Riassunto esame Psicologia Dinamica, prof. Nespoli, libro consigliato Modelli Evolutivi in Psicologia Dinamica II, Quaglia, Longobardi
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3. individuazione di atteggiamenti manifesti del soggetto verso l’attaccamento ed
attribuzione ad una categoria. Per esempio, viene associato alla categoria sicura-
autonoma chi riconosca l’influenza delle sue esperienze di attaccamento e di aver
bisogno degli altri, abbia senso dell’umorismo ed equilibrio, sia in grado di
convivere con i suoi difetti, dimostri di aver accettato quelli genitoriali e sia
consapevole dei propri errori. Invece, alla categoria distanziante viene assegnato un
individuo che abbia un forte senso di indipendenza e mostri un’identificazione con i
lati negativi dei genitori, mentre in quella preoccupata rientra chi esprima
atteggiamenti di chiusura o distacco circa i temi trattati o si connoti come
ambivalente nella valutazione dei genitori.
L’AAI permette, effettivamente, di prevedere, sulla base della classificazione dell’adulto come
sicuro autonomo, distanziante, preoccupato od irrisolto disorganizzato, quello che sarà il risultato
del figlio alla SSP. Ultimamente, tale strumento è stato utilizzato in ambito clinico ed esso permette
10 diverse applicazioni:
1. stabilire come i problemi attuali siano sostenuti da pensieri e sentimenti legati ad esperienze
infantili;
2. migliorare l’alleanza terapeutica e la risposta del paziente, a cui può servire essere ascoltato
per coinvolgersi di più;
3. far emergere traumi importanti al fine di migliorare la comprensione del paziente circa i suoi
sentimenti e comportamenti nei confronti degli altri;
4. valutare l’uso delle difese da parte del paziente;
5. considerare quanto i pattern relazionali precoci influiscano sulla mente e sul comportamento
dell’adulto;
6. prendere decisioni importanti in casi di maltrattamenti od abusi di minore;
7. identificare “l’angelo della nursery”, ovvero una persona adulta che è stata molto positiva
nell’infanzia;
8. osservare il funzionamento riflessivo sul proprio discorso e su quello dell’altro;
9. permettere al clinico di comprendere su cosa debba lavorare affinché i suoi problemi
personali non interferiscano con il suo lavoro;
10. valutare l’esito terapeutico.
Patricia M. Crittenden: approccio dinamico-maturativo all’AAI
Alla SSP, Ainsworth ha identificato tre categorie di bambini di un anno, associandole a determinate
tipologie di figure materne:
- sicuro B madre disponibile e responsiva;
- evitante A madre non disponibile nei confronti dei comportamenti di attaccamento;
- ambivalente C madre incostante nelle sue risposte.
L’AAI, messo a punto da Main (e Goldwyn) sulla base delle configurazioni BAC, ha permesso di
estendere lo studio dell’attaccamento anche agli adulti e l’ipotesi transgenerazionale ha associato ai
tre tipi di bambini determinate categorie di figure materne:
- bambino B madre libera/autonoma F (free/autonomous);
- bambino A madre distanziante Ds (dismissing);
- bambino C madre preoccupante/invischiata E (preoccupied/entangled).
E’ quindi stato identificato, da Main e Solomon, un quarto modello comportamentale, il
disorganizzato/disorientato D.
La configurazione A ha delle sottoclassificazioni, di cui due a basso indice (A1 ed A2) e due ad
altro indice (A3 ed A4), cui si aggiungono A0, A5 ed A6:
- A0 genitori percepiti dal bambino come una minaccia che non può essere evitata;
- A1 ed A2 pericoli fisici non particolarmente gravi;
- A3 ed A4 i genitori sono esplicitamente pericolosi o non proteggono il bambino da
pericoli evidenti, il quale tende a scusarli assumendone il punto di vista, il che può
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determinare un’acquiescenza compulsiva come reazione al maltrattamento fisico (A3) od
una tendenza ad occuparsi dell’altro come risposta alla trascuratezza subita (A4);
- A5 la situazione è la stessa di A3 ed A4 ed il bambino considera la fuga l’unico modo per
sfuggire alla minaccia dei genitori. La fuga consiste in un isolamento, che blocca l’accesso
ai propri sentimenti;
- A6 si ha quando all’isolamento di A5 si associa promiscuità sessuale.
Anche la configurazione C ha delle sottoconfigurazioni a basso (C1 e C2) ed alto indice (C3-8):
- C1 e C2 dominano l’incertezza ed il disagio, che sono il massimo pericolo;
- C3-8 graduale aumento dell’ansia e delle preoccupazioni ossessive.
E’ a partire da questo contributo che si è sviluppato il pensiero di Crittenden, la quale ha proposto il
modello dinamico-maturativo per studiare le relazioni di attaccamento. Ella riteneva che la
maturazione andasse di pari passo con l’esperienza, ovvero che il mutamento neurologico di ogni
fase evolutiva fosse associato a cambiamenti paralleli degli stati mentali inerenti la qualità
dell’attaccamento. Ha affermato che i bambini, anche a fronte di un attaccamento insicuro,
disponessero di risorse per far fronte alle minacce le quali, quindi, non sono per forza in grado di
disorganizzare l’attaccamento. In questo modo, ha spostato il focus sulle interpretazioni
dell’attaccamento, elaborate a partire da informazioni processate in modo corretto o distorto: in
primo piano, ha messo non solo lo studio di come le distorsioni di elaborazione delle informazioni
siano organizzate, ma anche e soprattutto l’indagine circa l’adattamento del bambino in circostanze
a rischio. Prima di arrivare a questo punto, l’autrice aveva già proposto un modello
comportamentale, l’A/C, tipico dei bambini maltrattati e trascurati, descrivendolo come in grado di
svolgere una funzione difensiva nei confronti del bambino. Il modello dinamico-maturativo, perciò,
si concentra sullo sviluppo delle strategie utilizzate per affrontare situazioni considerate pericolose.
Un pericolo, in particolare, viene valutato secondo due dimensioni, che sono:
- cognitività vi fa affidamento in particolare il tipo A;
- affettività è la forma di valutazione a cui fa maggiormente ricorso il tipo C.
Il tipo B si avvale di informazioni di natura sia cognitiva sia affettiva nella valutazione del pericolo,
che risulta così più accurata. All’apposto, il tipo A/C (psicopatico) integra informazioni affettive e
cognitive falsificate, non vere.
Il modello di Crittenden è caratterizzato dalla presenza di diverse sottoclassificazioni ed ognuna
delle classificazioni ha in sé dei tratti adattivi ed altri non adattivi, con il risultato che diventa ostico
individuare la funzione caratteristica di ogni configurazione e che il modello risulta complesso.
L’autrice, accanto alla funzione di protezione dai pericoli, ha aggiunto al suo modello anche quella
di riproduzione, in grado, come l’altra, di organizzare il comportamento. La riproduzione fa la sua
comparsa solo dopo la pubertà, per cui è soltanto a partire da quel momento che sono possibili
distorsioni inerenti la sessualità.
Pur avendo mantenuto le configurazioni di Ainsworth, Crittenden ha cambiato il nome del tipo B in
“equilibrato”, per far riferimento all’equilibrio di cognitività ed affettività che lo caratterizza.
La configurazione B (equilibrato) comprende:
- B1 e B2 (tipo riservato) maggior ricorso alle informazioni cognitive;
- B4 e B5 (tipo reattivo) maggior ricorso alle informazioni affettive
- B3 integrazione dei due tipi di informazioni con conseguente agio psichico.
La configurazione A (distanziante) comprende:
- A0 (isolato) disprezzo dei genitori;
- A1 (disponibilità sociale) ed A2 (inibizione) idealizzazione dei genitori;
- A3 (accudimento compulsivo), A4 (acquiescenza compulsiva) ed A5 (autosufficienza), A6
(promiscuità sessuale) sottoclassificazioni aggiunte da Crittenden.
La configurazione C (preoccupato) comprende:
- C1 collera minacciosa;
- C2 paura e desiderio di conforto;
- C3 aggressività; 46
- C4 finta impotenza;
- C5 ossessione per la vendetta;
- C6 seduttività;
- C7 e C8 tendenze paranoiche.
Infine, tutte le sottoconfigurazioni di A e C possono essere tra loro combinate, formando
sottoconfigurazioni di tipo. Se queste sottoconfigurazioni si integrano in una AC, con falsificazione
delle informazioni, allora vi è un funzionamento psicopatico.
In sintesi, le informazioni vanno incontro ad una trasformazione cognitiva, a seconda di un ordine
temporale e causale, e ad una trasformazione affettiva, cioè sulla base di un’innata capacità di
riconoscere luoghi che possono essere pericolosi: le trasformazioni cognitive, quindi, riguardano il
“quando”, quelle affettive il “luogo”. Le trasformazioni affettive sono percepite come ansia, che si
differenzia in collera, paura e desiderio di conforto ed a cui, dopo la pubertà, può associarsi il
desiderio sessuale. Cognitività ed affettività, insieme, danno informazioni circa dove e quando si sia
a rischio di incontrare un pericolo, oltre che su dove e quando si possa avere un contatto sessuale.
Peter Fonagy: la teoria della mentalizzazione
La teoria dell’attaccamento, pur essendo nata in ambito psicoanalitico, è diventata un’area di
indagine autonoma e Bowlby è sicuramente l’autore che maggiormente si è allontanato da Freud.
Altri, invece, sono rimasti legati a posizioni più tradizionali e si son focalizzati sulla relazione
madre-bambino, con una particolare attenzione dedicata alla caratteristiche della prima: è questo il
caso di Winnicott ed Erikson. Fonagy si è posto l’obiettivo di identificare i punti comuni tra tali
diversi approcci teorici, al fine di trovare un’area di incontro tra attaccamento e Psicoanalisi. Era
convinto che i contributi sia di Freud che di Bowlby avessero stessa origine, ovvero lo studio delle
conseguenze della deprivazione precoce: il trauma infantile che porta psicopatologia e la perdita
dell’oggetto che determina angoscia. In particolare, l’autore ha evidenziato quattro punti di
sovrapposizione, che sono i seguenti:
- la discrepanza tra mondo interiore e realtà esterna, attribuibile ai meccanismi interni, alla
percezione ed all’esperienza sociale;
- l’importanza attribuita ai primi anni di vita;
- il ruolo importante dato alla sensibilità della madre ed alla sua funzione di rispecchiamento,
in riferimento alla qualità delle relazioni d’oggetto ed allo sviluppo psichico del bambino;
- l’assunto della motivazione a stabilire relazioni.
La mentalizzazione o funzione difensiva
Secondo Fonagy, gli IWM di Bowlby rappresentano una descrizione pratica del mondo interno
psicoanalitico e rimandano anche agli “schemi dell’essere con” di Stern, che deriverebbero da
interazioni ripetute ad accomunate da specifiche costanti e da cui si originerebbero gli IWM stessi.
