libero sviluppo, in relazione ad interferenze pubbliche e
private. E in questo modo alla libertà di domicilio si sono aggiunte la libertà e segretezza della
corrispondenza (art 15), la libertà di circolazione e soggiorno e la libertà di espatrio (art 16):
fattispecie che hanno in comune non solo la tutela della persona, ma anche il sistema delle relative
garanzie costituzionali, centrato sulla riserva di legge e di giurisdizione.
L’entrata in vigore del nuovo c.p.p. ha rappresentato un evento di rilievo per valutare la
corrispondenza al dettato costituzionale della disciplina della libertà personale, con riguardo
particolare alle limitazioni attuabili nel corso del processo penale. Non a caso, appena prima della
promulgazione del uovo codice, sono state emanate due leggi fondamentali attinenti,
rispettivamente, alla disciplina delle misure di prevenzione personale e alle misure restrittive della
libertà personale. Tuttavia, l’impianto riformato è stato messo a dura prova da alcune pronunce
della Corte costituzionale, che ne hanno ridimensionato le disposizioni più garantistiche, ma anche
da una serie di interventi legislativi adottati a seguito della situazione di emergenza provocata dagli
omicidi Falcone e Borsellino. 29 di 64
Occorre innanzitutto individuare i soggetti titolari del potere di limitare la libertà personale nel corso
del procedimento diretto all’accertamento di responsabilità penale. L’art 13.II pone una riserva di
giurisdizione, limitatamente derogata dal “fermo di polizia” disciplinato nel comma III (“In casi
eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di pubblica
sicurezza può adottare provvedimenti provvisori…”). Appare dunque necessario disgiungere
innanzitutto fra polizia giudiziaria e polizia di sicurezza: si tratta di una distinzione con finalità
prettamente garantistiche in quanto, quando svolge la funzione di polizia di sicurezza, la polizia
non ha di regola poteri coercitivi, mentre, appena giunge notizia della commissione di un reato,
viene esercitata la funzione di polizia giudiziaria con l’uso dei poteri coercitivi. Insomma, mentre la
polizia di sicurezza ha la funzione di assicurare l’ordine pubblico e di prevenire la commissione di
reati, la polizia giudiziaria svolge la funzione di repressione degli stessi.
Una delle principali novità del c.p.p. del 1989 riguardava proprio la configurazione dei poteri
dell’autorità di polizia giudiziaria, rispetto ai cui interventi sembra attenuarsi il carattere di assoluta
eccezionalità. Nel corso delle indagini preliminari si distingue fra atti ad iniziativa propria della
polizia giudiziaria e atti delegati ad essa dal PM, tutti strumentali all’assunzione della direzione
delle indagini da parte del PM stesso, a cui deve essere trasmesso senza ritardo ogni elemento
utile e a cui spetta il compito di convalidare gli interventi coercitivi eventualmente posti in essere. Vi
sono però alcune note discordanti, apparentemente non riconducibili a questa finalità tracciata dal
legislatore: es la conduzione delle c.d. “indagini parallele”, ossia le indagine svolte fuori dalle
direttive del PM e principalmente volte all’acquisizione di nuove fonti di prova, oppure, ben più
gravi, tutti quegli istituti che sembrano alludere a forme di interrogatorio del soggetto sottoposto ad
indagine, talvolta anche in assenza del difensore. In più, nella nuova disciplina codicistica sono
stati mantenuti anche gli istituti dei c.d. “piccoli fermi”, con riguardo ad esempio all’ipotesi di
identificazione del soggetto indagato che può avvenire a seguito dell’accompagnamento coattivo
presso gli uffici di polizia, ove può essere trattenuto lo stretto necessario e comunque non oltre le
12h, esteso a 24h nel caso l’identificazione risulti particolarmente complessa oppure si renda
necessaria la presenza dell’autorità consolare o di un interprete. Tuttavia, l’obbligo di immediata
comunicazione al PM dell’accompagnamento e il suo potere di ordinare il rilascio nel caso in cui
ritenga che non sussistano i presupposti previsti dalla legge punta a ricondurre l’istituto entro le
garanzie procedimenti dell’art 13 (anche se non in maniera tale da escluderne i dubbi di legittimità
costituzionale). Egualmente di dubbia costituzionale è la previsione del c.p.c che autorizza
l’ufficiale giudiziario, munito di titolo esecutivo, a ricercare le cose da pignorare anche sulla
persona del debitore, senza turbarne il decoro.
In ogni caso, gli strumenti tradizionali di limitazione della libertà personale utilizzabili dall’autorità di
polizia sono 2: arresto in fragranza e fermo, presenti nel nuovo c.p.p con una disciplina rinnovata.
ARRESTO IN FRAGRANZA. L’aspetto in questo caso meno convincente era lo scarso rispetto
• dei presupposti di necessità e urgenza che soli giustificano l’intervento diretto dell’autorità di
polizia, da intendersi come riferiti ad esigenze concrete nascenti dall’accertamento di fatti
connessi ad una specifica vicenda criminosa. Tali dubbi hanno trovato eco in una serie di
interventi legislativi volti a restringere l’ambito di applicazione dell’istituto: da un lato si procedeva
ad un innalzamento dei limiti delle pene edittali oltre i quali l’arresto poteva o doveva essere
adottato, mentre dall’altro si escludeva il compito delle aggravanti ad effetto comune in sede di
calcolo della pena massima. In questo modo venne tuttavia toccato solamente l’aspetto
quantitativo, senza toccare minimamente quello della connessione necessari di tale istinto con
effettive esigenze cautelari. A questo proposito il legislatore ha allora puntato a stabilire un nesso
tra valutazioni discrezionali dell’autorità di polizia e l’esistenza di specifiche esigenze cautelari
(es esigenze di tutela della collettività, pericolosità del soggetto o gravità del fatto). Particolare
disciplina è stata dettata riguardo ai reati commessi con violenza alle persone o alle cose in
occasione o a causa di manifestazione sportive: in tali casi, qualora non fosse possibile
procedere immediatamente all’arresto per ragioni di sicurezza o incolumità pubblica, si considera
in stato di flagranza colui che, sulla base di documentazione video-fotografica o di altri elementi
oggetti, risulti autore del fatto, sempre che l’arresto avvenga entro 48h dalla sua commissione.
In definitiva, tale istituto in tanto può essere considerato legittimo in quanto si sostenga non solo
la ricorrenza del requisito dell’eccezionalità, ma anche la sussistenza dei requisiti della necessità
e dell’urgenza; potendo, a stretto rigore, trovare applicazione solo quando via sia pericolo di fuga
o di inquinamento delle prove. 30 di 64
FERMO. Anche in questo caso, dall’analisi dei presupposti (anche fuori dai casi di fragranza,
• quando sussistono specifico elementi che fanno ritenere fondato il pericolo di fuga, persona
gravemente indiziata, determinate caratteristiche delle pene previste), emerge l’intento del
legislatore di ridurre l’area di applicazione dell’istituto e di ricollegarla ad una valutazione di
specifiche esigenze cautelari. A differenza di quanto accaduto in materia di arresto in fragranza,
l’intervento del legislatore sul fermo ha interrotto una tendenza di segno opposto, volta ad una
sensibile attenzione sia del rigore nelle predeterminazione dei presupposti applicativi, sia
dell’efficacia delle garanzie procedimenti predisposte a favore del fermato. La tendenza in atto
sembrava quasi puntare a reintrodurre, anche se nel quadro delle garanzie disposte dall’art 13,
un istituto analogo, soprattutto per i margini di discrezionalità lasciati alle valutazioni dell’autorità
di polizia, al vecchio “fermo di polizia di sicurezza”, bloccato al vaglio della Corte costituzionale.
