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Alcune voragini della memoria collettiva che hanno segnato la storia europea del Novecento
possono essere ricondotte a più o meno inconsapevoli strategie di disconferma o di diniego. Talora
si tratta di scelte delle élite politiche, consapevoli, goal-oriented, razionali, frutto di ragion di Stato,
come nel silenzio delle democrazie europee di fronte al genocidio armeno o alla carestia pilotata
che ha sterminato il popolo ucraino. Altre volte sono collettività intere coinvolte, come nel caso del
doloroso autoinganno del popolo tedesco sull’Olocausto. In alcuni casi poi l’esercizio della strategia
di disconferma può anche produrre esiti straordinariamente positivi, individuando una via di uscita
costruttiva da un vicolo cieco. A Iskenderun i cristiani rimasti in poche unità hanno abbattuto le
barriere confessionali, e maroniti, armeni, melchiti e latini si sposano tra loro. Un ecumenismo nato
dalla solitudine è una risposta di disconferma della barriera tra confessioni cristiane di fronte a una
situazione insostenibile senza vie d’uscita. È quando le strategie di disconferma dei singoli individui
si sommano che esse possono diventare visibili e deflagranti fino a essere magari etichettate come
nuove epidemie sociali. Una nuova epidemia sociale, apparentemente unica, è per esempio quella
che compare e si diffonde negli anni novanta in Giappone.
Tamaki Saito ha definito hikikomori una sindrome psicologica emergente che consiste nel totale
ritrarsi da ogni forma di vita sociale da parte di molti giovani giapponesi. La più condivisa tra le
letture del fenomeno addebita il disagio dei giovani del sol levante alla pressione da parte dei
modelli culturali e delle attese sociali riposte su un giovane di classe media, perché si conformi alle
norme e all’obbligo di una vita di successo, nonché all’unico e condiviso percorso accettabile per
raggiungere questo obiettivo: una istruzione prestigiosa. Oltre alla società, la scuola ed il mercato
del lavoro, il quarto imputato è la famiglia giapponese e per più di una ragione. Alcune hanno a che
fare con modelli culturali di comportamento lontani del nostro modo di pensare: “se mio figlio si
rinchiudesse in camera busserei e aprirei la porta”, ci diciamo, mentre l’educazione familiare
giapponese non prevede forzature e si limita a supportare dolcemente il figlio autorecluso. Ma altri
aspetti del rapporto tra genitori e figli riecheggiano straordinariamente la cultura mediterranea: un
padre assente perché fagocitato dall’impegno lavorativo, un rapporto madre-figlio così stretto da
assumere forme di compulsiva co-dipendenza, da tempo catalogate in psichiatria transculturale, un
rapporto di collusione-complicità in cui la madre accudente alleva figli che non hanno seri motivi e
stimoli ad andarsene di casa. Prima che emergesse questa sindrome, Masahiro Yamada aveva reso
celebre l’etichetta parasite single per indicare i Tanguy suoi conterranei, giovani uomini e donne
trentenni, che continuano a vivere con i genitori anche dopo essere diventati economicamente
indipendenti, sfruttando fino in fondo le comodità di quella condizione di celibato. Ogni epoca
fornisce poi i modi, le occasioni, i canali più confacenti per il manifestarsi del disagio stesso.
Inoltre, il quinto attore della nuova fenomenologia hikikomori è costituito dalle tante sindromi di
Internet Addiction Disorders: giochi di ruolo interattivi (in cui l’individuo partecipa costruendosi la
sua seconda vita) inghiottono la persona in una dimensione virtuale senza limiti di estensione nel
tempo.
5. Perché a identiche apocalissi risposte diverse?
L’attacco al cuore della stessa sopravvivenza di un individuo o di una comunità può portare reazioni
differenti, anche antitetiche: a volte collassi e a volte rigurgiti di reattività. Prendiamo come
esempio il caso di due apocalissi storiche, assai simili per il contesto geografico e per le dinamiche,
e che tuttavia hanno avuto sbocchi discordanti: il prosciugamento delle popolazioni amerinde del
sud durante il XVII secolo e la ripresa demografica delle tribù amerinde del nord coinvolte nel
movimento del Grande Spirito.
Alla fine del Quattrocento, ottanta milioni di abitanti vivevano nelle regioni dell’America centrale e
meridionale, per lo più addensati lungo la linea degli altopiani. L’uomo occidentale irrompe in
questo scenario portandosi dietro il dono avvelenato dei microbi e dei virus. I Guaranì (popolo delle
foreste) passarono così da un milione e mezzo a centotrentamila. Questa eclissi non fu solo il
risultato dell’impennarsi delle morti, che fossero per spada o per malattia, essa è dovuta anche al
crollo improvviso della fecondità. La caduta del favore degli dei di quelle culture e il frantumarsi
della loro rappresentazione trascendente del mondo hanno spinto quelle civiltà a una epocale
disconferma di se stesse, marcando il crollo con un inconfondibile segno materiale.
Andiamo ora più a nord tre secoli dopo. La Danza del Grande Spirito dell’ultimo decennio
dell’ottocento fu un movimento di ribellione contro i bianchi che avevano occupato le terre dei
pellerossa. Le tribù che aderirono al movimento erano tra quelle che nei venti anni precedenti più
avevano ridotto i loro ranghi. Quelle stesse tribù nei brevi anni del movimento videro impennare i
loro tassi di fecondità. Questo movimento, pur destinato al massacro, si rivelò una straordinaria
macchina produttrice di self-respect e di perpetuazione lungo l’orizzonte temporale di vita.