Fonagy ha anche studiato il concetto di mentalizzazione o funzione riflessiva, considerandolo
rilevante sia nella teoria dell’attaccamento che nelle teorie psicoanalitiche. La mentalizzazione è
una funzione simbolica che permette al bambino di capire la mente dell’altro e prevederne il
comportamento; allo stesso tempo, il piccolo è anche in grado di attribuire significato alla propria
esperienza, perché si tratta di una capacità associata all’interpretazione del comportamento altrui.
La mentalizzazione, quindi, ha a che fare con delle relazioni mentali reciproche, attraverso le quali
madre e figlio avvertono il modo in cui si percepiscono a vicenda.
Relativamente all’attaccamento, per Fonagy è più probabile che sia sicuro quando la madre è
efficace nel contenimento e rispecchiamento dello stato affettivo del figlio: quest’ultima funzione è
importante affinché il piccolo veda alleviato il suo disagio e, soprattutto, sappia riconoscere e dare
un significato ai suoi stessi vissuti affettivi. Un attaccamento insicuro, invece, si instaura quando il
piccolo non ha accesso ad una rappresentazione del suo stato mentale ed in particolare:
- attaccamento insicuro-evitante il genitore non è in grado di accogliere l’angoscia del
piccolo e se ne distanzia, col risultato che il bambino finisce per identificarsi con il suo
atteggiamento e le sue difese; 47
- attaccamento insicuro-ambivalente la madre è preoccupata per lo stato affettivo del figlio
e lo rispecchia in modo inadeguato, o amplificandolo o minimizzandolo in modo eccessivo.
Il bambino, di conseguenza, resta sopraffatto dal suo stesso vissuto e si difende riducendo
gli scambi intersoggettivi;
- attaccamento insicuro-disorganizzato il bambino è ipervigile nei confronti del genitore, ai
cui stati mentali diventa molto sensibile, mentre i suoi restano privi di regolazione e di
coerenza.
Secondo Fonagy, la funzione riflessiva correla con la sicurezza dell’attaccamento, perché la
possibilità di conoscere la mente dell’altro fa sì che il bambino diventi in grado di rilevare ed
organizzare le invarianti di stati mentali frequenti in IWM inerenti le relazioni con l’altro: la
sicurezza ha a che fare con la capacità di conoscere lo stato mentale materno. L’autore, inoltre, ha
considerato la mentalizzazione un processo che resta uguale tanto nelle teorie psicoanalitiche
quanto in quella dell’attaccamento e l’ha messo in relazione con:
- il Bindung di Freud, ovvero il passaggio da un legame fisico ad uno psicologico;
- la capacità di riconoscere gli stati mentali altrui nella posizione depressiva di Klein;
- l’emergere del vero Sé come conseguenza della comprensione del bambino da parte della
madre, in Winnicott.
La funzione interpretativa interpersonale
La capacità di mentalizzazione sembra essere sviluppata nelle prime relazioni di attaccamento, ma
la sua comparsa è ostacolata da un attaccamento disturbato. Fonagy ha definito la mentalizzazione
una forma di attività mentale immaginativa e vi ha incluso anche aspetti relazionali e di regolazione
affettiva, distinguendola dalla ToM, la quale ha a che fare principalmente con la comprensione e la
rappresentazione dello stato mentale ed emotivo altrui, particolarmente in relazione alle FC. La
mentalizzazione, invece, fa riferimento all’interpretazione del comportamento sulla base di stati
mentali intenzionali, che permette anche la comprensione del Sé come agente mentale, ovvero di
possedere in prima persona una mente. La mentalizzazione permette di distinguere gli eventi interni
da quelli interpersonali e:
- si sviluppa nelle interazioni con menti adulte e riflessive;
- implica una componente interpersonale ed una autoriflessiva;
- si serve di una serie di abilità cognitive.
La mentalizzazione si differenzia anche dall’IWM, dal momento che, secondo Fonagy, la relazione
di attaccamento dell’essere umano non ha solo la funzione di soddisfare il bisogno di protezione
ma, al contrario, permette al cervello di svilupparsi in modo tale da rendere l’individuo idoneo ad
una vita collaborativa ed operativa: in breve, nell’essere umano, l’attaccamento agevola
l’intelligenza sociale e la creazione di un ambiente utile per la costruzione della conoscenza,
andando così ad influire sull’architettura stessa del cervello, che viene modificata dalle influenze
ambientali. La mentalizzazione, in quest’accezione, è la massima conquista intellettiva e circa la sua
emergenza nell’essere umano Fonagy non ha accettato un’ipotesi riduttiva che consideri solo le
sfide proposte dal contesto fisico, ma si è rifatto al pensiero del biologo Alexander. Questo ultimo
ha ipotizzato che il cervello umano si sia ingrandito ed evoluto al fine di preparare alla
competizione con i cospecifici; l’essere umano, quindi, non ha iniziato a cooperare con i simili per
garantirsi la sopravvivenza, perché è diventato egli stesso la sua massima minaccia: all’opposto, si è
dato alla cooperazione solo al fine di competere meglio con gli altri. Ad oggi, un tal pensiero non
viene più considerato accreditabile da un punto di vista scientifico e, secondo il biologo e
matematico Nowak, l’evoluzione umana è da attribuire all’altruismo, così come la collaborazione.
Per Fonagy, la competizione necessita di alcune abilità, in particolare in termini di comprensione
delle intenzioni altrui; tale capacità sarebbe emersa già nell’homo erectus come possibilità di
comprendere il comportamento dell’altro, che così è stato riconosciuto come dotato di credenze e
desideri: dal punto di vista della mentalizzazione, questa capacità è la funzione interpretativa
interpersonale, ovvero un insieme di funzioni che permettono di interpretare esperienze personali
nuove (e qui sta la differenza con gli IWM di Bowlby e gli schemi di “essere con” di Stern). In
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quanto “insieme di funzioni”, la funzione interpretativa interpersonale comprende anche la
mentalizzazione e tutti gli altri processi che vi si associano. Secondo l’autore, si tratta di funzioni
non legate all’attività di un’unica area cerebrale ma che, invece, ne coinvolgono diverse, deputate
alla percezione di stimoli sociali, alla regolazione affettiva ed all’elaborazione cognitiva: queste
regioni cerebrali sono tra loro in interazione e permettono un’integrazione delle componenti
cognitiva ed affettiva ed un’attribuzione di significato emotivo agli stimoli sociali. Nonostante la
mentalizzazione sia volta alla comprensione della mente delle persone con cui si compete, essa è
anche utile per la collaborazione e la creazione di relazioni positive ed è legata alla qualità del
legame di attaccamento perché “capire le menti è difficile per chi non abbia avuto l’esperienza di
essere capito da una persona con una mente”. Un attaccamento sicuro, quindi, permette un Sé
agente stabile ed è reso possibile da una buona capacità di mentalizzazione del genitore, che a sua
volte consente lo sviluppo della mentalizzazione del figlio. I bambini di tipo B, infatti, non sono
chiamati ad attivare il sistema dell’attaccamento di frequente, poiché vanno incontro a poche
minacce: questo fa sì che possano utilizzare la mentalizzazione in modo adeguato nella loro
relazione con il caregiver.
Concetti affini
Jon Allen ha cercato di individuare l’area entro cui si muove la mentalizzazione, che comprende
stati mentali propri ed altrui e le operazioni cognitive che ad essi si rivolgono. Ha definito questa
funzione un “percepire in modo immaginativo e interpretare il comportamento come connesso con
stati mentali intenzionali”, associandola così all’azione, con l’attribuzione di stati mentali a
comportamenti propri e non. E’ possibile mentalizzare in due modi:
- esplicito pensare e parlare degli stati mentali intenzionalmente e consapevolmente, con
processi razionali;
- implicito pensare e parlare degli stati mentali secondo un processo automatico, non
conscio ed intuitivo.
Si mentalizzano gli altri quando si assume il loro punto di vista o se ne percepiscono i contenuti
emotivi, mentre si mentalizza se stessi quando vi è affettività mentalizzata, ovvero si rinvia ad un
senso del Sé che ha un fare caratterizzato da contenuti emotivi. Il contrario della mentalizzazione è
la cecità mentale o mind-blindness, considerata tipica dell’autismo. L’empatia è, invece, uno degli
aspetti più rilevanti della mentalizzazione e corrisponde alla consapevolezza degli stati mentali
altrui: si differenzia dalla mentalizzazione perché non si rivolge al Sé ma solo all’altro; sono
importanti, per l’empatia, i neuroni a specchio, che creano rappresentazioni interne degli stati
percepiti a partire dall’osservazione dei movimenti. Il precursore dell’empatia è il contagio emotivo,
consistente in una situazione in cui non vi è più una differenziazione tra il Sé e l’altro,
contrariamente a quanto accada nell’empatia, che implica, invece, tal differenziazione. Attualmente,
le emozioni non vengono più considerate ostacoli, bensì alleati della ragione, in particolare con
l’affermazione del costrutto di intelligenza emotiva, che comprende varie capacità:
- avvertire e manifestare le emozioni;
- utilizzare le emozioni ponendole al servizio del pensiero;
- comprendere e valutare sia le emozioni sia i loro cambiamenti;
- regolare le emozioni e la loro espressione in modo idoneo, pure in termini comportamentali.
La capacità mentale psicologica o psychological mindedness è la capacità di mentalizzare in modo
esplicito sia rispetto al Sé che rispetto all’altro e consiste nel riflettere sul significato di stati mentali
e comportamenti; l’insight è il risultato di tale capacità. La pienezza della consapevolezza mentale o
mindfulness è al limite con la mentalizzazione ma attribuisce più importanza alla consapevolezza
degli stati mentali: consiste in un’attenzione estrema focalizzata sulla propria esperienza e,
diversamente dalla mentalizzazione, si focalizza solo sul presente del qui ed ora, mentre
quest’ultima ha a che vedere, anche, con il passato ed il futuro; la mindfulness offre il vantaggio di
agire di fronte alla vita anziché reagirvi. Secondo Fonagy, la mentalizzazione è un’abilità dinamica
e se la sua mancanza è la mind-blindness, i suoi fallimenti producono distorsioni circa la
conoscenza degli stati mentali e son dovuti ad esperienze infantili negative. 49
Le radici della mentalizzazione
Il bambino nasce con una funzione riflessiva, che è una predisposizione innata a comprendere gli
stati mentali ed a rispondere al loro comportamento. Dall’attribuzione di stati mentali all’altro,
emerge lo stato del Sé, il che equivale a dire che il piccolo può attribuire un significato alle proprie
esperienze per mezzo della percezione dello stato mentale altrui. Fonagy ha collocato lo sviluppo
della funzione riflessiva a partire dall’iniziale esperienza preriflessiva degli stati mentali all’interno
della relazione con i genitori.
