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Celati - 2015.
Lo scrittore Melville ci presenta la figura di uno scrivano, frutto della sua fantasia, che
lascia letteralmente sbalordito il lettore, costretto a immedesimarsi in un uomo inesistente.
La vicenda va letta e interpretata alla luce del contesto storico, del tracollo finanziario della
famiglia dell’autore: la sua vita, costellata da diverse esperienze negative, lo fa vivere in un mare
ora di calma piatta, ora in burrasca. L’intrigo della vicenda dello scrivano dà luogo a un gran
numero di ipotesi critiche: invano si tenta di ripercorrere il passato di questo misterioso
personaggio per trovare analogie con esseri simili a lui, pertanto la trama avvince il lettore fin dalle
prime battute.
Il mistero della vita di Bartleby si estrinseca con mille sfaccettature, simile ad un labirinto nel
quale si entra senza però possedere il filo di Arianna e ciò costringe lo sprovveduto lettore ad
attingere a tutte le sue potenzialità intellettuali per dipanare una matassa intrisa di situazioni
fantastiche, surreali e incomprensibili che lo lasciano incredulo, stupito e impotente a darsi la ben
che minima risposta.
L’abilità della narrazione dell’avvocato suscita sentimenti di commiserazione verso il povero
Bartleby, ma il lettore è all’oscuro di quali potenzialità si celino nell’animo dello scrivano, simbolo
di emarginazione, di un uomo escluso dalla società, alla stregua di un alieno. L’avvocato,
nonostante sia onnisciente, è incapace di tradurre in parole tutto ciò che si dibatte nella sua mente:
in lui convivono due sentimenti: in certi casi l’odio, in altri una sorta di compassione amorevole.
L’umiltà dell’autore si fonde con l’ambiguità; non è in grado di fornirci notizie soddisfacenti sulla
vita dello scrivano: tale ambiguità induce il lettore a parteggiare ora per l’autore, ora per Bartleby.
L’arrivo di Bartleby è preceduto da tre personaggi, i cui nomi fanno riferimento alla loro
connotazione fisica e ai rispettivi caratteri: essi abbandonano l’anonimato delle loro mansioni
quando subentra una figura misteriosa, ma nel contempo affascinante, Bartleby. Egli mette
decisamente in crisi il suo datore di lavoro con la sua celeberrima frase: “Preferirei di no”.
Sembra quasi che la posizione dei due protagonisti venga ribaltata da questa espressione,
paragonabile ad una litania. L’avvocato subisce talmente il fascino di Bartleby che gli consente
una forma di ribellione ai suoi desideri; talora tenta di assecondarlo, talora mostra la sua fredda
autorevolezza. In Bartleby la legge si cristallizza in un sistema coerente e chiuso: la risolutezza
della norma giuridica e della figura dell’avvocato contrasta con l’indecisione permanente insita
nella frase: “Preferirei di no”.
A questo punto è inevitabile chiedersi le motivazioni per cui solitamente le leggi ricorrono
alla presenza dei soggetti letterari. Se le norme giuridiche sono rivestite da un’assoluta onnipotenza
e autorità, con quale obiettivo si riferiscono al soggetto e dialogano con esso? Nella storia di
Melville, ogni volta che l’avvocato desidera dare un ordine a Bartleby, deve chiamarlo, farlo
comparire sulla scena. La legge cerca di stabilire una mediazione con il soggetto e l’unico modo
che ha a disposizione è quello di sciogliersi dalla sua forma pura e univoca per interagire con un
soggetto meta-letterario. Essa pertanto deve trasformarsi in linguaggio al fine di venir assimilato e
compreso dai soggetti; il linguaggio è una maniera di deformare e ridurre la forza intollerabile
della legge.
Il linguaggio giuridico è indubbiamente la forma più chiusa di tutti i linguaggi e comporta
l’incapacità dell’avvocato di svelare i misteri ultimi dell’essere umano, ovvero di decifrare la vera
identità di Bartleby. Pertanto lo scrivano distrugge ogni possibilità di comunicazione, la stessa
esistenza del Soggetto. La negazione di questa sua soggettività mette in luce il suo carattere
profondamente nichilistico, una “vita senza vita”, un modo di preferire la morte dichiarando prima
di tutto che lui stesso è vivo.
Una differenza eclatante tra la letteratura e la legge è ravvisabile nel loro intento
rappresentativo: la prima infatti è liberante, ovvero spalanca alla mente umana diversi orizzonti e
infinite possibilità interpretative, mentre la seconda è vincolante e univoca e proietta sui lettori una
sola possibilità di indagine.
Un aspetto molto rilevante nei racconti a sfondo giuridico è la presenza o meno di una
comunità condivisa. In Bartleby vi è la completa negazione di questa comunità: non a caso lo
scrivano si estranea dalla società. Anche gli aspetti sensazionalistici e spettacolari della giustizia
non sono presenti nel racconto; le scelte narrative di Melville infatti mirano alla semplicità del
linguaggio per un’immediata comprensibilità e comunicabilità con i lettori. Manca anche nel
racconto di Melville la circolarità; infatti la stessa storia non viene raccontata da voci diverse, ma
soltanto dall’avvocato, l’unico vero protagonista della narrazione, oltre allo scrivano.