Come è stato osservato, il fermo è la misura più grave ed immotivata, che pone l’individuo in
piena balia della polizia e svincolato da ogni indizio di reato.
Anche in questo caso, un capitolo particolare è dedicato ai comportamenti violenti nel corso di
manifestazioni sportive. Si tratta di una disciplina particolarmente aspra, che tra l’altro prevede,
nel caso di coloro che sono stati già denunciati e condannati per comportamenti simili, la
possibilità da parte del questore di vietargli l’acceso ai luoghi in cui si svolgono tali
manifestazioni, nonché di imporgli di comparire personalmente una o più volte negli orari indicati
presso l’ufficio o comando di polizia competente. Questa misura è stata anche oggetto di dubbi
di legittimità costituzionale nella parte in cui non collega espressamente il potere del questore
alla sussistenza di ragioni di “eccezionale necessità ed urgenza”, ma la Corte li ha ritenuti
direttamente applicabili, senza bisogno che il legislatore li richiami caso per caso.
La disciplina del nuovo c.p.p. innova soprattutto sul terreno delle garanzie procedimenti
riconosciute all’arrestato o al fermato. In primo luogo ciò vale in relazione al diritto di difesa del
soggetto: salva la possibilità per la polizia di intervenire direttamente per acquisire notizie e
indicazioni sul luogo o nell’immediatezza del fatto, la linea è quella di un immediato coinvolgimento
del difensore. Secondariamente è affermato il principio per cui il tempo in cui il soggetto rimane a
disposizione dell’autorità di polizia deve essere ridotto al minimo indispensabile, e comunque non
oltre le 24h. Tuttavia, la novità più significativa è costituita dalla completa giurisdizionalizzazione
della fase relativa alla convalida del fermo o dell’arresto, scomposta in 3 fasi: la prima ha come
protagonisti ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, la seconda ha la funzione di mettere in grado il
PM di formulare la chiesta di convalida e di chiedere eventuali misure cautelari personali, la terza
riguarda la richiesta di convalida e la fissazione dell’udienza di convalida dal parte del giudice
(entro 48h). Il giudice procede alle proprie considerazioni e, se non pronuncia l’ordinanza di
convalida, il fermo o l’arrestano cessano di avere efficacia.
Novità di rilievo ancora più grandi si registrano con riguardo all’adozione di MISURE CAUTELARI
DI NATURA PERSONALE, rispetto a cui: scompare ogni automatismo nell’esercizio del potere di
cattura del giudice, si esplicita il principio di gradualità e di priorità tra le misure, trovano
applicazione i principi di proporzionalità e adeguatezza delle stesse. Quanto ai presupposti per
l’adozione di tali misure, questi debbono considerarsi l’esistenza non solo di gravi indizi, ma anche
di inderogabili e concrete esigenze cautelari: in questo modo si realizzava una soluzione mediana
fra rigida predestinazione legislativa delle ipotesi di esercizio obbligatorio del potere di cattura del
giudice e valutazioni discrezionali dello stesso; un equilibrio superato nel codice del 1989
nettamente a favore del giudice. Accanto ai gravi indizi di colpevolezza, l’art 274 c.p.p. individua
espressamente quali siano le esigenze che giustificano l’irrogazione di una misura cautelare:
pericolo concreto ed attuale di inquinamento delle prove - da riferirsi sia alle prove già acquisite
1. sia a quelle già individuate, dunque nulla cambia se le indagini sono in stato avanzato oppure
già concluse;
fuga o concreto pericolo di fuga, a patto che il giudice ritenga che possa essere irrogata una
2. pena superiore ai 2 anni;
rischio di reiterazione del reato, ovvero della commissione di altri gravi delitti - è sufficiente la
3. presenza di elementi concreti che portino a ritenere che l’imputato possa commettere reati per
cui è prevista una pena detentiva non inferiore ai 4 anni.
Emerge in questo modo il tentativo del legislatore di fornire al giudice una serie di criteri puntuali
sulla base dei quali operare le proprie valutazioni. Si parla in tal senso di “discrezionalità guidata”.
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Per quanto riguarda invece pluralità e gradualità delle misure cautelari, è stata affiancata alla
categoria delle MISURE COERCITIVE quella delle MISURE INTERDITTIVE. Si tratta di una
gradualità orientata dal legislatore, che ha posto quale estrema ratio del sistema la custodia
cautelare in carcere, a cui ricorrere soltanto quando ogni altra misura risulta inadeguata e
comunque da escludere in presenza di determinate circostanza oppure di determinate categorie
soggettive. I due principi di pluralità e gradualità si collegano direttamente a quello di adeguatezza,
ossia specifica idoneità di ciascuna misura posta in essere a rispondere alle concrete esigenze
cautelari che il giudice deve far salve: non solo condizione di legittimità, bensì anche criterio per la
scelta della misura da adottare. Questa deve essere infatti adeguata, ma anche proporzionata
all’entità del fatto e alla sanzione da irrogarsi. L’adeguatezza e la proporzionalità, nonché i gravi
indizi di colpevolezza non sono solamente elementi da valutare in sede di applicazione delle
misure, ma anche elementi la cui sussistenza verifica successivamente il giudice.
Il disegno riformatore si completa con la nuova disciplina tracciata in tema di GARANZIE
GIURISDIZIONALI connesse all’adozione di misure limitative della libertà personale, nonché delle
GARANZIE A RIPARAZIONE dei casi di ingiusta sottoesposizione a custodia cautelare. Quanto al
primo profilo, si fa corrisponde al pluralismo delle misure adottabili un pluralismo di mezzi di
resistenza ad attivazione da parte dell’interessato (riesame e ricorso in Cassazione per le misure
coercitive, appello e ricorso in Cassazione per quelle cautelari personali), accompagnato dalla
previsione di termini temporali brevi per adottare la decisione. Proprio l’istituto del riesame delle
misure coercitive aveva rappresentato una delle maggiori novità introdotte già prima del c.p.p.
attraverso il c.d. “tribunale della libertà”. Il suo limite maggiore consisteva nella mancata
applicazione del principio di contraddittorio, a cui ha puntualmente supplito il c.p.p. del 1989. In
ogni caso, ai sensi dell’art 111.VII Cost, l’imputato e il difensore possono chiedere direttamente il
ricorso in Cassazione, prescindendo dall’intervento del tribunale (c.d. “ricorso per saltum”).