In un primo momento, le esperienze corporee del bambino sono integrate e la separazione tra il Sé e
la realtà esterna ha luogo in un secondo tempo. L’acquisizione di confini da parte del Sé fisico fa sì
che le interazioni diventino sempre più importanti ed esse sono caratterizzate, fin da subito, da una
spinta all’autoregolazione ed all’interesse circa gli stati dell’altro; il Sé fisico o preriflessivo è
associato ad una rappresentazione di se stesso e del mondo che è solo corporea. Attraverso
l’interazione, il bambino riesce ad interpretare il comportamento altrui ed ha una percezione
teleologica degli scambi sociali: le interazioni costituiscono il mezzo attraverso cui interpretare il
comportamento, poiché fanno riferimento ad obiettivi specifici. La possibilità di identificare una
causalità sociale permette al bambino di interpretare il comportamento a partire dal principio
dell’azione razionale. Egli si serve di “modelli teleologici” per prevedere il comportamento
dell’altro e questi diventano “modelli mentalizzati” quando il bambino apprende a vedere le
rappresentazioni degli obiettivi come dei desideri. Questo passaggio da teleologico a mentalizzato è
associato al rapporto con la madre, che porta alla formazione di una mappatura rappresentazionale,
in cui vi sono rappresentazioni di Sé e dell’altro tra loro in relazione. La mappatura
rappresentazione è importante nello sviluppo delle capacità riflessive: per esempio, quando il
disagio manifestato dal bambino viene riflesso dalla madre, il piccolo lo riconosce nella
rappresentazione materna e ne fa una rappresentazione propria, che poi mappa tra tutte le altre
inerenti il Sé. Il rispecchiamento materno è fondamentale, poiché per il bambino è la
rappresentazione più importante della sua stessa esperienza. La rappresentazione della madre dello
stato emotivo del figlio e la di lui rappresentazione della rappresentazione materna non sono
perfettamente sovrapponibili, ma c’è un divario che è ciò che permette l’organizzazione del Sé del
bambino: un rispecchiamento troppo fedele, infatti, sarebbe tanto sbagliato quanto uno
eccessivamente diverso, poiché se questo ultimo caso causa una compromissione dell’abilità di
regolare e pensare le emozioni, il primo fa sì che non si venga a creare una rappresentazione
differenziata dei propri stati interni. E’, perciò, con contingenze elevate ma non perfette che inizia la
mappatura rappresentazionale, consistente nell’organizzazione della propria esperienza di sé con
l’identificazione di desideri e stati emotivi. Essa segue il modello teleologico che, invece, deriva
dalle rappresentazioni combinate di Sé e del caregiver (del quale consente di percepire l’affetto) e
rende possibile la modulazione emotiva.
Lo sviluppo della capacità di mentalizzare
Il processo della mappatura rappresentazionale è associato allo sviluppo della funzione riflessiva del
Sé. Il Sé nasce solo in un contesto interattivo, come risultato dell’accumulo di esperienze di sé con
l’altro. Nei primi mesi, il bambino ha soltanto sensazioni di origine corporea ed una percezione di
se stesso come agente fisico che, attraverso le sue azioni, può provocare cambiamenti nel mondo. A
queste sensazioni si associano quelle del Sé come agente sociale, il quale, attraverso la
comunicazione, ha un impatto sul comportamento del caregiver. Il primo Sé percepito, quindi, è sia
fisico sia sociale e per quel che riguarda il primo, si sa che una corretta rappresentazione primaria
del Sé corporeo dipende da una buona corrispondenza tra i bisogni del piccolo e le risposte materne.
Verso i 3 mesi, il bambino inizia a preferire le “contingenze elevate ma imperfette” e, costruendo la
mappatura rappresentazionale, può rappresentarsi i propri stati interni: è importante, a questo punto,
un buon attaccamento, che consenta la scoperta del Sé psicologico, ovvero il Sé in grado di creare
delle rappresentazioni. Questo passaggio di preferenza dalle contingenze perfette a quelle imperfette
è considerato, da Fonagy, assente nell’autismo. Tra i 6 ed i 9 mesi, il bambino si accorge del legame
tra i suoi stati e la risposta indotta nell’altro ed inizia a costruire delle relazioni causali tra le azioni;
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distingue tra corpi animati e non e tra movimento biologico e meccanico ed è capace di attenzione
congiunta e social referencing. A 9 mesi, è in grado considerare le azioni come dovute da intenzioni
e si concepisce in quanto agente teleologico, perché è dotato di un obiettivo e lo persegue operando
delle scelte tra possibilità diverse: ciò nonostante, non si contemplano ancora gli stati mentali, ma
tutte le azioni sono da intendersi come dirette ad un ambente fisico. La comprensione mentale
dell’agire ha luogo nel secondo anno, quando il bambino comincia a considerare i comportamenti
propri ed altrui come motivati da desideri e si accorge che le azioni possono avere un effetto anche
sulle menti. A 15 mesi, differenzia i risultati ottenuti per caso da quelli intenzionalmente perseguiti,
ma un traguardo importante è raggiunto a 3-4 anni e consiste nella comprensione degli stati mentali
epistemici, ovvero delle credenze: capisce, a questo punto, che sono possibili delle false credenze (il
compito di FC è superato con successo a 4 anni) e le sue interazioni sociali si arricchiscono di
sfumature.
Secondo Fonagy, lo sviluppo dell’organizzazione del Sé coinvolge tre processi interpersonali, tutti
associati all’acquisizione del concetto di falsa credenza:
- capacità di far finta intorno ai 3 anni, il bambino inizia a giocare fingendo di essere
qualcuno che non è, ovvero interpretando diversi ruoli, ed utilizza gli oggetti in modo
simbolico; il
- nuove abilità di comunicazione verbale linguaggio permette da un lato di condividere
esperienze e dall’altro di favorire lo sviluppo della mentalizzazione;
- maggiore competenza sociale le interazioni con i fratelli sembrano agevolare lo sviluppo
della ToM.
Con i coetanei, il bambino partecipa ad un dialogo tra menti, facilitato dal fatto che le sue
rappresentazioni di sé non siano né troppo simili né eccessivamente diverse da quelle che ha degli
altri. Fonagy ha affermato che, in uno sviluppo sano, il funzionamento rappresentazionale possa
aver luogo su due livelli:
- equivalenza psichica è il funzionamento mentale primitivo, caratterizzato da una non
distinzione tra reale ed immaginario, tale per cui il bambino crede che il suo mondo interno
sia del tutto sovrapponibile tanto a quello degli altri quanto alla realtà esterna. Questo lo
porta a credere che la realtà sia esattamente come la percepisce e che tutti abbiano le sue
stesse idee;
- far finta vi è una differenziazione tra esperienza interna ed esterna.
Per lo sviluppo della mentalizzazione a 4 anni, il bambino deve integrare i due livelli di cui sopra, di
modo che il mondo interno e quello esterno sian considerati, contemporaneamente, connessi e
separati.
A 6 anni, emerge un senso temporale di Sé, ovvero una sorta di estensione autobiografica del Sé,
che permette di percepire continuità e coerenza nel tempo. Quando il bambino capisce che i suoi
comportamenti e quelli degli altri derivano da emozioni, desideri e credenze, allora elabora una
ToM di secondo ordine, arrivando a comprendere che esistono delle false credenze; capisce, inoltre,
che le bugie sono un mezzo di inganno sociale e col tempo la sua aggressività fisica scema a favore
di quella relazionale.
Riepilogo e deficit della mentalizzazione
Riepilogando, nel modello psicoanalitico di Fonagy, un ruolo centrale spetta alla mentalizzazione,
nei suoi aspetti autoriflessivo ed interpersonale: è dalla combinazione di queste due dimensioni che
il bambino apprende a differenziare realtà esterna ed interna, così come gli stati emotivi interni e
quelle interpersonali. Lo sviluppo corrisponde all’organizzazione di un Sé che nasce nell’esperienza
interpersonale tra la mente del piccolo e quella dell’adulto dotata di funzione riflessiva e si evolve
come agente mentale. Alla mentalizzazione si lega il concetto di regolazione affettiva, necessaria
per valutare il senso del Sé e di agency. L’ottenimento di una buona capacità di regolazione degli
affetti, che renda possibile comprendere attraverso i sentimenti e non in modo cognitivo, è lo scopo
del trattamento terapeutico. 51
Uno sviluppo ottimale prevede che si formi un nesso tra le proprie manifestazioni emotive e quelle
che la madre emette come risposta, di modo che il bambino possa accorgersi del controllo che
esercita sulla figura materna ed inizi a percepire il suo Sé come agente regolatore. Un buon
riconoscimento dei vissuti affettivi dipende dalla capacità di rispecchiamento materna, in cui la
madre non deve trasmettere i suoi sentimenti reali, ma limitarsi a rimandare quelli del figlio: in caso
contrario, questo ultimo vivrebbe un’esperienza avvertita come pericolosa e perderebbe il controllo
sulla sua emotività. Il rispecchiamento ha anche la funzione di aiutare il bambino a comprendere
che i suoi sentimenti son separati dal mondo esterno, oltre che quella di permettergli di imparare a
gestirli. Il riconoscimento di questa separazione è resa possibile dal passaggio dall’equivalenza
psichica al far finta come modalità di mentalizzazione, ove la prima crea una sovrapposizione tra
contenuti della mente e contenuti del mondo esterno, mentre la seconda evita che i sentimenti
invadano la realtà. Il far finta, quindi, implica il rendersi conto che le rappresentazioni non
coincidono con la realtà, ma la rappresentano solo. A 4 anni circa, si ha un’integrazione tra
equivalenza psichica e far finta ed il bambino sviluppa la mentalizzazione o modalità riflessiva: è
quindi in grado di vedere gli stati interni in quanto rappresentazioni della realtà e di riconoscere
l’esistenza di un nesso tra ciò che è interno e ciò che è esterno. Questa integrazione può essere
compromessa nei bambini che abbiano subito dei traumi: mentre la mentalizzazione è associata ad
un attaccamento di tipo B, l’attaccamento insicuro deriva dall’identificazione del piccolo con
l’atteggiamento di difesa della figura materna. I deficit della mentalizzazione possono derivare dalle
seguenti situazioni:
- madre distanziante che si difende dalla sofferenza evitando di riconoscere e rispecchiare lo
stato emotivo del figlio;
- madre preoccupata che rimanda al bambino uno stato emotivo esagerato, tale per cui il
bambino non lo riconosce perché gli fa provare angoscia;
- il disagio del bambino fa sì che la madre provi dolore, che riflette insieme allo stato emotivo
del figlio, impedendogli di delimitare la sua esperienza da quella di lei e tale per cui egli
finisce per vivere l’esperienza interna come fosse esterna. Si tratta di un fenomeno simile
all’identificazione proiettiva nel disturbo borderline di personalità;
- la madre non riconosce lo stato emotivo del bambino e lo rispecchia in modo errato. Il
piccolo interiorizza lo stesso la sua risposta e la rappresentazione secondaria definisce in
modo non corretto lo stato emotivo primario. Si crea un senso di Sé falso, senza significati;
- la madre non è disponibile al contenimento, per cui il bambino non trova riflesso il proprio
stato emotivo, ma incontra quello di lei, che interiorizza come un “corpo estraneo”,
generando un Sé estraneo. Questo ultimo di per sé non è un ostacolo eccessivo per lo
sviluppo, dal momento che è presente in tutti gli individui: diventa una minaccia solo se
intervengono dei traumi, particolarmente se viene usato come difesa, ovvero per identificarsi
all’aggressore: se ciò avviene, il bambino arriva a percepirsi come cattivo o disumano.