A cosa attribuire questa divaricazione? Una strategia di riconferma o di disconferma, di
rivendicazione o di decostruzione dell’architettura identitaria di un individuo, non può essere ridotta
ad una scelta consapevole e razionale. Essa segue percorsi logici e sovra-costruzioni simboliche
oblique, accompagnate da manifestazioni emozionali indirette con cui occorre confrontarsi.
Analogamente, chi si interroga sugli slittamenti di comportamento che hanno segnato la demografia
mediterranea nell’ultimo quarto del ‘900 mette troppo poco in discussione il primato della chiave di
lettura rational choice. Meglio sarebbe scendere sotto la superficie dei processi logico-cognitivi.
Capitolo sesto. Strategie all’intorno
1. Incidentalmente
Esistono azioni, tuffarsi in piscina per esempio, che saranno davvero attuate solo se non ci si sta a
pensare sopra e solo se non sono troppo o troppo a lungo coltivate nell’orto delle scelte ragionevoli.
Il più ovvio esempio ha a che fare con l’essenza dell’homo oeconomicus: scelte imprenditoriali
innovative e pionieristiche non troverebbero spazio senza un pizzico di istintiva follia.
Perché un trentenne in bilico tra sopravvivenza e realizzazione personale, in un mercato del lavoro
irto di incognite, dovrebbe per propria scelta razionale uscire di casa o condividere la vita con
un’altra persona, dal momento che il prevedibile bilancio di una scelta del genere comporta rischi
elevati (caduta sotto il livello di povertà, insuccesso dei nuovi rapporti effettivi instaurati), senza la
rassicurante rete di salvataggio economica e affettiva della famiglia di origine?
Anche in questo caso scelte al buio, con vantaggi incerti e costi certi, soprattutto in un tempo in cui
le contingenze critiche sembrano erigere barriere difficilmente sormontabili, non troverebbero
spazio senza un pizzico di istintiva follia. Che dire poi della scelta di coppia di avere un figlio?
Anche la maternità e la paternità sono scelte prese al buio rispetto ai possibili benefici e alla
sostenibilità dei costi, con l’aggravante che si tratta di scelte senza possibilità di ritorno. Sarà poi
l’azione, incidentalmente (by the way), a produrre identità. Non è affrontandoli di petto che stati
finali desiderabili come quelli indicati si perseguono: contano assai più le condizioni al suo intorno
(stati d’animo, umori, climi entro cui la scelta si forma) che ridestino gli spiriti animali capaci di
trasformare l’intenzione in atto, e di rendere l’azione in sé produttrice di plusvalenza. Il guaio di
questi stati finali desiderabili è però che le condizioni all’intorno che possono farli raggiungere non
sono pianificabili in modo diretto. Elster definisce effetti essenzialmente secondari i risultati di
processi decisionali privi di un legame diretto e consapevole tra esito e intenzione. Tra gli esempi
che cita v’è la goffa e dolorosa impossibilità di prender intenzionalmente sonno quando si soffre di
insonnia, ma anche la naturalezza spasmodicamente perseguita da Stendhal.
2. Il disancoraggio delle azioni dalle intenzioni
Come avviene nella disperazione generalizzata che dà forma alla depressione, un effetto peculiare
degli stati d’animo di crisi è costituito proprio dalla perdita della capacità di reagire prendendo
decisioni. Una perdita dovuta al subentro di uno stato di indifferenza agli stimoli che è conseguenza
dell’intollerabilità degli stimoli stessi, e insieme riparo da essi. Ma anche a una degenerazione
paratattica del processo di formazione delle scelte che consiste nella perdita di un ordine di priorità
tra le alternative, tutte poste allo stesso livello, tutte da desiderare contemporaneamente e con la
stessa determinazione senza identificare precedenze, interdipendenze o priorità: è la filosofia del
tutto-e-subito. Una sindrome di questo tipo include:
- Incapacità di prendere decisioni;
- Senso di perdita del controllo;
- Ridotto interesse per gli altri;
- Auto-colpevolizzazione;
- Hopelessness;
Proprio quella discontinuità tra intenzioni e azioni segnala che ogni scelta è “scelta due volte”.
In ogni processo decisionale si nascondono due distinti lucchetti da aprire in sequenza: il primo è
quello del decidersi a prendere una decisione, non importa quale; il secondo è quello della selezione
di una scelta specifica. È questo doppio livello del processo decisionale il congegno entro cui può
andar perso l’ancoraggio dell’azione alle intenzioni. Negli snodi cruciali del corso di una vita capita
spesso di non riuscire a prendere la decisione preliminare. I desideri restano sconnessi dalle scelte
perché viene a mancare la forza effettuale di trasformare le intenzioni in azioni.
3. Strategie diversive: rimozione e cut-off
L’arte della battaglia non prevede solo strategie frontali ma prevede anche strategie mirate non
direttamente a prevalere nello scontro ma a modificare il teatro dell’azione: strategie mirate non al
cuore del nemico ma al suo intorno. Anche le strategie diversive possono puntare a scavalcare
l’ostacolo sia pur non frontalmente. Strategie all’intorno come la presa di distanza, l’enfatizz