L’allegoria del racconto va ricercata nel contesto storico che egli tenta di fronteggiare, da cui
esce succube e sconfitto. Il comportamento dell’avvocato è emblematico: se da un lato è portavoce
di una società capitalistica, d’altro canto è dipinto in modo caricaturale, combattuto tra l’estraneità
dello scrivano e la sua posizione sociale. Il contesto della vicenda è imperniato sulla figura
dell’avvocato stesso ed è inscrivibile nella tipologia delle figure di uomini di legge: la voce
narrante ammette esplicitamente fin dall’inizio di non saper raccontare questa storia, a causa della
scarsità dei riferimenti biografici dello scrivano; perciò emerge la sua impotenza di fronte alle
dinamiche narrative.
Il contesto del capitalismo finanziario cambia completamente la vita degli uomini: essi sono
invogliati ad essere produttivi, mentre Bartleby è un essere improduttivo, non tanto per una presa
di posizione contro il capitalismo, quanto per il suo modo di porsi nei confronti della società del
suo tempo, nella quale gli uomini erano “simili ad api operaie”.
Sommerso da una marea di informazioni dei mass-media, l’uomo ha perso la sua umanità: è
incapace di commuoversi, di piangere, di gioire e di provare emozioni profonde. La vita dell’uomo,
totalmente cambiata, ci ha reso tutti uguali: l’unico valore che non muore è il denaro; l’uomo vive
per il successo, anche prevaricando chi corre con lui. La globalizzazione, la politica e la produzione
hanno generato nell’uomo effetti negativi perché egli non sa più chi è, dove va e che cosa desidera.
L’avvocato rappresenta il cittadino che vive in una società condivisa, mentre lo scrivano è
l’emblema di una persona egoista, immutabile nelle sue convinzioni: sono due mondi contrapposti.
Bartleby è la fotografia di una società civile disintegrata: i politici non sono fedeli ai loro ideali, ma
cavalcano ora un’ideologia, ora un’altra. Il povero Bartleby, come cita Eugenio Scalfari: “vive in
una foresta di contraddizioni”, nella quale regnano la debolezza e insieme la forza della modernità,
l’imprevisto carico di paure e di nuove avventure, priva però di valori; viene catapultato nella crisi
del nostro secolo, interessato all’auto-conservazione.
Nell’Inghilterra di metà Ottocento il capitalismo storico era al servizio dell’uomo e
rispondeva alle sue necessità; nel nuovo millennio l’uomo è invece al servizio del profitto: esso lo
ha privato della sua soggettività e l’ha reso un malato cronico. L’atteggiamento di Bartleby è simile
a quello di un robot, privo di un proprio potere decisionale; l’unica sua certezza è il suo esistere,
solo, ma libero dai condizionamenti della società. La sua reiterata frase “Preferirei di no” come
sostiene Igor Patruno “non è politica figlia delle ideologie, non è anti-politica, non è non-
politica” : egli è un essere unico nel suo genere.
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La scrittrice Edith de la Héronnière, nel libro “Ma il mare dice no”, spiega il comportamento
di Bartleby: egli crea intorno a sé un muro che lo esclude da tutti gli elementi positivi e negativi
della realtà; vive da recluso, indifferente e insensibile alle dinamiche che ruotano intorno a lui e ciò
gli impedisce di godere dei piccoli piaceri della vita. La scrittrice libera lo scrivano dalla fitta
ragnatela che lo avvolge, scatenando così una miriade di ipotesi sulla figura misteriosa di questo
personaggio.
Bartleby si colloca quindi come una figura fuori dal tempo, un eremita senza età, immerso
nel suo misterioso silenzio, combattuto tra il fare e il non fare, perennemente in bilico tra intelletto
e cuore: il primo lo vorrebbe tenere incatenato alle sue convinzioni, il secondo vorrebbe
spalancarlo alla vita. La sua “nolontà”, il suo silenzio e il suo rifiuto di lavorare getta i suoi simili
in un perenne stato di agitazione e suscita in loro reazioni diverse: il desiderio di uccidere, un senso
di tenerezza e il rimorso accompagnato dalla compassione. È un piccolo uomo rivestito di umanità
e animalità; imprigionato nelle sue convinzioni, non riesce a scovarne le radici e perciò non le può
sradicare: nella serie dei numeri egli rappresenta lo 0. La sua vita è una “non vita” e risulta
impossibile collocarlo in una categoria sociale perché il suo agire è strettamente personale.
L’avvocato è sì un uomo di legge, ma nella sua strategia narrativa assume le sembianze di un
mediatore, impossibilitato a districarsi tra le maglie dello scrivano e quelle del lettore. Grazie al
linguaggio l’avvocato riesce ad affermare il suo carisma e incarna la figura di un narratore meta-
linguistico. Bartleby è talmente radicato nelle sue ideologie nei confronti delle quali l’avvocato si
sente impotente ed entrambi da questa ipotetica lotta escono sconfitti; pertanto inutile è il tentativo
dell’avvocato di riportare Bartleby alla normalità e altrettanto inutile l’impresa dello scrivano di
voler trasformare l’avvocato.
Nel racconto convivono l’ironia comica e l’ironia tragica. Il registro comico incarna la
tendenza del lettore a simpatizzare con la vittima. L’ironia tragica è simboleggiata dalla morte di
Bartleby, capro espiatorio di una società colpevolizzante. L’analisi dell’ambie