Il Sé estraneo c’è in tutte le relazioni madre-bambino, dal momento che è impossibile una
sintonizzazione perfetta. Tuttavia, un’infanzia libera da traumi eccessivi consente un suo
riassorbimento attraverso le narrative del Sé: il soggetto, con la sua narrazione, si rappresenta in
storie dotate di un significato autobiografico; se questo non accade, il Sé estraneo resta dissociato.
Il fine ultimo della psicoterapia consiste nel coadiuvare il paziente traumatizzato a riabilitare la
mentalizzazione, così che egli possa comprendere gli stati mentali degli aggressori. La talking cure,
perciò, consiste in uno sviluppo dell’affettività mentalizzata e serve a far sì che il paziente possa
regolare ed esprimere in modo adeguato i suoi affetti.
LA TEORIA INTERSOGGETTIVA: R. D. STOLOROW, G. E. ATWOOD
La teoria intersoggettiva ha enunciato dei concetti relazionali non nuovi ma già elaborati da altri
autori, come Sullivan (prospettiva interpersonale) e Fairbairn (prospettiva relazionale). La mente è
stata collocata all’interno del contesto relazionale e non più vista come attraversata da forze interne.
Importanti contributi sono giunti da: 52
- Roy SCHAFER ha evidenziato l’avvenuta concretizzazione (oggettivazione) di elementi
metapsicologici, come quelli di struttura, forza ed energia psichica;
- Merton GILL ha descritto la Psicoanalisi classica come articolata su due livelli, in
seguito ad uno scollamento imputabile alla pretesa di renderla una scienza in un’ottica
meccanicistica tipicamente ottocentesca. Questi livelli sono:
1. livello metapsicologico serve a spiegare l’esperienza individuale;
2. livello psicologico-clinico è più concreto del primo.
Ha considerato la metapsicologia poco importante per la Psicoanalisi ed ha abbandonato il
modello pulsionale per una teoria clinica, in cui sono importanti:
a) concetti esperienziali fanno riferimento all’esperienza di paziente ed
analista nel loro incontro;
b) concetti funzionali si riferiscono ai fenomeni che non possono essere
osservati in modo diretto ma che sono utili per comprendere determinate
esperienze dell’analizzante, come la rimozione e la proiezione;
- George KLEIN ha considerato il transfert non una reiterazione ma un evento attuale, che
si crea tra analista e paziente con un contributo di entrambi. Le dinamiche transferali,
quindi, non vengono ricondotte a modelli di interazione infantili, ma associati alle
peculiarità dell’incontro analitico, al fine di farne un’interpretazione.
Anche la Psicologia del Sé di Kohut ha fornito un apporto notevole, soprattutto per il focus posto
sulla relazione tra Sé ed oggetto-Sé, che ha permesso di collocare l’inizio della vita psichica nella
prima relazione del bambino con la madre.
Le origini della fenomenologia psicoanalitica
Il background filosofico incarnato da Husserl ha avuto un ruolo fondamentale nell’ispirare Stolorow
ed Atwood, che han cercato di spiegare la produzione delle teorie psicoanalitiche alla luce di una
prospettiva fenomenologica. Per Husserl, la fenomenologia pura è la psicologia descrittiva, diversa
da quella empirica: mentre quest’ultima considera gli eventi psichici dei fatti naturali, la prima non
si occupa di fatti reali, bensì di essenze, ovvero oggetti che non dipendono dall’esperienza sensibile;
la fenomenologia pura è, perciò, una scienza dell’essenza della coscienza ed una scienza eidetica.
Al fine di comprendere come la coscienza si relazioni ed attribuisca significato ad oggetti reali o
possibili, si deve cessare di considerare reale la realtà e farsi puro spettatore, senza interesse pratico:
questo cambiamento è quello che Husserl ha definito epoché fenomenologica, ove l’epoché è la
sospensione di qualsivoglia affermazione sul mondo e sull’esistenza, che “vieta di considerare come
esistente il mondo” che si percepisce mediante i sensi (al contrario della vita pratica e delle scienze
positive). La realtà esiste ma è un fenomeno di coscienza e lo studioso non si concentra sul mondo
concreto ma sui fenomeni (ovvero sui modi con cui esso si propone alla coscienza) e sulle modalità
con cui la coscienza attribuisce significato al reale. Si ha così una scissione dell’Io in Io che
percepisce il mondo ed Io fenomenologico, che ha un “interesse puro”, libero da atti volitivi ed
emotivi.
La fenomenologia psicoanalitica si è sviluppata anche a partire dall’ermeneutica, in cui lo studioso
è direttamente coinvolto dall’oggetto di studio: la Psicoanalisi è una scienza ermeneutica, non
naturale, perché si avvale dell’interpretazione.
Atwood e Tomkins, pertanto, a partire dalla filosofia di Husserl e dall’ermeneutica, hanno
ipotizzato che la produzione di una teoria psicologica fosse influenzata dalla vita dell’autore stesso.
Questo tema è stato ampliato da Atwood e Stolorow in “Faces in a Cloud”, in cui gli autori hanno
utilizzato l’analisi psicobiografica per identificare le origini soggettive delle teorie di Freud, Jung,
Reich e Rank. La fenomenologia psicoanalitica, quindi, si fonda sul presupposto che una
comprensione della dimensione soggettiva dell’autore sia fondamentale per capirne gli ambiti di
interesse. Questo orientamento metodologico richiede di essere clinico ed interpretativo, perché la
comprensione dei soggetti ha luogo non per verifica di ipotesi ma mediante un’attività di
costruzione basata sul materiale empirico di cui si dispone. In conclusione, Atwood e Stolorow han
spiegato il proliferare di diversi modelli analitici facendo riferimento a due cause: l’affermarsi della
53
Psicologia come scienza naturale e l’esperienza soggettiva dei vari analisti; hanno affermato,
quindi, la necessità di una “teoria della soggettività”, finalizzata a spiegare i fenomeni psicologici
contenuti nelle diverse teorie. La fenomenologia psicoanalitica è stato il primo quadro teorico di
riferimento di Atwood e Stolorow, che vi han visto una “psicologia del profondo”, libera dal
meccanicismo tipicamente metapsicologico.
L’intersoggettività
Atwood e Stolorow sono i massimi esponenti della corrente intersoggettiva e si sono entrambi
formati al pensiero di Murray, fondatore della Personologia, ovvero dello studio della vita umana,
degli elementi che la possono influenzare e dei diversi tipi di personalità. L’intento di Murray era
elaborare una teoria della personalità, ove quest’ultima è da intendersi come punto di incontro delle
relazioni che la persona ha con se stessa e con la realtà esterna, oltre che come sede di aspirazioni e
bisogni che influenzano il comportamento. Murray ha mantenuto i costrutti freudiani di Es, Io e
Super Io, ma li ha in parte alterati:
- Es contiene, anche, impulsi buoni per l’individuo e la società, non solo negativi;
- Io non si limita a controllare le richieste pulsionali, ma si occupa anche di permettere il
passaggio al livello di coscienza di quel materiale inconscio che non è negativo ma, al
contrario, può essere utile per la realizzazione individuale;
- Super Io vi si associa un Io ideale, sede delle aspirazioni. Se l’Io ideale è sottomesso al
Super Io, propone dei valori conformistici a scapito di quelli personali; se, al contrario, è
scisso dal Super Io, può orientarsi verso mete socialmente non accettate.
Stolorow ed Atwood han messo a punto la teoria dell’intersoggettività, in cui il “mondo
rappresentazionale” è stato sostituito dal “mondo soggettivo-soggettivo”, da cui deriva il termine
“inter-soggettività”. La teoria dell’intersoggettività è una teoria di campo o sistemica, perché
considera i fenomeni psicologici risultato di un’interazione tra soggettività e non dell’attività di
meccanismi psichici isolati. Sia la psicopatologia sia il bambino si sviluppano in un contesto
intersoggettivo, che è il “campo” da analizzare: il campo è dato da “due soggettività all’interno del
sistema che esse creano e dal quale esse emergono”. In tal condizione, l’analista non può essere
osservatore partecipe, perché è coinvolto in prima persona nel campo. Il focus è sulla relazione e si
studiano le condizioni intersoggettive con i movimenti transferali e controtransferali, che
permettono la formazione di configurazioni soggettive di Sé e dell’altro, con l’assunzione, da parte
dei due partner, di specifici ruoli familiari. Il compito della Psicoanalisi è lo studio del contesto
emotivo che struttura l’esperienza della persona ed essa non fa più riferimento ad una tecnica
(rigida ed uguale per tutti), bensì ad una pratica (tiene in considerazione il fatto che ogni campo
intersoggettivo conduca ad esperienze diverse). L’essere umano, infine, essendo un soggetto
esperienziale, è considerato in continua evoluzione in un contesto intersoggettivo.
Fondamenti teorici
Secondo Stolorow ed Atwood, le teorie analitiche classiche risentono del tempo in cui sono state
formulate e, in particolare, del mito occidentale della “mente individuale isolata”, indicativo di
quella che è l’alienazione dell’essere umano moderno dalla natura e dal suo essere soggetto. L’aver
considerato la mente avulsa dal corpo ha sminuito l’esperienza della fisicità del Sé, mentre l’averla
descritta come indipendente dai legami interpersonali ha condotto alla solitudine dell’individuo. In
questa condizione, si fa forte la necessità di rimettere l’essere umano a contatto con i suoi simili e
con la realtà stessa in cui vive. I due autori han cercato di rompere la dicotomia
intrapsichico/interpersonale servendosi della nozione del sistema intersoggettivo, in cui queste due
dimensioni sono considerate interagenti. E’ nell’intersoggettività che si ha la formazione delle
rappresentazioni di Sé e dell’oggetto, così come l’acquisizione del senso di realtà, favorita da un
ambiente di accudimento in cui si vivono esperienze sia positive sia negative ma che è
caratterizzato, comunque, da una forte sintonizzazione: è quindi in questo terreno che il bambino
sviluppa la percezione della realtà e della sua esperienza.