Per quanto riguarda invece l’obbligo di riparazione agli errori giudiziari, questo è previsto dall’art
24.ult Cost. L’interpretazione di questa fornita precedentemente all’entrata in vigore del codice del
1989 risultava fortemente riduttiva, in quanto riferita unicamente agli errori giudiziari derivanti da
una sentenza passata in giudicato. Si trattava di una tesi in aperto contrasto con l’art 5 CEDU, che
contempla espressamente il diritto alla riparazione in ogni ipotesi di arresto o detenzione illegittime,
ed è in questa direzione che si muovono gli artt 314-315 del nuovo c.p.p., introducendo per la
prima volta nel nostro ordinamento il diritto alla riparazione anche in riferimento alle ipotesi di
detenzione preventiva. Ne risulta in questo modo una tutela del soggetto non solo nei casi di
detenzione ingiusta, tale per l’esito successivo di una vicenda processuale, ma anche in quei casi
in cui la detenzione risulti ingiusta per i mancati presupposti di legge che ne giustificano
l’applicazione, e che quindi viene meno con decisione irrevocabile. Tale tutela è stata inoltre
ampliata da diverse sentenze della Corte, ad esempio ai casi di detenzione ingiusta per erroneo
ordine di esecuzione.
Infine, accanto a tali ipotesi di esercizio del potere di arresto da parte della pubblicità autorità,
esiste un’ipotesi di carattere del tutto eccezionale in cui tale esercizio è consentito anche ai privati.
Si tratta dell’ipotesi di cui all’art 383 c.p.p., ritenuta dalla Corte non incostituzionale in quanto
rappresenta una forma di assolvimento del dovere di solidarietà sociale.
Nuovi problemi si sono posti in relazione all’art 13 a seguito del processo di integrazione europea,
in particolare rileva l’istituto del c.d. mandato d’arresto europeo. Si tratta di una decisione
giudiziaria emessa da uno Stato membro in vista dell’arresto e della consegna di una persona da
parte di un altro Stato membro, con il fine di esercitare azioni giudiziarie in materie penale o
eseguire una pena o misura di sicurezza. La disciplina va a sostituirsi, limitatamente al rapporto
con gli altri Stati membri, a quella sull’estradizione, che resta comunque applicabile con gli Stati
non facenti parte dell’Unione. La legge di attuazione italiana prevede il necessario rispetto di
alcune garanzie affinché l’ordinamento interno dia esecuzione al mandato: da un lato, il rispetto dei
diritti fondamentali della Convenzione, e dall’altro, l’applicazione dei principi e delle regole
costituzionali in tema di giusto processo. Ciò posto, si distingue poi la procedura attiva di
emissione di un mandato di arresto europeo e quella passiva di consegna di un soggetto colpito da
tale mandato:
PROCEDURA ATTIVA. La legge prevede 3 presupposti per l’emissione di un mandato d’arresto
• europeo: emissione di un’ordinanza di custodia cautelare o di un ordine di esecuzione della pena
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detentiva; residenza, domicilio o dimora dell’imputato o del condannato in un altro Stato membro,
oppure che risulti ivi possibile la loro presenza; ricorso di determinati limiti di pena. Al ricorrere di
tali presupposti, l’autorità giudiziaria può procedere all’emissione del mandato, ma la sua
adozione resta comunque subordinata al suo apprezzamento discrezionale dell’effettiva
necessità del mandato stesso. In ogni caso, punto fermo della disciplina è che l’arresto e la
consegna possono essere richiesti soltanto ai fini dell’effettiva esecuzione del provvedimento
detentivo emesso nel corso di un procedimento penale.
PROCEDURA PASSIVA. Si caratterizza per: previsione della garanzia della riserva di
• giurisdizione, nel senso che la consegna non può essere concessa senza decisione favorevole
della Corte d’appello; tipizzazione dei contenuti del mandato d’arresto; esecuzione del mandato
solo nei casi in cui il fatto sia previsto dalla legge italiana come reati, eccetto alcune fattispecie
espressamente individuate; applicazione delle garanzie previste dal c.p.p. per l’esecuzione della
misura cautelare; tipizzazione dei casi in cui la Corte d’appello è tenuta a rifiutare la consegna e
di quelli in cui può subordinarla a talune condizioni; garanzia di ricorso in Cassazione contro
sentenze che decidano a favore del mandato.
L’art 13 contiene anche alcuni principali generali riguardo le modalità concrete di applicazione delle
misure limitative della libertà personale, ossia riguardano i limiti in cui occorrono i pubblici poteri
nell’esercizio della loro funzione repressiva. Innanzitutto, il comma IV della disposizione circa il
divieto di sottoporre a forme di violenza fisica o morale le persone “comunque sottoposte a
restrizioni di libertà”, da leggere in combinato disposto con l’art 27.III in ordine al divieto che la
pena costruisca trattamenti contrari al senso di umanità, al suo carattere retributivo e rieducativo. È
sotto la spinta di alcune pronunce della Corte proprio in relazione al principio rieducativo che si è
giunta ad una profonda riforma del c.d. “ordinamento penitenziario”.
Le novità più significative attengono, prima di tutto, al divieto di fare uso della forza fisica,
soprattutto nei confronti di detenuti ed internati, a meno che non sia indispensabile al fine di
prevenire o impedire atti di violenza, tentativi di evasione e per vincere la resistenza agli ordini
impartiti. In ogni caso non potrà essere usato alcun mezzo di coercizione non espressamente
previsto dal regolamento, e l’eventuale uso deve essere limitato allo stretto tempo necessario.
Secondariamente, gli interventi hanno riguardato la regolamentazione dei provvedimenti
disciplinari: oltre alla loro indicazione tassativa, è previsto che contro la loro irrogazione sia
garantita la tutela giurisdizionale. Ancora, va considerata la disciplina dei rapporti esterni dei
detenuti, nonché quella relativa alle condizioni di vita all’interno del carcere e all’intensità del
regime di detenzione. Vi sono una serie di disposizioni che hanno riconosciuto al detenuto, nei
limiti della situazione di soggezione speciale, una serie di diritti: diritto all’assistenza sanitaria,
diritto allo studio e alla formazione professionale, diritto di partecipare ai riti della propria
confessione religiosa, diritto ad inviare e a ricevere corrispondenza epistolare e telegrafica. Nella
stessa direzione, inoltre, alcune disposizioni hanno sancito l’incompatibilità della detenzione in
carcere con particolari motivi di salute (es aids o gravi deficienze immunitarie), per cui non è
possibile disporre nemmeno la custodia cautelare. La Corte ha tuttavia precisato che non si tratta
di una presunzione assoluta di incompatibilità, bensì tocca al giudice verificare caso per caso
questo elemento. Situazioni egualmente particolari sono quella delle detenute madri, in relazione a
cui sono privilegiate le misure alternative alla detenzione, quella dei tossicodipendenti per reati
connessi alla loro condizione, anche qui con il privilegio di misure alternative, e infine quella dei
minori.
