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ANTONIO MUNOZ E VIA DEI FORI IMPERIALI A ROMA
L’attuale via dell’Impero fu ideata da Baccelli nel 1887. Quindi la nuova Roma del Ventennio fascista era già stata
annunciata molto tempo prima, quando, a partire dall’unità d’Italia, si manifestò la necessità di costruire una capitale che
non esisteva, e la sua identità si giocò tra recupero del passato e ambizioni di modernità, tra suggestioni della storia e
necessità di trasformazione. Braccio esecutore della Roma di Mussolini e vero deus ex machina della grande
trasformazione archeologicamonumentale di Roma moderna, Antonio Munoz (Roma 18841960) è sicuramente una delle
personalità più determinanti ma anche storicamente meno conosciute del Ventennio fascista. Direttore della Ripartizione
Antichità e Belle Arti del Governatorato capitolino, è stato spesso descritto come il principale responsabile del “disastro”
e delle “offese” subite dal centro archeologico di Roma. Egli è ricordato come storico, poeta, pittore e artista, restauratore,
archeologo, urbanista, alto funzionario statale, docente e, molto spesso, genericamente come architetto. Letterato di
formazione, in realtà Munoz fu un dilettante sia dell’architettura che dell’archeologia. Egli fu autore di quasi seicento
pubblicazioni ma non conobbe mai però il favore di gran parte degli esponenti della cultura più illuminata a lui
contemporanea. Infatti architetti e archeologi impegnati nel campo del restauro, tra cui anche Giacomo Boni, non
riconobbero le sue competenze in materia di architettura e archeologia. Dopo aver rinunciato alla carriera di docente
universitario e di storico dell’arte, Munoz dirottò le proprie aspirazioni verso l’impegno nella pubblica amministrazione:
proprio negli anni in cui il sistema delle Soprintendenze veniva istituito (19021907), entrò a far parte dell’organico della
Soprintendenza ai monumenti di Roma (1909). Assume poi l’incarico definitivo di direttore nel 1921. Pochi anni dopo,
istituito il Governatorato di Roma, egli arriverà all’apice del successo professionale per volontà politica del governatore
Francesco Boncompagni Ludovisi seconda carica istituzionale dello stato, che con una chiamata ad personam lo nomina
direttore della Ripartizione X. La più radicale trasformazione archeologica e monumentale che Roma abbia mai
conosciuto fu, quindi, nelle mani di un uomo che sulla carta non possedeva né le capacità tecniche né quelle scientifiche e
culturali per affrontare un simile compito. Al direttore dell’Ufficio di Antichità e Belle Arti del Governatorato si
richiedeva efficienza organizzativa e capacità di elaborare in modo rapido e disinvolto idee e progetti, molti dei quali, tra
l’altro, erano già stati proposti nel cinquantennio precedente. Munoz fu effettivamente capace di lavorare a tutto campo
come “architetto”, “archeologo” e “urbanista”, riuscendo a immaginare e a costruire quel pezzo di città, contaminato da
passato e modernità, da estetica e scienza che fu la via dell’Impero, prodotto di una commistione disciplinare – storia,
restauro dell’antico, architettura moderna ed estetica urbana – perfettamente coerente sia con il contesto culturale del
tempo che con le logiche specifiche dell’ideologia fascista. La necessità di collegare il quadrante sud di Roma con le
direttrici a nord, passando per il centro, era un’esigenza avvertita da molto tempo. Tuttavia il sistema geomorfologico
determinato dalla collina della Velia (la sella che univa il Colle Oppio al Palatino separando la valle dei Fori dalla
depressione dove sorgeva l’anfiteatro Flavio) e il fittissimo quartiere dei Pantani, insediatosi sull’area dei Fori Imperiali,
ne erano di fatto un evidente impedimento. Soltanto con l’inaugurazione del monumento a Vittorio Emanuele, il
programma si impose come un obiettivo non più differibile: nel 1911 l’attenzione si spostò su Piazza Venezia e, con nuova
evidenza, si ripropose la questione del collegamento stradale con il Colosseo. Il nuovo tracciato rimaneva fortemente
indeterminato: non a caso, la letteratura del dopoguerra ha parlato di “abusivismo” dello stradone, visto che il piano del
1931, entrato in vigore solo 7 mesi prima dell’inaugurazione di Via dell’Impero, e i due piani esecutivi per la zona
dell’anno successivo avevano previsto una strada molto diversa da quella poi effettivamente realizzata, tirata dritta dal
Colosseo al balcone di Palazzo Venezia. Questa soluzione fu la più distruttiva tra tutte quelle fino ad allora immaginate
perché comportava la demolizione completa della Velia e fu decisa da Mussolini in persona. La necessità strettamente
pragmatica di un collegamento tra Palazzo Venezia e il Colosseo si trasformò in un’occasione propizia per costruire un
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nuovo paesaggio archeologicomonumentale. Il piano del 1873 prevedeva una strada da Piazza Venezia fino a via Cavour
da prolungare in direzione del Tevere con un ponte in ferro per l’attraversamento trasversale del Foro Romano; tutti i piani
successivi, invece, stabilirono il proseguimento della strada fino al Colosseo, secondo andamenti leggermente differenti.