Anche il concetto di inconscio è stato rivisto dai due autori, che hanno descritto: 54
- inconscio preriflessivo è sede dei principi che organizzano i contenuti dell’esperienza
soggettiva secondo schemi specifici e che sono al di là del controllo cosciente: un esempio è
dato dalla formazione del Super Io, i cui principi organizzatori derivano da ciò che il
bambino ha appreso essere o meno utile per ottenere l’approvazione dell’ambiente. Non si
forma, quindi, in seguito ad un’attività di tipo difensivo.;
- inconscio dinamico comprende configurazioni di Sé e dell’altro che, per opera della
rimozione, non possono accedere alla coscienza in quanto inaccettabili. Gli stati affettivi del
bambino che non riescono a stimolare una risposta di gratificazione del bisogno dall’esterno
non possono essere integrati e diventano fonti di conflitto: per questo motivo si attiva la
dissociazione degli affetti; tali stati affettivi dissociati riemergono nella situazione analitica
come resistenze. I contenuti dell’inconscio dinamico non sono, quindi, pulsioni, bensì stati
affettivi eliminati per preservare dei legami importanti;
- inconscio non convalidato contiene tutti quegli aspetti della vita soggettiva che non sono
mai stati espressi appieno, ovvero che non han ricevuto una risposta convalidante
dall’ambiente.
Stolorow ed Atwood hanno utilizzato la seguente metafora dell’edificio:
- coscienza comprende tutta la parte della struttura che è al di sopra del suolo ed i piani più
alti sono quelli massimi di sviluppo ed integrazione;
- inconscio dinamico scantinato;
- inconscio preriflessivo progetto di costruzione dell’architetto;
- inconscio non convalidato insieme dei materiali che non sono stati utilizzati per costruire
l’edificio e che sono sparsi in giro, anche se, potenzialmente, sarebbe stato possibile usarli.
Mente e corpo
Atwood e Stolorow hanno considerato la mente ed il corpo i due poli dell’esperienza di Sé e
ritenevano che a separarli fossero determinati contesti intersoggettivi, quali:
- esperienza affettiva è l’area delle sensazioni corporee, in cui gli affetti vengono tramutati
in stati soggettivi, fino a poter essere verbalizzati. Questo processo dipende dalla capacità
della madre di insegnare al bambino a riconoscere e nominare le sue esperienze corporee,
fornendogli delle risposte verbali sintonizzate. Un contesto intersoggettivo facilitante è
quindi essenziale affinché si sviluppi la capacità di vivere gli affetti non solo come
esperienze corporee ma anche come fenomeni mentali (sentimenti): in mancanza di tale
condizione, gli affetti non vengono trasformati, cioè non ricevono una codificazione
simbolica, e questo fa sì che la persona non disponga di un lessico affettivo adeguato. E’
anche possibile che il bambino consideri intollerabili le sue esperienze affettive e ne
impedisca l’espressione simbolica: questo può portare ad un’espressione degli affetti più
arcaica, ovvero con sintomi psicosomatici, anche in età adulta;
- concretizzazione dell’esperienza concretare l’esperienza significa rappresentare
l’organizzazione del mondo soggettivo attraverso diverse attività ed elaborazioni psichiche,
che possono comprendere specifici comportamenti, attività sessuali ed immagini percettive
di sogni e fantasie. Lo scopo della concretizzazione è tutelare l’organizzazione
dell’esperienza, per esempio provvedendo all’appagamento di particolari desideri,
all’attivazione di difese ed all’adattamento. Secondo gli autori, le fantasie sessuali infantili
passano al bambino dei simboli psicosessuali in grado di concretare le tappe evolutive: in
caso di sviluppo perturbato, si ha una debolezza organizzativa, tale per cui il soggetto può
continuare ad utilizzare i simboli psicosessuali anche in età adulta per preservare
l’organizzazione della vita soggettiva. Non ha luogo, come diceva Freud, una riattivazione
di un’esperienza sessuale infantile, bensì di una funzione associata all’esperienza erotica, la
quale funzione è quella di permettere la conservazione del senso di Sé: in questo modo, il
corpo viene usato per concretizzare un’esperienza di stabilità necessaria per l’individuo;
- senso del Sé incarnato in un corpo un Sé coeso offre la sensazione di “abitare il proprio
corpo”, percependo la pelle che separa il Sé dal non-Sé: si tratta di una tappa evolutiva che
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permette l’unione completa tra mente e corpo e che richiede la capacità della madre di
sintonizzarsi con il bambino. Una sintonizzazione fallimentare porta ad uno scollamento tra
mente e corpo, che può giungere fino ad una separazione, con vissuti di spersonalizzazione e
disintegrazione del Sé. In una condizione intermedia tra la coesione e la separazione, vi è
l’identificazione con una prospettiva esterna: il bambino, pur di mantenere i legami con le
figure di accudimento, abbandona l’esperienza di un Sé che non viene, comunque, né
accolto né riflesso, ed assume il punto di vista esterno dell’altro, guardando al Sé da fuori.
Trauma e patogenesi
La teoria intersoggettiva considera il trauma la conseguenza di un ambiente che offre al bambino
delle risposte senza essere sintonizzato con lui, risposte che, quindi, non lo aiutano a sopportare le
situazioni traumatiche. Il trauma, pertanto, nasce nel sistema intersoggettivo infantile, a causa di un
deficit nella reciproca regolazione madre-bambino. Balint ha individuato tre fasi nella formazione
del trauma:
1. vi è un rapporto di fiducia tra il bambino e la figura di accudimento;
2. la figura di accudimento risponde alle richieste del bambino con un rifiuto e si rivela essere
inaffidabile;
3. il bambino si vede respinto nella sua ricerca di riunione e conforto.
Stolorow, con una concezione simile a quella di Balint, ha descritto i fallimenti nelle relazioni di
oggetti-Sé secondo due fasi:
1. la figura di accudimento respinge un bisogno primario di oggetto-Sé;
2. il bambino, frustrato, cerca una risposta di sintonizzazione da cui trarre conforto. Se i
genitori si mostrano insensibili alla sua richiesta, si convince che il suo dolore non sia da
loro approvato e lo rimuove al fine di preservare il legame. Il rimosso diventa fonte di
conflitto interno permanente e lo rende vulnerabile agli stati traumatici.
In ogni caso, le esperienze infantili negative non esitano sempre in traumi, ma è la mancanza di
risposte sintonizzate agli stati di dolore ad esse associate a tramutarle in stati traumatici. Un
ambiente intersoggettivo che non regoli e contenga gli affetti del bambino spinge questo ultimo a
rimuovere l’affetto negativo, portando ad una dissociazione tra i vissuti corporei e quelli mentali: a
questo punto ci sono due possibilità e cioè o si instaura un disturbo psicosomatico o si ha il ritiro
dell’individuo in un bozzolo protettivo, con l’assunzione di un atteggiamento depresso e
pessimistico. Un bambino che subisca un trauma evolutivo sviluppa la convinzione che gli affetti
negativi che prova siano dovuti a difetti del suo Sé: l’eliminazione di questi aspetti negativi, però,
provoca il timore del ripetersi della condizione traumatica originaria, tale per cui il soggetto diventa
particolarmente sensibile a tutte quelle situazioni che possono rievocare il trauma, ed attiva delle
difese. Nelle dinamiche transferali l’analista non è neutrale ma si pone in continuità con la realtà
primitiva del paziente, che è rifiutante: deve, quindi, lenire il dolore dissociato e rispondere in modo
sintonizzato, come farebbe un genitore comprensivo.
Transfert
Nella letteratura analitica, il transfert è stato considerato:
- processo regressivo reiterazione di modelli appartenenti al passato del paziente;
- spostamento continuazione dell’esperienza passata permessa da una serie di spostamenti
che procedono con un percorso associativo fino a riportare l’esperienza in questione nella
condizione analitica;
- proiezione gli oggetti interni vengono proiettati sull’analista.
Si nota come il transfert sia sempre stato considerato causa di una deformazione della realtà. La
teoria intersoggettivista, invece, lo considera un’attività organizzativa: il mondo soggettivo del
paziente, che comprende configurazioni del Sé e del soggetto, modella la relazione con il terapeuta;
il transfert, quindi, è espressione dell’attività dei principi di organizzazione che si sono irrigiditi già
dal primo sviluppo. La prospettiva intersoggettiva, sul tema del transfert, sostituisce, perciò,
l’espressione di un principio psichico ad una tendenza a riattualizzare il passato. 56
L’orientamento intersoggettivo colloca la cura nella relazione tra due soggetti, la quale relazione si
fonda su specifici principi organizzatori che si sono formati nella diade madre-bambino. Oggetto di
studio, pertanto, è la genesi della soggettività del bambino in occasione del contatto con una
soggettività che, invece, è già sviluppata, ovvero quella materna. In ambito terapeutico, infine, non
è più importante svelare l’inconscio, bensì riorganizzare i principi inconsci del paziente.
L’intersoggettività nell’Infant research
Freud ha descritto l’apparato psichico del bambino a partire dalle analisi a posteriori di adulti ed ha
visto l’infanzia come un periodo molto delicato, in cui è facile che abbiano luogo esperienze vissute
come traumatiche: da qui la necessità di approfondire lo studio delle vicissitudini dei bambini. Il
metodo osservativo di Mahler e l’Infant Research avevano entrambi lo scopo di indagare lo
sviluppo infantile ed il rapporto madre-figlio, in modo tale da ricavare dei dati da integrare con il
contributo psicoanalitico, considerato la parte più importante. Anche Anna Freud e Klein si sono
dedicate all’osservazione dei bambini con la finalità di avvalorare le loro acquisizioni ottenute
mediante il metodo retrospettivo analitico. L’Infant Research è nata dall’osservazione diretta del
bambino, ma con un obiettivo diverso, ovvero ottenere dei risultati idonei a confermare i criteri
delle procedure scientificamente attendibili, pur senza dover fare riferimento a delle teorie
predeterminate. Dalla necessità di conferire alla Psicoanalisi un supporto non solo clinico ma anche
empirico, è sorto l’interesse verso gli ambiti della Psicologia generale e della Psicologia dell’età
evolutiva. In particolare, molti studi han cercato di integrare le visioni dello sviluppo
rispettivamente cognitivo ed affettivo di Piaget e Freud. Col tempo, ha cominciato a manifestarsi
un’apertura sempre maggiore verso altre discipline ed un contributo importante è stato portato
anche da Bowlby, con la sua teoria dell’attaccamento. Tuttavia, persisteva la difficoltà a far
corrispondere i principi psicoanalitici con i dati derivanti dal metodo osservativo, motivo per cui si
è optato per uno studio dello sviluppo considerato dal punto di vista del diretto interessato, cioè del
bambino, il che ha delineato l’approccio dell’Infant Research. Esso si rifà alla teoria dei sistemi,
ponendo al centro la relazione madre-bambino, che viene considerata un sistema aperto in grado di
autoregolarsi e che diventa il vero oggetto di studio, rimpiazzando il bambino in sé. Il paragone
della diade con un sistema fa sorgere la necessità di assumere il principio dell’equifinalità (per via
della capacità di autoregolazione, che rende il sistema in grado di correggersi per arrivare ad un
certo fine), secondo cui da condizioni di partenza diverse si può raggiungere uno stesso punto di
arrivo. Altro assunto fondamentale è quello secondo cui la mente si sviluppa a partire dalle
primitive interazioni madre-bambino, in cui il piccolo fa propri degli schemi relazionali che
riproporrà nella vita futura, sviluppando le abilità cognitive e, primo fra tutte, il linguaggio. l’Infant
Research, pertanto, ha una prospettiva relazionale, dal momento che è in disaccordo con la teoria di
Bowlby, che considera la relazione come un bisogno biologico. L’utilizzo dell’Infant Research di
filmati che consentono studi di microanalisi ha permesso di notare quanto il neonato non sia passivo
ma si connoti, in vero, come un agente predisposto al rapporto sociale.