Le MISURE DI SICUREZZA POST DELICTUM vengono disposte dal giudice nella sentenza di
condanna o proscioglimento, oppure successivamente, a carico di chi è ritenuto socialmente
pericoloso e si presume possa divenire recidivo. Si tratta di limitazioni alla libertà personale o di
circolazione e soggiorno basate su due presupposti: l’avvenuta commissione di un reato e la
pericolosità sociale del soggetto. Per quanto, in tema, l’art 25 si limita a richiamare unicamente la
riserva di legge, tali misure sono state progressivamente assoggettata dalla Corte costituzionale
anche alla riserva di giurisdizione. Il problema non si pone dunque in relazione a questo profilo,
bensì rispetto alla mancata determinazione della loro durata massima, all’accertamento e alla
successiva verifica della pericolosità sociale e al rapporto su questa tema fra previsioni legislative
e valutazioni discrezionali del giudice. Circa infatti il delicato presupposto della pericolosità sociale,
il c.p.p valorizza al massimo la valutazione giudiziale, facendo venire meno le ipotesi di
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presunzione legale e radicandone l’individuazione nella decisione del giudice. È evidente che tale
impostazione comporta dei rischi, la cui risposta è costituita dalla possibile impugnazione dei
provvedimenti.
Altra categoria è costituita dalle MISURE DI SICUREZZA ANTE DELICTUM, che prescindono del
tutto dal compimento di fatti criminosi e che puntano a colpire la pericolosità sociale del soggetto in
una funzione preventiva. Nascevano come strumenti diretti a colpire determinate categorie sociali
presunte pericolose, sulla base di elementi perlopiù vaghi, e che dunque, di fronte ai nuovi principi
costituzionali, hanno comportato la nascita di due ordini di problemi. Innanzitutto, il più generale di
stabilire la loro compatibilità o meno con il nuovo sistema che pare escludere limitazioni diverse da
quelle conseguenti l’accertamento giudiziale della responsabilità oppure una pericolosità sociale
accertata; secondariamente, quello di verificare sino anche punto le garanzie di cui all’art 13
dovessero ritenersi operanti con riferimento alle misure di prevenzione. In questo quadro, hanno
rivestito un’importanza fondamentale le sentenze 2-11/1956 e 23-68/1964 con cui la Corte ha
ancorato la loro legittimità costituzionale ad un principio implicito ritenuto presente nel nostro
ordinamento, ossia la “prevenzione e sicurezza sociale”, regole fondamentale a tal punto da
giustificare la predisposizione di interventi preventivi.
La tendenza legislativa successiva ha comportato un progressivo ampliamento dell’ambito di
applicazione delle misure di prevenzione, in particolare in quello patrimoniale. È in questo modo
che è nata la nuova disciplina delle misure di prevenzione PERSONALE, contenuta nella l
327/1988. Tale legge ha innanzitutto affrontato il problema di definizione delle categorie soggettive
suscettibili di essere assoggettate a tali misure, perseguendo un duplice obiettivo: da un lato, la
depurazione dell’elenco delle categorie soggettive, e dall’altro, la delimitazione dei margini di
valutazione discrezionale dell’autorità chiamata all’applicazione, ancorandola alla presenza di
“elementi di fatto”. Per quanto riguarda invece il procedimento, questo consiste in una prima fase
di avviso al soggetto, in cui si comunica (anche oralmente) che vi sono sospetti a suo carico, che
possono autorizzare il questore, entro i 3 anni successivi, a domandare l’applicazione di una
misura di sicurezza. In caso il soggetto tenga, poi, una costante ed effettiva buona condotta, egli
ha la possibilità di richiedere un provvedimento di riabilitazione. Infine, in relazione al contenuto
delle misure, continuano a ruotare intorno alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, a cui
può accompagnarsi l’obbligo ovvero il divieto di soggiorno in determinati Comuni/Province. In caso
di violazione degli obblighi connessi all’applicazione di una misura di sicurezza, sono previste delle
sanzioni, di recente rese più severe.
La materia continua in ogni modo ad apparire di dubbia legittimità, soprattutto successivamente al
varo del nuovo c.p.p. che le costruisce come misure basate su presunzioni di pericolosità sociale
ex lege, le quali molto spesso incidono sulla libertà dell’individuo in misura maggiore delle stesse
misure cautelari. Nonostante ciò, il legislatore ne ha esteso l’ambito di applicazione a numerose
fattispecie, in particolare nei confronti di soggetti con finalità di terrorismo anche internazionale,
con finalità di schiavitù di altre persone, oppure che abbiano preso parte a manifestazioni di
violenza negli stadi. Ma le novità più rilevanti hanno riguardato l’applicazione delle misure di
prevenzione agli indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso o assimilabili,
implementate notevolmente, soprattutto quelle di carattere PATRIMONIALE, che incidono sul
patrimonio dell’interessato o sulla sua attività economica.
L’art 13, nel suo rapporto con lo status dello straniero, presuppone una distinzione fra straniero-
comunitario e straniero-extracomunitario. Una prima differenziazione riguarda le regole di ingresso
e soggiorno nel nostro territorio, che con riguardo agli stranieri-extracomunitari è posta dal dlgs
286/1998 e ha posto non pochi dubbi di compatibilità con lo stesso art 13. Tali dubbi hanno
investito soprattutto l’istituto dell’espulsione amministrativa, da eseguirsi ad opera del Ministro
dell’interno per motivi di ordine pubblico o di sicurezza pubblica, oppure ad opera del prefetto
quando lo straniero è entrato illegalmente nello Stato, quando si è ivi trattenuto senza permesso di
soggiorno, o con permesso di soggiorno revocato, annullato o scaduto senza averne richiesto uno
nuovo, oppure ancora quando lo straniero appartiene ad una categoria di soggetti a cui può essere
irrogata una misura di prevenzione. L’espulsione può essere disposta tramite accompagnamento
alla frontiera oppure tramite l’intimazione di lasciare entro 15 giorni il territorio dello Stato: nel caso
in cui la prima opzione non sia praticabile, è possibile trattenere lo straniero per il tempo
strettamente necessario, comunque non più di 20 giorni, presso un centro apposito. Nonostante
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tale disciplina sembri stridere con l’art 13, la Corte costituzionale ha negato ogni dubbio di
illegittimità. La disciplina dettata dal dlgs è stata modificata dalla c.d. legge Bossi-Fini, la quale ha
introdotto una serie di limitazioni peggiorative allo status di straniero tanto regolarmente quanto
irregolarmente presente. La Corte è in questo caso intervenuta per dichiarare l’incostituzionalità di
alcune disposizioni, spingendo così il governo ad adeguare la normativa nel 2004; questa volta, il
regime dell’espulsione amministrativa e del trattenimento temporaneo sono stati effettivamente resi
più aderenti all’art 13 e 24.
Recenti provvedimenti legislativi sono intervenuti anche in relazione alla disciplina dell’ingresso e
del soggiorno dello straniero extra-comunitario sul territorio nazionale, rinnovando dubbi e
perplessità. A destare particolari rilievi critici era la previsione della c.d. “aggravante di
clandestinità”, ossia una speciale aggravante prevista qualora il delitto fosse stato commesso da
un soggetto illegalmente presente sul territorio nazionale. È stata comunque dichiarata
incostituzionale dalla Corte, in quanto si basava su una generale ed assoluta presunzione di
maggiore pericolosità dell’immigrato irregolare.
