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3. IL CINEMA CLASSICO HOLLYWOODIANO
Di cinema hollywoodiano si può parlare a partire dai rimi anni ’10, quando le
strutture produttive iniziano a spostarsi da New York alla West Coast, in
particolare nel distretto di Hollywood, nei pressi di Los Angeles. Le ragioni
principali di questa scelta stanno nella necessità, da parte delle troupe, di
lavorare in piena luce, e avere a disposizione ampi spazi in cui edificare
scenografie o collocare vicende immerse in paesaggi naturali, tutte cose che
Famous
la California d’inizio secolo forniva. Nel 1912 Adolph Zukor fonda la
Players in Famous Plays, scommettendo sulla fama dei suoi interpreti e dei
testi portati sullo schermo, e puntando così alla creazione di prodotti di ampio
consumo che siano contemporaneamente nobilitati dalle origini teatrali o
letterarie; egli parte soprattutto dalla consapevolezza del fatto che il pubblico
inizia ad abituarsi ai film di sempre maggiore durata e comincia a riconoscere
e ad affezionarsi agli attori e alle attrici che vede e riconosce sullo schermo.
Sarà Zukor, una vota fusa la propria compagnia con quella di Jesse L. Lasky, a
Famous Players-Lasky Corporation,
formare la una delle imprese chiave
dell’industria cinematografica attraverso cui i due soci controllano anche la
società di distribuzione Paramount, non dovendo delegare a terzi la fase del
noleggio. Figura fondamentale di questa fase di passaggio è David W. Griffith,
capofila del superamento definitivo del modello primitivo di messa in scena e
racconto; il suo capolavoro NASCITA DI UNA NAZIONE è considerato il punto di
partenza del cinema hollywoodiano classico, da un punto di vista narrativo,
linguistico e formale. Il film è una rievocazione della grande ferita ancora
aperta della guerra civile americana attraverso le vicende di due famiglie
amiche, una nordista e una sudista, separate dal conflitto. Con l’opera, della
durata di 2 ore e 40, Griffith riesce a dare maggiore complessità alla
narrazione cinematografica senza sacrificare la semplicità e l’immediatezza
del racconto: con Nascita di una nazione sembra imporsi definitivamente un
modello spettacolare, narrativo ed espressivo che permette allo spettatore di
immergersi nel racconto, guidato da un’istanza narrante onnisciente che
organizza la vicenda conducendola il più delle volte verso un lieto fine. Nel
1919 Griffith fonda, con Charlie Chaplin, Douglas Fairbanks e Mary Pickford, la
United Artists Corporation, che rappresenta un tentativo di controllo della fase
produttiva da parte dei responsabili della fase creativa del film; l’obiettivo è
quello di innalzare la qualità artistica dei film e far sì che registi e divi siano
riconosciuti come autori dei film a cui lavorano. Negli anni ’20, subito dopo la
Prima guerra mondiale, l’egemonia di Hollywood si rafforza considerevolmente
e si assiste ad un vertiginoso aumento del pubblico, dei capitali investiti e del
numero di sale. Il cinema è ormai ritenuto l’arte del ‘900, capace di fornire
miti, modelli sociali e comportamentali, veicolare ideologie e raccontare, con
un proprio linguaggio e un proprio stile, non più dipendente dal teatro o dalla
letteratura. La macchina hollywoodiana viene definita ‘fabbrica dei sogni’
poiché, a partire dagli anni ’20, Hollywood diventa un complesso industriale
solido, votato al profitto, e un potete strumento politico e propagandistico
capace però di generare una produzione culturale che diffonde forme
narrative, tecniche linguistiche, schemi iconografici che ne fanno un
riferimento classico. La complessità di questo universo industriale, artistico e
narrativo, viene sintetizzata nella nozione di “sistema”: il cinema
hollywoodiano classico sarebbe il frutto dell’interazione di una serie di
strategie che si addensano in più sistemi che finiscono per dare forma a un
apparato dinamico, articolato e multiforme, ma riconoscibile. Il primo e più
importante sistema è il cosiddetto studio system, legato ai modi di produzione
e diffusione dei film. In primo luogo, Hollywood si fa sistema da un punto di
vista aziendale; Zukor e la Famous Players-Lasky saranno presi a esempio per
majors,
lo sviluppo dell’era degli studios. Le grandi case, le che basano il loro
potere sull’integrazione tra produzione, esercizio e distribuzione, passano da
tre negli anni ’20 (le Big Three: Paramount-Publix, Metro-Goldwyn-Mayer
(MGM) e First National) a cinque negli anni ’30 (le Big Five: Metro-Goldwyn-
Mayer, Paramount, 20th Century Fox, Radio-Keith-Orpheum (RKO) e Warner
Bros.). Tutte queste majors possiedono teatri di posa e stipulano contratti,
spesso esclusivi, con il personale chiamato a lavorarvi, dai tecnici alle star.