1. Colwyn TREVARTHEN ha dimostrato la presenza di un’intenzionalità interattiva
manifestata dai bambini piccoli (< 2 mesi) nei confronti degli adulti, oltre che la loro
capacità di rispondere in modo diverso ai vari stimoli forniti dalla madre ed agli oggetti
rispetto che alle persone e di controllare le loro reazioni nel rispetto di modelli temporali, in
cui vi è una nozione di dialogo. Ha ipotizzato la presenza di una sensitivity innata che
predispone alla ricerca dell’altro, collocando il bisogno di relazione prima di tutti gli altri:
secondo la teoria dell’intersoggettività innata, il bambino nasce con una serie di competenze
che lo rendono capace di veicolare e ricevere contenuti mentali secondo una struttura
dialogica. Il bambino, quindi, è dotato di ciò di cui abbisogna per vivere in compagnia dei
consimili (companionship) e mette in atto dei comportamenti che possono essere molto
espressivi e tra cui spicca l’imitazione. Essa ha a che fare con il rispecchiamento, ovvero
con la capacità del piccolo di comprendere le intenzioni ed i vissuti dell’altro in modo
immediato ed intuitivamente, basandosi su quanto egli comunica attraverso il proprio corpo.
Questa abilità è presente fin dalla nascita e si manifesta proprio attraverso l’imitazione,
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durante la quale ha luogo il processo di accoppiamento (matching), che fa sì che all’azione
osservata dell’altro venga associata una riproduzione fedele nel cervello. Questa ipotesi
trova oggi un sostegno nella scoperta dei neuroni a specchio, che si trovano nella corteccia
premotoria e si attivano sia quando si mette in atto un’azione con un fine sia quando questa
viene solo osservata: l’attivazione di queste cellule crea una rappresentazione motoria
interna dell’azione a cui si assiste ed apre la strada all’apprendimento imitativo. Questo tipo
di neuroni, quindi, permette di cogliere le intenzioni altrui, il che fa sì di poter percepire
l’altro come sé e viceversa: è la base dell’intersoggettività. Essendo la corteccia prefrontale
ancora non del tutto sviluppata nei neonati, Trevarthen ha ipotizzato, anche, un
coinvolgimento sottocorticale nel rispecchiamento, il che consentirebbe pure di spiegare il
riconoscimento sensoriale transmodale, vale a dire la capacità del bambino di tradurre delle
informazioni captate attraverso uno specifico canale sensoriale in “codici” percettivi
differenti. Il linguaggio della madre sarebbe adatto a sollecitare, in forma transmodale, i
movimenti del figlio, consentendo l’istituzione di un contatto “simpatetico”, in cui si
avrebbe anche una comunicazione tra menti, con il passaggio di contenuti emotivi. Le
emozioni possono essere provocate da tre stimoli fondamentali: 1) persone emozioni
etiche, che sono le prime a comparire e che regolamentano gli scambi con gli altri; 2) oggetti
emozioni estetiche, associate alle attività di esplorazione, risoluzione dei problemi e
creatività; 3) Sé emozioni autonome, che hanno un ruolo nella regolazione di corpo e
mente. Ne deriva che anche la regolazione emotiva si articoli su tre livelli: livello
comunicativo (il Sé con l’altro), livello cognitivo (il Sé con gli oggetti) e livello autonomo
(Sé corporeo). Secondo l’autore, le funzioni delle emozioni, che sono dei regolatori del
cervello, sono agevolare l’interazione, guidare il comportamento e garantire l’integrità
corporea.
Attraverso la tecnica del doppio video, è stato possibile evidenziare la sincronizzazione
perfetta che caratterizza le interazioni madre-bambino, le cui emozioni sono interdipendenti.
In particolare, esperimenti di still face hanno permesso di dimostrare quanto il bambino non
sia affatto passivo nella sua relazione con la figura materna ma, al contrario, cerchi di
stimolarla a fronte di un suo disimpegno che provoca disagio.
Già al momento della nascita, il piccolo ha una gamma di emozioni molto ampia come gli
adulti e le emozioni sono molto importanti nel suo sviluppo psicologico: una madre con un
disturbo emotivo, per esempio, può non consentire un’esperienza intersoggettiva positiva,
inficiando lo sviluppo cerebrale e psicologico del figlio in negativo. Trevarthen ha collegato
la formazione dell’intersoggettività a degli stimoli, che cambiano in parallelo con la
maturazione, ed ha identificato le seguenti fasi:
1) intersoggettività primaria è caratterizzata dal rispecchiamento empatico, in cui
rientrano l’imitazione e le protoconversazioni. Si ha la graduale comparsa dei giochi
interpersonali e dell’interesse del piccolo per gli oggetti, a cui comincia a far ricorso con fini
ludici;
2) intersoggettività secondaria o cooperativa comincia quando il piccolo inserisce degli
oggetti nella comunicazione con la madre e, verso la fine del primo anno, egli è capace di
cogliere le intenzioni altrui e di controllare il proprio comportamento per adattarsi
all’interlocutore.
Per quel che riguarda, invece, le interazioni con i pari, queste passano dall’essere di sola
eccitazione nei primi mesi al diventare più comunicative con la comparsa del sorriso intorno
ai 6 mesi. Lentamente, cominciano a manifestarsi sia scambi cooperativi che interazioni
conflittuali.
2. Andrew MELTZOFF ha messo in evidenza il legame esistente tra i processi relazionali e
quelli interni. In breve, la corrispondenza transmodale consentirebbe al bambino di mettere
in relazione le informazioni ricavate dall’esterno con quelle di origine propriocettiva,
arrivando ad una sintonia con l’ambiente. La corrispondenza transmodale, quindi, mette a
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contatto mondo esterno ed interno e Sé del piccolo con adulto, consentendo anche la prima
esperienza del “come me”, ovvero di un’interconnessione con l’altro. La corrispondenza
transmodale non accade solo con le espressioni del volto, così come non avviene solo in
caso di imitazione: è infatti sufficiente che il bambino veda un’emozione sul viso dell’altro
per esserne emotivamente influenzato. L’imitazione, inoltre, non costituisce una sorta di
riflesso, ma una vera e propria azione segnata da intenzionalità, come dimostrato
dall’impegno profuso dal piccolo nel farla sempre meglio. Gli stimoli propostigli dall’adulto
attivano, infatti, un feedback circa la sua risposta imitativa, che viene paragonata con
l’azione percepita: si ha, così, un processo di accoppiamento tra le due rappresentazioni, con
la creazione, anche, di una mappa di quello che il neonato percepisce sul proprio viso
mentre cerca di imitare l’espressione dell’adulto: questa mappa fa sì che egli possa avvertire
ciò che prova l’altro, dando origine ad una prima esperienza intersoggettiva. L’imitazione,
pertanto, permette al bambino di fare una prima esperienza di altro “come me”, oltre che di
differenziare gli altri con i quali si identifica.
3. Alan FOGEL ha posto due principi alla base della comunicazione e dello sviluppo
relazionale: il reciproco adattamento madre-bambino e la dimensione creativa della co-
regolazione, ove la creatività è intesa come la comparsa di nuove emozioni e comportamenti
all’interno del processo di co-regolazione; ha elaborato il modello di comunicazione co-
regolata. La co-regolazione compare con l’acquisizione del primo senso di Sé intorno ai 2
mesi, che permette di distinguersi dagli altri provando intersoggettività con loro. A partire
dal primo anno, i modelli di relazione madre-bambino diventano stabili, pur potendo andare
incontro a dei cambiamenti: la rigidità, infatti, ostacola lo sviluppo dell’intersoggettività e,
di conseguenza, del Sé del piccolo, predisponendo alla psicopatologia. Se ne ricava che lo
sviluppo, per essere corretto, necessiti della presenza di modelli prevedibili ma non fissi. E’
l’adattamento reciproco a permettere la creazione dei modelli stabili, chiamati “frames”
perché funzionano come delle cornici all’interno delle quali l’esperienza intersoggettiva si
dota di significato: essi sono caratterizzati dal luogo in cui si ha l’interazione, oltre che dal
grado di vicinanza e dall’orientamento di attenzione e postura di madre e bambino; sono dei
processi complementari alla co-regolazione e la loro flessibilità influisce positivamente
sull’interazione, che si occupano di regolamentare. Il passaggio da un frame ad un altro più
nuovo è dato dai cambiamenti che possono verificarsi nell’interazione, come può essere il
sopraggiungere di un nuovo interesse nel bambino: con il cambiamento di frame, emerge un
nuovo modello di comunicazione. Il primo senso di Sé, perciò, è relazionale e col tempo
diventa individuale, permettendo di viversi non solo come differenti ma anche come simili
all’altro.