Problemi di tutela della libertà personale si pongono poi in relazione a determinate situazioni di
“soggezione speciale”, laddove cioè l’individuo si trova, in virtù di circostanze previste come
legittime, sottoposto all’esercizio di poteri autoritativi da parte di altri soggetti.
- MILITARI
Il tema più rilevante è quello delle sanzioni disciplinari, che si è mantenuto, fino a tempi recenti,
slegato dall’operatività delle garanzie ex art 13 in ragione della separazione dell’istituzione militare
da quelle ordinarie. Anche dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, la materia è
rimasta ancora per lungo tempo affidata alla fonte regolamentare, e allo stesso tempo sottraeva
gran parte delle sanzioni incidenti sulla libertà personale ad ogni garanzia giurisdizionale. Tuttavia,
è stato successivamente avviato un ripensamento complessivo del rapporto istituzione militare-
cittadini, che ha spinto all’adozione della l 382/1978 la quale, pur lasciando ancora al regolamento
una parte non indifferente della materia, ha avuto il merito imporre la riserva di legge sull’impianto
fondamentale degli istituti di disciplina militare. Si tratterebbe di un primo (parziale) tentativo, di
notevole significato innovativo, di espandere le garanzie dell’art 13 alla materia; tendenza
assicurata anche dalla Corte.
- MALATI
L’ospedale e le strutture sanitarie in generale rappresentano egualmente istituzioni in seno alle
quali si verifica una situazione di “soggezione speciale”, qui del malato-degente nei confronti degli
operatori sanitari. Tale situazione inizia al momento del ricovero e cessa con quello delle
dimissioni, entrambi eventi che dipendono da una decisione del medico, il quale ha la facoltà di
porre in essere tutta una serie di misure che, pur strettamente connesse con l’esercizio delle
funzioni sanitarie, finiscono per incidere nella sfera della libertà personale del paziente. In tema è
stato più che altro il legislatore regionale ad attivarsi, introducendo normative dirette a rafforzare la
posizione del più debole nel rapporto, ossia il malato. Sono disposizioni che mirano perlopiù a
valorizzare la sua partecipazione diretta nell’assunzione delle decisioni che lo riguardano, e non a
caso il concetto di “consenso informato” è diventato il cardine del rapporto medico-paziente.
L’esercizio di questi “diritti del malato” è garantito dalla possibilità in certi casi di avanzare ricorsi e
esposti davanti all’autorità giurisdizionale o ad altri organi governativi del servizio sanitario, e in altri
di veder intervenire il difensore civico.
TUTELA PRIVILEGIATA DEI PARLAMENTARI
Una tutela speciale e rafforzata della libertà personale è assicurata ai membri del Parlamento e,
fino alla riforma dell’art 68, consisteva nella guarentigia della c.d. “improcedibilità” e “inviolabilità”,
ossia della loro non sottoponibilità a procedimento penale né ad alcuna misura restrittiva della
libertà personale senza una previa autorizzazione della Camera di appartenenza. L’unica
eccezione era rappresentata dalla fragranza in casi di reati in cui fosse previsto come obbligatorio
il mandato o l’ordine di cattura; qui, la richiesta alla Camera avveniva successivamente. Soggetta
all’autorizzazione della Camera era anche la sottoposizione dei parlamentari a limitazioni della
libertà personale in esecuzione di una sentenza di condanna, ed è proprio in relazione a questo
profilo che si è parlato di un eccesso di garantismo da parte del Costituente. Nel 1993 si è allora
giunti ad una nuova formulazione dell’art 68 in cui, ferma l’insindacabilità dei voti e delle opinioni
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espresse, scompare la guarentigia della non sottoponibiità a procedimento penale senza apposita
autorizzazione a procedere, la quale rimane obbligatoria solo per sottoporre il membro del
Parlamento ad una misura limitativa della libertà personale o domiciliare, nonché a limitazioni della
libertà e segretezza di corrispondenza.
DIRITTO ALLA RISERVATEZZA
Non è un diritto espressamente menzionato dalla Costituzione, ma nessuno ne dubita la rilevanza.
A muoversi in questa direzioni sono stati soprattutto i giudici comuni, seguiti poi dalla Corte
costituzionale, cogliendo nell’art 2 o nell’art 3.I i punti di riferimento a cui legare tale diritto. Appare
tuttavia possibilità ricondurre anche il diritto alla riservatezza alla libertà personale e, in base a ciò,
applicargli le stesse garanzie previste dall’art 13, in aggiunta a quelle predisposte a tutela dei dati
personali. Si configura quale il diritto di mantenere riservato, salva espressa dichiarazione in senso
contrario, quegli aspetti della propria vita privata che attengono a fatti personalissimi, e dunque il
soggetto ha il diritto di sottrarre alla conoscibilità di terzi. La l 675/1996 ha, a tal proposito,
introdotte le prime disposizioni in tema di tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al
trattamento dei dati personali, per poi confluire nel CODICE IN MATERIA DI PROTEZIONE DEI
DATI PERSONALI (dlgs 196/2003). Oggetto della disciplina è la raccolta e il trattamento dei dati
personali effettuati da qualunque soggetto sul territorio nazionale, e la tutela si serve di 3
strumenti:
previsione di una serie di obblighi in capo al soggetto che realizza l’attività di raccolta e
1. trattamento (es informazione agli interessati, richiesta di apposito consenso in alcuni casi,
richiesta specifica di consenso per la comunicazione e la diffusione dei dati);
previsione di una serie di diritti in capo agli interessati (es diritto di accesso ai propri dati di
2. controllo e di rettifica, di opporsi al trattamento degli stessi per motivi legittimi);
istituzione di un apposito Garante per la protezione dei dati personali, con compito di vigilanza
3. sulla corretta applicazione della legge e di intervento al fine di far cessare comportamenti ad
essa contrari.
Su questo impianto generale, la legge innesta una disciplina specifica con riferimento ai c.d. “DATI
SENSIBILI”, ossia quelli in grado di rivelare l’ordine razziale ed etnica, le convinzioni religiose,
filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, lo stato di salute o la
vita sessuale in una persona. Il trattamento di tali dati non può avvenire se non col consenso
dell’interessato e previa autorizzazione del Garante.
È evidente come il diritto alla riservatezza possa porsi in contrasto con la libertà di informazione,
per cui la legge ha predisposto alcune disposizioni appositamente dedicate a questo profilo. Ai
giornalisti e a tutti coloro che esercitano l’attività d’informazione è consentito di raccogliere e
difforme i dati personali senza i limiti prescritti dalla legge, a patto che ciò avvenga nell’ambito di
un’attività di informazione essenziale rispetto a fatti di interesse pubblico.