Sono dotate poi di strutture per la distribuzione nazionale ed estera e di un
largo numero di sale cinematografiche. La MGM, nata dalla fusione, nel 1924,
della Metro Pictures Corporation e della Goldwyn Company, è guidata da
pruducers di talento (Louis Mayer e Irving Thalberg), possiede molte delle più
maestose sale di prima visone del paese, e ha sotto contratto alcuni dei
maggiori registi e attori dell’epoca; acquistata poi la Cosmopolitan Pictures,
può contare anche sull’appoggio di alcuni dei giornali più letti d’America. La
central producer system producer-
MGM è emblematica del passaggio dal al
unit system, ovvero da una supervisione affidata ad un central producer a una
divisione in più unità specializzate, spesso composte dagli stessi tecnici e
organizzate attorno a un numero limitato di divi e generi. Accanto alle majors,
minors:
si trovano anche società con capitali ridotti, le le Little Five sono la
Warner Bros, la 20th Century Fox, la Universal, la Producers Distributing
Corporation e il Film Booking Office (le prime due passeranno poi tra le Big
Five grazie ad una politica di espansione e all’acquisizione progressiva di sale);
le Little Three, negli anni che vanno dall’introduzione del sonoro alla seconda
guerra mondiale sono: la Universal, la Columbia, e la United Artists. Esistono
Poverty Row,
poi società ancora più piccole, dette (come la Monogram o la
Republic) che realizzano produzioni a bassissimo costo e, all’opposto, vi sono
indipendenti che puntano su un numero limitato di opere costose e di grande
richiamo, come David O. Selznick: per sua iniziativa viene realizzato uno dei
capolavori cinematografici del primo ‘900, simbolo della ricchezza espressiva
Via col Vento
ed economica del cinema classico, (‘Gone with the wind’ Victor
Fleming 1939). Tratto dall’omonimo romanzo di Margaret Mitchell, il film
mescola le travagliate vicende amorose di Rhett Butler e Scarlett O’Hara, figli
di ricchi possidenti terrieri della Georgia, al racconto della guerra civile
americana. Nonostante la necessità di appoggiarsi a una major, come la MGM,
che fornì attrezzature, teatri di posa e personale sotto contratto (a partire da
Clark Gable), la paternità di Via col Vento è in tutto attribuibile a Selznick, che
supervisionò personalmente ogni fase, dalla sceneggiatura al montaggio
finale. Il lavoro del produttore è certamente più significativo di quello del
regista, anche se non si può parlare di autore al singolare, ma il film
costituisce il frutto dello studio system, di cui testimonia l’altro grado di
professionalità. Nessun professionista, in quanto ingranaggio della grande
macchina hollywoodiana, si sottrae ad una logica che vede trionfare la forza
collettiva di un lavoro coordinato da uno o più producers. Un sistema così
organizzato condiziona profondamente lo stile visivo dei film a scapito della
visione personale del regista. Lo stile non è quindi un fattore individuale ma
diventa paradigma comune, anche se non standardizzato: ciascun opera è
caratterizzata da un’impronta che connota la casa di produzione che l’ha
studio look
generata: è il cosiddetto (o house style), che differenzia film
appartenenti allo stesso genere o allo stesso periodo ma realizzati da case
diverse. Ad esempio i musicals della RKO, interpretati dalla coppia Fred
Astaire-Ginger Rogers negli anni ’30, sono profondamente diversi da quelli
della Warner degli stessi anni: nei primi (come Cappello a cilindro, 1935) i
numeri musicali sono realizzati in funzione dei due protagonisti che, attraverso
la danza, segnano passo dopo passo il progredire della loro storia d’amore; le
riprese dei ballerini sono spesso frontali, e la regia asseconda i movimenti dei
due senza intervenire continuamente con cambi d’angolazione o troppi
stacchi; nei secondi, invece, (come Quarantaduesima strada, 1933) il ballo è
maggiormente astratto e la macchina da presa partecipa in prima persona alla
composizione di complesse coreografie che vedono annullarsi i molti ballerini
in composizioni coreutiche, spesso riprese dall’alto. Fin dal logo della casa in
apertura, quindi, lo spettatore dell’epoca attiva una serie di aspettative che
l’opera è chiamata a soddisfare; a questo servono anche il sistema dei generi
e lo star system, che fissano alcuni ruoli definiti: per lo studio ogni genere è
una categoria dedicata a cui lavorano spesso le stesse persone, e ogni divo è
una risorsa che si può sfruttare secondo le sue idoneità specifiche. Ciò non
vuol dire che ogni divo sia per forza specializzato in un unico genere, ma che a
lui venga richiesto di lavorare su un particolare ‘tipo’ riconoscibile anche
l’outlaw hero
attraverso generi diversi. Ad esempio incarnato da Humphrey
Bogart può passare dal gangster film, al noir, al western, così come ai film di
spionaggio o ai drammi a sfondo bellico. Su questi aspetti si costruisce quel
meccanismo di attesa con cui i produttori giocano nel realizzare e nel
distribuire un nuovo film: il pubblico si aspetta un certo personaggio quando
sa che quel film prevede un certo divo, anche se poi il film si discosta nel
genere a quello interpretato dalla star precedentemente. È l’apparato
industriale a plasmare, a seconda delle sue esigenze, le personalità scelte in
base al bisogno e alle richieste del pubblico: un sistema che tende a reificare il
divo, facendone oggetto di marketing. Nel 1922, i più importanti studios
Motion Picture Producers and Distributors of America
istituiscono la (MPPDA),
un’iniziativa di autocensura formalizzata nel 1934 in un vero e proprio Codice
di produzione che stabilirà una serie di parametri e misure che regolamentino
il contenuto morale di film; a capo di questa organizzazione, che contribuirà
alla definizione del sistema produttivo hollywoodiano, è chi