4. Robert EMDE ha posto al centro dell’infanzia la relazione di accudimento, proponendo
una considerazione del bambino come provvisto di buone competenze di regolazione ed
autoregolazione. Esattamente come Winnicott, era convinto del fatto che il piccolo non
potesse essere considerato se non all’interno della relazione con una madre intenta ad
occuparsi dei suoi bisogni fisici ed emotivi e costituente con lui un unico sistema
relazionale. All’interno della relazione di attaccamento si creano i presupposti per una serie
di funzioni, quali l’esplorazione, la regolazione fisiologica dei bisogni, il gioco, la disciplina
e l’esperienza empatica. L’autore ha attribuito, per quanto riguarda lo sviluppo, un ruolo
preponderante agli affetti, i quali regolano sia il comportamento sia l’esperienza soggettiva:
essi sono delle strutture che si creano dalla convergenza di linee evolutive che, unendosi,
determinano nuove strutture psichiche. Hanno una funzione comunicativa sia a livello
intrapsichico, permettendo la continuità ed influenzando lo sviluppo della personalità del
bambino, che in una dimensione interpersonale. Emde ha elencati degli ambiti organizzativi,
che avrebbero la peculiarità di guidare lo sviluppo emotivo e che sono:
- i cambiamenti nel contesto biocomportamentale lo sviluppo non è unitario, ma
segnato da una serie di discontinuità dal punto di vista comportamentale, ovvero
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presenta delle transizioni qualitative e contrassegnate dalla “comparsa di nuove
condotte e funzioni”. I cambiamenti biocomportamentali individuati dall’autore
sono:
1) prolungamento della veglia viene dedicata ad attività diverse, principalmente di
esplorazione visiva dell’ambiente, con un aumento dell’apprendimento. Fanno la
loro comparsa anche il sorriso sociale e dei suoni vocali tipici ed aumenta il contatto
oculare;
2) risposta affettiva differenziale nei confronti della madre e degli sconosciuti,
con la comparsa di un attaccamento specifico e della paura dell’estraneo. Si afferma
la distinzione mezzi-fini;
3) comparsa della deambulazione associata a cambiamenti cognitivi, linguistici ed
emotivi gli ultimi tre ambiti fanno riferimento, rispettivamente, alla scoperta della
separazione degli oggetti, allo sviluppo della capacità simbolica ed al riferimento
sociale;
4) uso del linguaggio più articolato il bambino comincia a comporre frasi con più
parole. Si differenzia ulteriormente dagli altri ed a livello cognitivo acquisisce la
capacità di ricordare e migliora nell’uso dei simbolo. Sul piano affettivo, cessa di
utilizzare la madre come base sicura per un rifornimento emotivo e comincia a
coinvolgerla in schemi di “segui e fuggi”;
- il nucleo affettivo del Sé l’affettività permette di integrare l’esperienza, fornendo
un senso di continuità e coerenza, oltre che di provare empatia per gli altri e di
sviluppare nuove modalità di funzionamento, sia dal punto di vista intrapsichico che
da quello interattivo. Il nucleo affettivo del Sé emerge già nelle prime fasi ed evolve
secondo tre principi che sono tra loro associati ed hanno natura biologica:
l’autoregolazione nello sviluppo, il preadattamento sociale ed il monitoraggio
affettivo, il quale permette di valutare le esperienze come piacevoli o spiacevoli; è
dunque corretto dire che l’affettività si sviluppi a partire da un’innata
predisposizione biologica. Le emozioni hanno una finalità non solo comunicativa
rispetto ai bisogni, ma anche di promozione dell’affiliazione. Importante è, in ogni
caso, la presenza di una figura di accudimento disponibile, affinché il bambino possa
internalizzare dei nuclei di fiducia e sicurezza;
- il riferimento sociale Emde ha descritto un continuum. Secondo l’autore, nei
primi sei mesi il riferimento sociale è favorito dalla figura materna che accoglie gli
stimoli inviati dal figlio, mentre nel semestre successivo il bambino inizia a ricercare
dei segnali nella madre spontaneamente; nel secondo anno, il riferimento sociale ha
luogo se il piccolo è confuso circa i segnali dell’altro. Intorno all’anno e mezzo,
infatti, il bambino comincia a cercare scambi affettivi positivi con le figure di
accudimento, sviluppa ulteriormente la sua consapevolezza di sé, dell’altro e del
senso del “sé con l’altro”, arrivando al senso del “noi”. Si creano dei modelli
operativi interni, precipitato delle esperienze relazionali che si ripetono e
l’internalizzazione del “noi” fa sì che il bambino assuma una guida comportamentale
interna, che lo ispira dal punto di vista morale: è questo il senso esecutivo del “noi”,
che si caratterizza per l’obbedienza ai dettami parentali anche in assenza dei genitori
e che è diverso dal senso autonomo del “noi”, poiché questo ultimo prevede
un’applicazione delle regole internalizzate anche in situazioni differenti da quelle in
cui sono state apprese. Emde ha attribuito molto importanza al Noi, al punto da
auspicare la nascita di una Psicologia del Noi, in aggiunta alla Psicologia del Sé;
- lo sviluppo morale precoce il riferimento sociale è essenziale affinché ci sia uno
sviluppo morale ed un ruolo importante è ricoperto dalle emozioni, molto più
determinanti dell’educazione e dell’apprendimento. L’empatia non solo motiva i
comportamenti prosociali, ma permette un’inibizione di quelli aggressivi. 60
I cambiamenti evolutivi sono sempre anticipati da una fase preparatoria, dopo la quale si
ha la nuova organizzazione, seguita dal consolidamento degli elementi innovativi nel
periodo del plateau.
Il modello di Emde, quindi, ruota intorno agli affetti, che hanno una connotazione
biologica e sono di primaria importanza nello sviluppo. Non sono intesi come prodotti
dell’interazione, bensì come strutture attive che innescano la socializzazione.
5. Louis W. SANDER ha fondato il suo pensiero sullo studio dei sistemi costruiti
dall’individuo e dall’ambiente, che sono coinvolti in un adattamento reciproco, finalizzato a
permettere la continuazione della vita. E’ considerato, con Wolf, padre dell’Infant Research
ed ha proposto una visione del bambino come in grado di autoregolarsi ed autorganizzarsi. Il
suo obiettivo era studiare come la personalità della madre potesse influenzare il bambino ed
il suo sviluppo. Ha identificato una serie di periodi, caratterizzati da particolari esigenze:
- primo periodo (adattamento iniziale, primi due mesi e mezzo) è fondamentale che
le cure della madre siano in armonia con i bisogni manifestati dal figlio, in modo che
si instauri una reciprocità. Affinché ciò avvenga, è fondamentale che ella sia
sensibile alle necessità del piccolo ma non gliene attribuisca di sue;
- secondo periodo (dai due mesi e mezzo ai cinque) di vitale importanza è che
passività ed attività si alternino in modo idoneo, senza che il bambino venga
sottoposto o sottostimolazioni od a sovrastimolazioni
- terzo periodo (cinque-nove mesi) è importante valutare in che misura il bambino
cerchi l’interazione con la madre (comincia in questa fase a farlo, protendendosi
verso di lei e stimolandola), poiché se i suoi tentativi vanno in porto egli può
sviluppare un primitivo senso di autonomia;
- quarto periodo (nove-quindici mesi) il piccolo vede la madre come l’unica
persona che possa soddisfare i suoi bisogni e diventa cruciale la capacità materna di
cedere o negoziare nei confronti del figlio, a cui deve porre dei limiti. Ella è
chiamata a rinunciare al bambino come possesso ed a funzionare come base sicura;
- quinto periodo (di autoasserzione, dodici-diciotto mesi) è la fase del “No!”, in cui
è rilevante valutare il grado di autoasserzione del piccolo nella relazione con la
madre. Egli è adesso limitato nella sua autonomia dalle proibizioni genitoriali e
possono manifestarsi delle situazioni conflittuali.
Sander ha descritto, quindi, lo sviluppo del bambino in relazione alle interazioni con la
madre, di cui costituisce il prodotto. Ha introdotto la nozione di “spazio aperto” per far
riferimento a quell’area di disimpegno di madre e figlio dalla relazione, in cui questo
ultimo può sviluppare la capacità di stare da solo in presenza della prima che non
interviene, accrescendo la propria autonomia in una condizione in cui è
momentaneamente libero da bisogni e può agire secondo le sue motivazioni interne.
Gli stati attraverso cui passa il neonato e che si collocano su un continuum sonno-veglia,
sono regolati da un meccanismo endogeno, ma possono essere modificati dalle
interazioni con la madre, andando a creare una “struttura degli eventi”, ovvero una
suddivisione temporale di una giornata intera così come essa viene condivisa dalla diade.
Tale struttura è prevedibile e permette di attribuire un significato sia agli eventi ricorrenti
sia a quelli che violano la routine. La regolazione dei ritmi fisiologici del bambino
conduce alla formazione del suo Sé, che si caratterizza per coesione. Il piccolo comincia
a percepirsi come agente proprio grazie alla regolazione dei suoi ritmi portata
dall’interazione con la madre, che permette l’esperienza dell’autoregolazione. Il senso
del Sé come agente è una “competenza sistemica”, dal momento che il bambino lo
esperisce anche nel momento del disimpegno. L’utilizzo vero e proprio dell’agency si ha
quando egli cerca di ricreare quelle situazioni che gli permettano di sperimentare gli stati
desiderati ed ha luogo con la regolazione degli stati interni: la consapevolezza
dell’esperienza interna permette lo sviluppo del senso di Sé. Il sense of agency si riduce
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quando il bambino si trova nella condizione di doversi adattare non ai propri ritmi
endogeni ma all’altro, per cui è importante che la figura di accudimento faccia il
possibile per consentirgli di organizzare la sua esperienza interna in modo attivo.
Secondo Sandler, tutti gli individui sono collocati, per l’intera durata dello loro vita,
all’interno di un sistema dinamico con forze tra loro contrastanti, le “tensioni
dialettiche”, che nel sistema madre-bambino si organizzano intorno ai due poli
dell’essere con (sintonizzazione) e dell’essere distinti da (agency nell’autoregolazione):
si tratta di due dimensioni di origine biologica, entrambe necessarie nella relazione sana
con l’altro. Nel sistema della diade, si forma il senso di identità del bambino, che deriva
dalla continuità percepita grazie al ripetersi di modelli familiari. Il sistema in questione si
basa sulla corrispondenza delle specificità, ovvero sull’incontro di due sistemi che
formano insieme una coesione, incontro che ha luogo in un “momento positivo” che è la
vitalizzazione; l’incontro di due coscienze permette la nascita di una consapevolezza
condivisa, in cui “si sente che l’altro sente quel che si sente”. Al contrario, una
divergenza incapace di portare alla vitalizzazione, diminuisce la coesione.
6. Alan L. SROUFE ha messo le relazioni sociali al centro della sua riflessione ed ha
considerato precursore del Sé l’organizzazione madre-bambino, intendendo il Sé come un
insieme di sensazioni, comportamenti e concetti che emerge all’interno del sistema delle
cure genitoriali. Il Sé, quindi, esiste solo in relazione agli altri e non è presente fin dalla
nascita, bensì si crea nella diade primitiva, la quale è tanto importante da poter influire,
anche, sulle relazioni future. L’individuo non può essere considerato avulso dal suo
ambiente, dal momento che nel suo sviluppo intervengono più sistemi regolatori, tra i quali
quelli biologico e sociale. Il Sé è un nucleo dell’autoregolazione e prende forma con il
riconoscimento del bambino circa l’efficacia delle sue stesse azioni: è dal Sé che si sviluppa,
poi, la persona. Il Sé si forma attraverso un passaggio per fasi:
a) trasformazione della regolazione fisiologica in regolazione psicologica;
2) partecipazione attiva del bambino negli scambi sociali;
3) comparsa di schemi volti ad un obiettivo, ovvero dell’intenzionalità, e protesta verso tutto
ciò che è estraneo e non prevedibile;
4) uso della madre come base sicura.
Il nucleo interno del Sé, quindi, si sviluppa a partire dalla diade che va, progressivamente,
verso l’assunzione di un ruolo più attivo del bambino nell’interazione, fino ad arrivare ad
una fase in cui egli è in grado di organizzarsi da solo. Il Sé come organizzazione interna può
configurarsi in modo diverso a seconda di quella che è stata la relazione con la madre: un
attaccamento sicuro fa sì che il bambino sviluppi una buona fiducia di base che gli consente
l’esplorazione dell’ambiente, che viva delle esperienze positive con la madre e che si crei un
modello operativo di Sé come meritevole; al contrario, un attaccamento evitante porta ad
angoscia durante l’esplorazione che il piccolo non cerca di placare chiedendo rassicurazioni
alla madre, oltre che alla genesi di un modello operativo di Sé non meritevole. Il modello di
Sé è importante perché va ad influire sulle relazioni future.