LA LIBERTÀ PERSONALE E LA TUTELA ALLA RISERVATEZZA IN AMBITO
INTERNAZIONALE
CEDU
•
La tutela convenzione della libertà personale si ritrova negli artt 3-4-5 CEDU. Da parte sua, l’art 3
proibisce la tortura e vieta pena e trattamenti inumani o degradanti, esplicitando un divieto assoluto
che traduce uno dei valori fondamentali delle società democratiche. Fra i trattamenti inumani la
Corte di Strasburgo ha fatto rientrare anche le tecniche di disorientamento impiegate nei confronti
di persone arrestate, nonché le pratiche di “extraordinary rendition”, ossia le azioni di cattura/
deportazione/detenzione clandestinamente eseguite nei confronti dei soggetti sospettati di essere
terroristi e il rimpatrio di condannati per reati di terrorismo internazionale effettuato verso paesi in
cui vi è un rischio di tortura accertato. L’art 4, invece, vieta la schiavitù e il lavoro forzato,
precisando che non sono considerati “lavoro forzato” né il lavoro richiesto ai detenuti, né il servizio
militare, né il servizio richiesto in caso di crisi o di calamità, né il lavoro o servizio rientrante nei
normali doveri civici. L’art 5 è di per sé più analitico e tratta il “diritto alla libertà e alla sicurezza”,
recando innanzitutto una riserva di legge rinforzata ai fini di individuare le fattispecie in relazione
alle quali il legislatore nazionale può stabilire i “casi e modi” della privazione della libertà personale.
In particolare, in relazione alla custodia cautelare, la Corte ha specificato che la privazione della
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libertà personale in funzione della repressione di un reato la cui commissione non è ancora stata
accertata può avvenire solo davanti a motivi plausibili di sospetto che possano persuadere un
osservatore obiettivo. Quanto invece alla custodia ante delictum, è stata considerata necessaria
una valutazione in relazione al caso concreto secondo il criterio di ragionevolezza. Il quadro delle
garanzie della libertà personale è completato dalla previsione di una tutela risarcitoria, ex art 5, ai
sensi del quale: “Ogni persona vittima di arresto o di detenzione in violazione di una delle
disposizioni del presente articolo ha diritto ad una riparazione”.
La tutela della riservatezza della persona passa invece, nel sistema della CEDU, attraverso
l’affermazione giurisprudenziale del “diritto al rispetto della vita privata”, da cui è stata ricavata
l’esistenza di un vero e proprio diritto dell’individuo alla protezione della propria privacy, limitabile
solo in relazione ad esigenze di sicurezza nazionale, pubblica sicurezza, benessere economico del
paese, difesa dell’ordine e prevenzione dei reati, protezione della salute o della morale, protezione
dei diritti e delle libertà altrui. In caso di deroghe al diritto, spetterà alla Corte sindacare la
ravvisabilità di una di tali cause e la proporzionalità della misura restrittiva.
Uno dei problemi più rilevanti relativamente al trattamento dei dati personali è la peculiarità della
gestione delle informazioni relative alla salute. Il rispetto del carattere confidenziale delle
informazioni sanitarie costituisce un principio essenziale dei sistemi giuridici nazionali, in quanto
legato non solo alla protezione della vita privata ma anche alla preservazione della fiducia verso i
medici e i servizi sanitari. La mancanza di tale protezione potrebbe dissuadere chi ha bisogno di
cure mediche dal fornire informazioni di carattere personale e riservato, fondamentali per la
prescrizione di un trattamento appropriato.
UE
•
La libertà personale è tutelata, a livello comunitario, da alcune disposizioni della Carta di Nizza. In
particolare, l’art 4 afferma il divieto di tortura e di pene o trattamenti inumani o degradati, l’art 5 il
divieto di schiavitù e del lavoro forzato o obbligatorio e l’art 6 il diritto di tutti gli individui alla libertà
e alla sicurezza. Importante norme in materia di libertà personale sono poi state adottate tramite il
diritto derivato, nello specifico la decisione quadro in tema di mandato d’arresto europeo (2002).
Per quanto riguarda invece la tutela della riservatezza nell’ordinamento dell’Unione, la Carta di
Nizza disgiunge il diritto al rispetto della vita privata e familiare (art 8) dalla protezione dei dati
personali (art 8, par II), in relazione ai quali è prescritto il trattamento secondo il principio di lealtà,
per finalità determinate e con il consenso della persona interessata, o in base ad una legittima
previsione di legge. Già prima della Carte però, la Corte di giustizia aveva assicurato una vera e
propria tutela del diritto di riservatezza, soprattutto in relazione al trattamento dei dati attraverso
mezzo informatico. È stata poi adottata una direttiva sulla tutela del trattamento dei dati personali,
la quale impone agli Stati membri di prevedere il diritto di accesso alle informazioni sui destinatari
dei dati, nonché sul contenuto delle informazioni comunicate. Spetta agli stessi Stati membri
fissare il termine per la conservazione di tali informazioni, nonché il termine di accesso alle stesse,
in modo che si realizzi un giusto equilibrio tra interesse della persona a tutelare la propria vita
privata e l’onere che l’obbligo di conservare tali informazioni comporta per il responsabile del
trattamento.
Capitolo VIII - La libertà di domicilio e la libertà di circolazione e soggiorno
L’art 14 si preoccupa di tutelare la proiezione spaziale della persona, ossia il DOMICILIO. Già
come a suo tempo lo Statuto albertino, la Carta costituzionale ne afferma l’inviolabilità, fatte salve
alcune possibili limitazioni che dovranno comunque avvenire nel quadro della riserva assoluta di
legge e della riserva di giurisdizione (quest’ultima è anche la grande novità rispetto alla disciplina
precedente). Tuttavia, il comma III aggiunge una deroga alla così sancita riserva di giurisdizione
disponendo che “accertamenti ed ispezioni per motivi di sanità e di incolumità pubblica o a
fini economici e fiscali sono regolati da leggi speciali”. Accenna, evidentemente, al
delicatissimo problema del contemperamento fra libertà di domicilio e altri interessi pubblici
meritevoli di tutela, come la tutela della salute.
Un primo problema della disposizione è dato dall’autonomia concettuale o meno della nozione di
dominio ivi contenuta rispetto alle altre nozioni del medesimo presenti nel nostro ordinamento. I
lavori preparatori della Costituzione mostrano con sufficiente chiarezza come il costituente
pensasse al domicilio quale sfera spaziale della persona, da tutelare in termini diversi e più ampi
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sia del concetto civilistico sia penalistico. In ogni caso, l’interpretazione data del domicilio come
non solo privata dimora, ma anche ogni altro luogo di cui si disponga a titolo privato per lo
svolgimento di attività diverse da quelle legate all’intimità domestica ha comportato una sostanziale
coincidenza fra norme penalistiche e costituzionali. In sintesi, il concetto di domicilio ex art 14 può
definirsi come ogni luogo di cui il sospetto abbia legittimamente disponibilità a titolo privato
per lo svolgimento di attività connesse alla vita privata e dal quale egli intese escludere i
terzi. Di consulenza, la garanzia costituzionale si estende oltre l’abitazione vera e propria. Sulla
base dell’accoglimento di una sì ampia nozione, la titolarità di questa libertà è ormai pacificamente
riconosciuta non solo alle persone fisiche, ma anche alle persone pubbliche o agli enti di fatto, con
riferimento ai luoghi privati in cui si svolgono le loro attività istituzionali. I casi più delicati non
riguardano quindi l’estensione della gamma di possibili titolari, bensì i casi di contitolarità o titolarità
plurima della libertà di domicilio con riferimento ad uno stesso ambito spaziale. Evidentemente, di
fronte ad “interferenze pubbliche”, un eventuale provvedimento limitativo della libertà avrà un
destinatario ben determinato, dunque per gli altri soggetti domiciliati nel medesimo luogo si tratterà
semplicemente di evitare pregiudizi alle proprie rispettive posizioni soggettive; per quanto riguarda
invece le “interferenze private”, la soluzione non è univoca.