Quello che sembra accomunare tutte le previsioni urbanistiche è l’indicazione di demolizioni sempre limitate ai soli isolati
interessati dalla costruzione della strada, e la previsione di ricostruzione di fronti compatti lungo la stessa. Soltanto negli
anni ’20 con la Variante Generale al piano regolatore del 1909, venne meno questo tipo di previsione e, per la prima volta,
la realizzazione della strada moderna fu considerata anche in relazione alla possibilità di liberare i Fori Imperiali. Il
cambiamento di prospettiva è radicale: un sistema di pensiero nuovo stava determinando i presupposti culturali grazie ai
quali la via, al di là del reale andamento che avrebbe assunto, si sarebbe potuto immaginare come una grande via
monumentale. Proprio negli anni immediatamente precedenti era stato elaborato il progetto di Corrado Ricci per la
liberazione dei Fori Imperiali. Le esplorazioni del Foro Romano di fine secolo e soprattutto le mastodontiche ricerche
topografiche condotte da Rodolfo Lanciani, avevano determinato una conoscenza archeologica dei luoghi più aggiornata.
Il progetto di Ricci, inattuabile per mancanza di condizioni economiche e forse rimandato anche in seguito agli eventi
bellici, si inseriva a pieno titolo in questo nuovo clima culturale, influenzando con decisione i programmi futuri, il modo
di immaginare la sistemazione dell’intera area e di porsi nei confronti dei resti archeologici. Si trattava del primo vero
progetto di rovina ai Fori Imperiali – la prima rovina progettata , un articolato sistema destinato a diventare una delle più
suggestive quinte di via dell’Impero anche se, quando questa fu immaginata da Ricci e disegnata da Lodovico Pogliaghi
nel 1911, la strada non esisteva e non era stata ancora nemmeno concepita, perlomeno nelle forme che oggi conosciamo. È
evidente che si trattò soprattutto di un’operazione monumentale, di chiara intenzionalità estetica. Con questo progetto si
pongono quindi le basi concrete per la costruzione dell’immagine della futura via dell’Impero secondo idee estetiche e
monumentali che, da quel momento in poi, guidarono tutte le demolizioni. I programmi per la costruzione della strada,
ritardati anche per diversi motivi di ordine pratico, si concretizzarono nell’estate del 1931, quando sotto la regia di Munoz
il piccone demolitore del regime entrò in azione. Un’intera collina su demolita e la struttura geomorfologica della valle dei
fori perse il suo originario orientamento spaziale per acquistarne uno radicalmente opposto. Il Colosseo venne a trovarsi in
un continuum spaziale, perdendo definitivamente quella dimensione monumentale che era determinata dalla sua
originaria posizione al centro della depressione del lago di Nerone. È in questa circostanza che si sperimenta in modo
diffuso una vera e propria riprogettazione dell’antico, attraverso un processo di “attualizzazione” e un rimaneggiamento
consistente e consapevole dei resti fisici del passato, secondo principi di liberazione, selezione e ricostruzione che in
quegli anni, benché già ampiamente sperimentati nei decenni precedenti, assunsero un rilievo fondamentale a servizio
della politica nazionale e una funzione coerente con quella che al tempo era la concezione di città. È in questo momento
che il rudere si fa rovina e diventa quindi architettura per la città moderna. Il valore “creativo” che caratterizzò la
liberazione e ricostruzione fu in realtà ben lontano da un restauro del monumento singolo “dov’era e com’era” e da un
recupero ambientale del sistema originario. La via dell’Impero rappresenta un’immagine opposta a quella che
presumibilmente quell’ambiente esprimeva in origine. I monumenti, anche di epoche diverse, vennero isolati, messi in
rapporto diretto, simultaneo, del tutto astratto e, soprattutto, mai esistito prima. Le forme create dal Governatorato
capitolino sono un’immagine orinale della Roma antica, filtrata attraverso lo schermo interpretativo di quell’epoca. Il
progetto realizzato riuscì a risarcire e ricucire l’ambiente eterogeneo che faceva rabbrividire i contemporanei che
osservavano quel luogo: i muri di contenimento, gli arredi e le scale, attraverso l’uso costante del mattone e del travertino,
determinarono un sistema ordinato che prepara e assorbe al proprio interno i grandi eventi monumentali. Là dove le
preesistenze non offrivano la possibilità di completare la quinte stradali, furono introdotte le piantumazioni arboree che
rafforzavano anche la direzione dell’asse monumentale; le aiuole laterali furono invece concepite come luoghi pedonali e
di sosta appartati al traffico veicolare che la strada doveva accogliere. Infine, tutte le rovine emergenti vennero riabilitate a
nuova vita. I resti dell’antico Impero vennero riprogettati rispetto ad un nuovo punto di vista, prima inesistente: quello
della strada. Nel Novembre del 1931 è proprio Munoz ad incoraggiare i lavori della Basilica di Massenzio per provvedere
alla riparazione di danni e lesioni che si manifestarono in seguito alla demolizione della Velia. La necessità di un controllo
estetico fu ribadita più volte in corso d’opera. I lavori nella Basilica di Massenzio furono completati in soli cinquanta
giorni: con esecuzione immediata, furono conclusi gli espropri nel terreno di proprietà del Pio Istituto Rivaldi, si
affrontarono i delicati problemi statici e si aprirono gli arconi tamponati nei secoli precedenti. Infine fu realizzato il
completamento volumetrico e il tipico muro di sostruzione in selce e scaglie di marmo che