La deroga di cui al comma III suona come una delle meno “liberali” in tema di libertà, quasi come
una nota stonata nella tessitura garantista del titolo I. Una previsione che, pur ancorata alla
presenza di motivi di sanità ed incolumità pubblica o fini economici e fiscali, apre una breccia non
indifferente nella riserva di giurisdizione, uno dei due istituti cardine della materia. Si tratta di un
problema, quello della delimitazione puntuale dell’area di operatività del comma III, che è tuttora
aperto, e che la dottrina ha cercato di risolvere offrendo un’interpretazione strettamente rigorosa
dei controlimiti imposti al legislatore dalla disposizione. La previsione delle limitazioni ex art 14.III è
infatti generalmente ancorata al rispetto di 3 precise condizioni:
strumenti di mero accertamento conoscitivo (accertamenti ed ispezioni), non già misure di
1. natura diversa e di più grave interferenza con gli interessi del soggetto (perquisizione e
sequestri);
introduzione di tali strumenti con apposita legge speciale;
2. tassativa indicazione delle finalità che si intendono perseguire attraverso tali misure.
3.
Sulla base di un atto motivato dal GIUDICE si può procedere a determinate limitazioni, e cioè:
ispezione di luoghi e cose, diretta ad accertamenti connessi alla commissione di reati;
• perquisizione domiciliare, diretta alla ricerca di persone, cose o documenti;
• sequestro, sempre connesso all’accertamento di fatti inerenti ad una fattispecie criminosa.
•
La giurisprudenza ha ulteriormente affermato che anche le riprese visive all’interno di luoghi di
privata dimora a fini investigativi devono essere disposte con atto motivato dell’autorità giudiziaria.
Il tema è stato fra l’altro affrontato anche dalla Corte costituzionale nelle sentenza 135/2002, nella
quale ha assoggettato al medesimo regime, in quanto ipotesi del tutto assimilabili, anche le
intercettazioni di comunicazioni tra presenti nei luoghi di privata dimora. Nella stessa sentenza, la
Corte ha anche affrontato il problema dell’ammissibilità di forme di violazione della libertà di
domicilio diverse da quelle enucleate dall’art 14, risolvendolo in termini positivi e afferma quindi il
mero carattere indicativo e non esaustivo dell’elenco, soprattutto in ragione della continua
evoluzione tecnologica. A limitare la libertà di domicilio è anche l’allontanamento dalla casa
familiare, disposta dal giudice quale misura cautelare recentemente introdotta. Mentre questa non
desta particolare problemi, alcune disposizioni in materia civile lo fanno, come ad esempio il
pignoramento nella case del debitore o in luoghi a lui appartenenti, in quanto non rispettano la
riserva di giurisdizione.
Anche l’AUTORITÀ DI POLIZIA può esercitare limitazione alla libertà di domicilio, innanzitutto in
MISURA PREVENTIVA: un esempio è la facoltà di accesso, in qualunque ora, nei locali ove si
svolgano attività soggette all’autorizzazione di polizia, al fine di verificare l’effettivo rispetto delle
condizioni poste dalla legge o da altre prescrizioni normative. Si tratta di un potere che non
soggiace alla garanzia di giurisdizione, e pertanto si è molto discusso sulla sua legittimità,
ancorandola al solo esercizio per uno dei motivi espressamente previsti dall’art 14.III. Segue il
potere di perquisizione (e di eventuale sequestro) in qualunque locale pubblico o privato, quando si
abbi notizia dell’esistenza di armi, munizioni o materie esplodenti detenute abusivamente; di
nuovo, il mancato rispetto della riserva di giurisdizione ha fatto sorgere dubbi di legittimità, tuttavia
negati dalla Corte costituzionale. Infine, è concesso alla polizia giudiziaria e alla forza pubblica di
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procedere, per motivi di necessità e di urgenza, all’identificazione e dall’immediata perquisizione
sul posto, al solo fine di accertare l’eventuale possesso di armi, esplosivi e strumenti di effrazione,
di persone il cui atteggiamento o la cui presenza non appaiono giustificabili.
Vi sono poi altri poteri collegati alla fase delle INDAGINI PRELIMINARI, ossia il potere di
ispezione, perquisizione e sequestro connessi alle esigenze di accertamento dei fatti relativi alla
commissione di un reato e la cui giustificazione è da ricondursi proprio a tali esigenze. La disciplina
prevede in ogni caso la comunicazione e la successiva convalida dell’autorità giudiziaria. Ancora vi
è il potere di sequestro, da parte degli ufficiali della polizia giudiziaria, della documentazione
esistente presso uffici della PA, enti creditizi, imprese, società ed enti di ogni tipo, quando detta
documentazione sia tenuta utile ai fini delle indagini nei confronti di soggetti indiziati di appartenere
ad associazioni di tipo mafioso. Similmente, nel corso di indagini collegate ai fenomeni di
criminalità organizzata, la polizia giudiziaria è autorizzata a procedere in ogni luogo al controllo e
all’ispezione dei mezzi di trasporto, dei bagagli e degli effetti personali quando vi sia fondato
motivo di ritenere che possano essere rinvenuti denaro o valori costituenti il prezzo della
liberazione della persona sequestrata, nonché armi, munizione o esplosivi.
Ancora, limitazioni alla libertà di domicilio posso essere imposti dalla “legislazione speciale”:
limitazioni imposte per motivi di igiene, sanità e incolumità (es potere di ispezionare stabilimenti
• ed esercizi pubblici dove si producono, conservano, smerciano o consumano sostanze
alimentari; potere di ordinanza ministeriale relativo alla visita e disinfezione di immobili
nell’ipotesi di sviluppo di malattie infettive a carattere epidemico);
limitazioni imposte per motivi economici e fiscali (es potere degli ufficiali di polizia tributaria di
• procedere ala perquisizione domiciliare qualora abbiano notizia o il fondato sospetto di violazioni
delle leggi finanziarie costituenti reato; potere di procedere ad ispezioni e verifiche ai fini
dell’accertamento dell’IVA).
Mentre nessun dubbio suscitano tali limitazioni, diversamente si può dire per la previsione
dell’obbligo di dare comunicazione all’autorità locale di pubblica sicurezza nel caso si ospiti uno
straniero o apolide, anche se parente o affine. Tale previsione andrebbe almeno correlata ai limiti
costituzionalmente previsti per la libertà di informazione.
GARANZIE CONTRO LE VIOLAZIONI ILLEGITTIME DELLA LIBERTÀ DI DOMICILIO
- INTERFERENZE PRIVATE
Le garanzie consistono nel ricorso al giudice, penale o civile, in caso di violazione delle relative
disposizioni legislative. La disciplina penalistica si è caratterizzata per un crescente allargamento
della gamma di fattispecie trattate alla stregua di interferenze illecite, toccando il culmine con la
previsione del delitto di violazione di domicilio (art 614 c.p), completato da previsioni che
puniscono qualunque interferenza illecita nella vita privata, portandola aldilà delle violazioni
materiali. A tale disciplina si aggiunge ovviamente quella relativa alla responsabilità civile, in
particolare quella extracontrattuale ex artt 2043-2059.
- INTERFERENZE PUBBLICHE
In caso di imposizione di limitazioni alla libertà personale in contrasto con le garanzie procedurali e
sostanziali di cui all’art 14 accade:
impugnazione della legge ordinaria in contrasto con la disposizione costituzionale;
• illegittimità del comportamento dell’autorità, che può tradursi in responsabilità di carattere penale,
• amministrativa o civile;
invalidità e inefficacia del procedimento illegittimo dell’autorità.
•
LIBERTÀ DI CIRCOLAZIONE E SOGGIORNO
L’art 16 garantisce al cittadino la libertà di circolare e soggiornare liberamente all’interno del
territorio dello Stato, nonché la libertà di uscire e rientrare in tale territorio (c.d. LIBERTÀ DI
ESPATRIO). Il corollario di ciò consiste nel divieto di adottare provvedimenti che ostacolino la
libera circolazione delle persone, imposte alla regioni dall’art 120.
Nonostante la Costituzione la preveda, la distinzione tra libertà personale e LIBERTÀ DI
CIRCOLAZIONE appare problematica, soprattutto con riferimento alle misure di prevenzione di
carattere personale. La tutela della libertà di circolazione è fondata innanzitutto su una riserva di
legge rinforzata, nel senso che eventuali imitazioni devono essere disposte dalla legge “in via
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generale per emotività di sanità o di sicurezza”, mentre sono comunque escluse limitazioni
determinate da motivi politici. La locuzione “in via generale” è stata intessa come indicazione di
illegittimità di ogni limitazioni riferita a singoli individui o a determinati gruppi, per cui la legge deve
prescindere dalle qualità morali degli stessi, pur includendo il riferimento a “motivi di sanità e di
sicurezza” anche la possibilità di apprezzamenti discrezionalità su singoli individui. Altri hanno
invece inteso la locuzione “in via generale” come autorizzante l’intervento, in materia, di atti
normativi secondari o di atti amministrativi di carattere esecutivo, sempre nel rispetto del principio
di legalità: in questo caso si parlerebbe di una riserva di legge relativa, confermata da numerosi atti
legislativi vigenti che in non pochi casi prevedono anche l’esercizio di poteri amministrativi di
ordinanza. Da parte loro, anche la giurisprudenza costituzionale e quella comune affermano tale
natura relativa della riserva, esplicitando che il legislatore ordinario ha l’obbligo di stabilire le ipotesi
generali in cui è lecito limitare la libertà di circolazione, ma può demandare all’autorità
amministrativa di specificare tali ipotesi in forza di atti amministrativi secondari. Per quanto
riguarda invece i concetti di “sanità” e “sicurezza”, essi si riferiscono rispettivamente alla tutela
della salute e alla prevenzione dei reati.
La LIBERTÀ DI SOGGIORNO presenta un primo problema di tipo definitorio, in quanto si deve
ritenere che il termine “soggiorno” individui ogni tipo di sosta in un determinato luogo, non
sovrapponendosi quindi alla libertà di domicilio. Consiste prima di tutto nel diritto di stabilirsi nel
luogo prescelto e di fermarvisi per il periodo desiderato, e poi nella libertà di scegliere il luogo di
lavoro (con conseguente illegittimità di tutte quelle norme che privilegiano i residenti per
l’assunzione). La libertà di soggiorno pone inoltre il problema degli obblighi di residenza previsti in
ragione dello status di determinate categorie soggettive. Si è ritenuto che tali limitazioni in tanto
possono dirsi legittime in quanto possano contare su un fondamento costituzionale, quantomeno
indiretto. Da ultimo, rilevanti dubbi ha sollevato la legislazione che consente all’autorità di polizia di
accedere alle informazioni relative al soggiorno temporaneo presso le aziende alberghiere e
all’identità delle persone cui vengono venduti o locati immobili di abitazione: si tratta di attività di
informazione e conoscenza sì funzioni allo svolgimento dei compiti di pubblica sicurezza, ma
destano numerose perplessità in ordine ad una loro proliferazione, la quale potrebbe incidere in
modo eccessiva sulla libertà di soggiorno.
La LIBERTÀ DI ESPATRIO non incontra alcun limite specifico, se non quelli derivanti dall’aver
compiuto ciò che l’art 16 chiama “obblighi di legge”. Rispetto alla libertà di circolazione e di
soggiorno, tale libertà è disciplinata diversamente in quanto coperta da una riserva di legge
assoluta ma non rinforzata. Da ciò si deduce anche che i limiti imposti dall’art 16.I non sono
estensibili alla libertà di espatrio, essendo posti a tutela di interessi pubblici riferiti unicamente al
territorio italiano.
“Onere” per chi espatria è il passaporto, senza il quale non è possibile entrare legalmente nel
territorio di altri Stati. La materia è stata riformata dalla l 1185/1967, la quale ha escluso un potere
discrezionale dell’autorità amministrativa nel rilascio del passaporto a fronte dell’affermazione
dell’espatrio quale diritto soggettivo. Il rilascio è quindi vincolato ad una funzione di mero
accertamento dell’esistenza o meno delle limitazioni previste dalla legge. La stessa legge indica
anche quali siano i soggetti che, dovendo adempiere a determinati obblighi di legge, non possono
ottenere il passaporto:
coloro che, sottoposti alla potestà dei genitori o alla potestà tutoria, siano privi dell’assenso della
• persona che la esercita, o, in difetto, dell’autorizzazione del giudice tutelare;
i genitori che, avendo prole minore, non abbiano l’autorizzazione del giudice tutelare, la quale
• non è necessaria qualora si abbia l’assenso dell’altro genitore, quando si abbia la potestà
esclusiva sul figlio o quando sia militare impegnato in missioni internazionali, ai soli fini del
rilascio del passaporto di servizio;
coloro che debbano espiare una pena restrittiva della libertà personale o soddisfare una multa o
• ammenda, salvo il nulla osta dell’autorità che cura l’esecuzione della sentenza;
coloro che siano sottoposti ad una misura di sicurezza detentiva ovvero di prevenzione.
•
Esistono, tuttavia, alcuni aspetti della legge che paiono di dubbia legittimità costituzionale. Uno è
rappresentato dall’ampio potere discrezionale del Ministro degli esteri di sospendere o limitare il
rilascio dei passaporti, di ritirare quelli già rilasciati o di limitarne la validità territoriale, quando
I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher gbonins di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Diritto costituzionale e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Uninettuno - Uninettuno o del prof Pizzetti Francesco.
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