7. H. Rudolph SCHAFFER si è occupato primariamente dell’area sociale, dal momento che
è lì che si sviluppa il bambino, che ha una predisposizione innata all’interazione. L’autore ha
distinto una predisposizione strutturale (dotazione organica finalizzata a garantire il rapporto
madre-bambino) da una funzionale (fa riferimento al modo in cui si sfrutta la
predisposizione organica e, quindi, a come il bambino organizzi i suoi comportamenti nel
tempo: essi sono dapprima influenzati dai ritmi biologici, poi dalla madre). Anche se il
bambino dispone di questa dotazione innata, ha comunque bisogno di condizioni favorevoli
per diventare un essere socializzato. La sua massima acquisizione in tal senso è costituita dal
concetto di dialogo, basato sulle nozioni di reciprocità ed intenzionalità. Inizialmente ci sono
solo pseudodialoghi, in cui è la madre a mantenere l’interazione, mentre verso la fine del
primo anno comincia a manifestarsi la bidirezionalità, con reciprocità e sviluppo di modelli
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di azione condivisa. L’intenzionalità nasce quando il piccolo capisce il valore comunicativo
dei suoi gesti ed inizia ad usarli con cognizione di causa. Requisiti essenziali per lo sviluppo
del concetto di dialogo sono alcuni meccanismi cognitivi, quali: la differenziazione mezzi-
fini e quella Sé-altro, la permanenza dell’oggetto, le capacità mnestiche e la funzione
rappresentativa. E’ poi fondamentale che il piccolo sia messo nelle condizioni di avere degli
scambi dialogici con la madre: se ciò accade, egli si accorge, lentamente, del fatto che i suoi
stimoli la interessano, in particolare se ella risponde ripetendo ciò che egli produce ed
intervenendo in modo tale da dare sincronia all’interazione, con le giuste pause e
l’alternanza dei turni. Madre e bambino, quindi, condividono un codice comportamentale
ancora prima della comparsa del linguaggio e la comprensione delle regole su cui si basa la
loro relazione è la chiave per capire la “formazione del legame sociale primario del
bambino”.
8. Beatrice BEEBE i processi di autoregolazione e di regolazione interattiva sono
inscindibili: la prima è un modo per influenzare l’altro, mentre la seconda permette
l’autoregolazione ed ha a che fare con il sentirsi soggetto ed essere consapevoli della propria
esperienza interiore. Il bambino è consapevole contemporaneamente dei suoi stati interni e
del contesto interattivo in cui è inserito e nell’incontro con l’altro vi è necessariamente
l’autoregolazione, dal momento che si tratta di una condizione in cui la regolazione
reciproca diventa, pure, regolazione dei propri stati interni. L’adattamento reciproco e
l’autoregolazione sono influenzati da un riconoscimento vicendevole. E’ su questi
presupposti che si sviluppa il modello sistemico-diadico dell’autrice, la quale, per quel che
riguarda l’interazione madre-bambino, non enfatizza solo l’aspetto della co-regolazione, ma
anche quello della co-costruzione, ove una regolazione co-costruita è intesa come
bidirezionale. Ogni membro della diade è influenzato dall’altro nel suo comportamento, il
quale è, pertanto, contingente, oltre che statisticamente prevedibile sulla base del
comportamento del suo interlocutore. Il processo bidirezionale può basarsi sia su scambi
positivi che su esperienze negative ed in questo ultimo caso vi è un’intersoggettività
disturbata, in cui la madre non è in grado di riconoscere il vissuto emotivo del bambino.
L’autoregolazione è intesa come regolazione degli stati emotivi e di attivazione, la quale può
essere controllata dal piccolo fin dalla nascita.
Per quanto riguarda l’esperienza infantile, essa si fonda sulle aspettative reciproche che
nascono nella relazione ed è data dalla somma di quelle interazioni che si presentano più di
frequente e che costituiscono, così, dei modelli interattivi. Le aspettative del bambino sulla
regolazione dell’interazione si basano su tre principi di salienza, che sono:
- principio di regolazione attesa si fonda su modalità di regolazione previste;
- principio di rottura e riparazione fa sì che si possa riconoscere la rottura di un
modello di interazione e che questa possa essere corretta, rafforzando il senso di
controllo sugli eventi;
- principio dei momenti affettivi intensi gli eventi più importanti, sia in positivo sia
in negativo, influenzano la relazione madre-bambino e lo sviluppo di questo ultimo.
Questi momenti sono caratterizzati non solo da un’espressione facciale o vocale del
vissuto emotivo, ma anche dal coinvolgimento del corpo.
Il bambino, quindi, crea dei modelli di interazione salienti sulla base di questi tre principi e
della sua capacità di rappresentazione pre-simbolica. Le rappresentazioni di Sé e
dell’oggetto hanno a che fare con l’interazione in toto e non sono tra loro disgiungibili: di
conseguenza, il Sé si organizza allo stesso tempo dell’altro. Il mondo interno non cambia a
seconda di quello che succede nel mondo esterno, poiché essi si influenzano reciprocamente
e si snodano in modo parallelo.
Nell’ambito della relazione paziente-analista, l’autoregolazione comprende i sogni da
sveglio, le fantasie inconsce, le difese e l’elaborazione simbolica del primo. Secondo Beebe,
l’Infant Research può dare un grande contributo alla Psicoanalisi, poiché lo studio
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dell’interazione madre-bambino permette di comprendere quella della coppia analitica per
quel che riguarda la sua componente non verbale. Quest’ultima è sempre presente anche se
non necessariamente consapevole, di conseguenza ci sono delle forme implicite di
intersoggettività che sfuggono al dominio della coscienza. Con i pazienti, in particolare
quelli gravi, possono riproporsi dei modelli interattivi preverbali, in cui riecheggia la
primitiva relazione diadica. Anche la relazione analitica è co-costruita.
L’intersoggettività deriva dall’integrazione dell’autoregolazione e della regolazione
interattiva ed è l’esperienza di un contatto tra due menti. Alla base di essa vi è, pure, la
percezione di corrispondenze trans modali, che mettono in relazione l’espressione che il
bambino vede sul viso dell’adulto e quella che avverte, propriocettivamente, su se stesso,
creando in lui una risonanza emotiva. L’intersoggettività può anche includere delle
esperienze negative, come accade quando la madre è disturbata: nei casi più gravi, ovvero
quelli di intersoggettività dissociativa, la madre nega i bisogni del figlio e si mostra
indifferente. Ciò che è positivo nell’esperienza intersoggettiva è la coordinazione tra le
persone coinvolte, che è tanto migliore quanto più è semplice prevedere il comportamento
dei partner sulla base della loro influenza reciproca. La SSP permette di identificare i
seguenti patterns di attaccamento:
1) sicuro, associato ad un livello medio di coordinazione;
2) insicuro ambivalente, in cui il livello di coordinazione è elevato perché la madre è
intrusiva;
3) insicuro evitante, quando la coordinazione è scarsa per via della bassa disponibilità
affettiva della madre;
4) disorganizzato, legato all’intersoggettività dissociativa.
Sulla base di questi dati, Beebe ha messo a punto il suo modello di equilibrio intermedio,
secondo cui una coordinazione intermedia porta ad un’autoregolazione non eccessiva, una
coordinazione troppo elevata ad un’autoregolazione limitata ed una coordinazione carente ad
un’autoregolazione esagerata.
9. Edward Z. TRONICK ha ideato lo Still Face Paradigm, che permette di osservare la
reazione del bambino di fronte ad una comunicazione disturbata. Già a 3 mesi, egli è in
grado di leggere l’espressione materna in termini di cambiamento affettivo e di mettere in
atto delle competenze regolatorie, oltre al fatto che dimostra di aver compreso il valore della
reciprocità riprendendo la relazione con la madre quando ella si rende di nuovo disponibile.
Nel modello di regolazione reciproca dell’autore, bambino e madre sono considerati due
sistemi interdipendenti, che insieme costruiscono un sistema diadico. Di conseguenza, già
dai primi mesi si può parlare di intersoggettività. La microanalisi ha permesso di identificare
una serie di stati che si possono istituire nella diade: corrispondenti o coincidenti (Match),
simili o collegati (Conjoint) e dissimili o disgiunti (Disjoint). Il bambino prevede i
comportamenti della madre per organizzare i propri, per cui il passaggio tra stati Match e
Disjoint richiede sempre una tappa intermedia Conjoint. Una perdita dell’armonia vede il
bambino e la madre impegnati a modificare le proprie condotte, mostrando di voler essere
coerenti l’uno con l’altra. Tra i due vi è mutua regolazione, il che significa che l’esperienza
affettiva di un partner è dovuta a quella dell’altro e viceversa. Il raggiungimento di un
obiettivo relazionale permette di esperire uno stato di gioia, che rinforza il piccolo nel
ripetere l’esperienza; al contrario, un obiettivo non raggiunto porta emozioni negative,
spronando il bambino a cercare di rimuovere l’ostacolo incontrato. In questo senso, le
emozioni organizzano il comportamento. Particolarmente importanti sono i comportamenti
regolatori eterodiretti, con cui i due partner manifestano la propria affettività per agire sul
comportamento dell’altro, ed i comportamenti regolatori autodiretti, finalizzati a cambiare il
proprio stato interno. Tronick ha descritto un’interazione anormale come caratterizzata
dall’impossibilità ad abbandonare uno stato interattivo negativo e ad accogliere i messaggi
reciproci finalizzati a modificare la relazione. 64
Uno stato di coscienza corrisponde ad un insieme di condotte e contenuti mentali che
possono essere sperimentati a livelli di diversi di consapevolezza ed inconsapevolezza, da
cui si ricava che solo parte della nostra organizzazione psicobiologica è conscia. Gli esseri
umani hanno bisogno di interagire con l’ambiente per ricavarvi quelle informazioni
necessarie ad ampliare e rendere più complessa la propria organizzazione: quando si
acquisisce un nuovo significato, aumenta la struttura degli stati di coscienza e si evita
l’entropia. La relazione madre-bambino fa sì che questo possa espandere i suoi stati di
coscienza in stati diadici di coscienza, grazie al processo di co-creazione di nuovi significati,
ove uno stato diadico contiene informazioni maggiori rispetto ad uno stato individuale. La
costruzione di uno stato diadico di coscienza permette l’accesso ai significati presenti negli
stati individuali ed in questo consiste il modello di espansione diadica degli stati di
coscienza. Tronick ha descritto l’essere umano come un sistema aperto e sempre impegnato
(consapevolmente oppure no) in una co-creazione di significati nel suo mondo interno ed in
quello relazionale, con lo scopo di cambiare i suoi stati di coscienza, ovvero i suoi modelli
di essere ed agire: l’introduzione di nuovi significati, infatti, permette una visione più
complessa e coerente del mondo. La mente ha un’organizzazione gerarchica su più livelli,
ognuno dei quali caratterizzato da significati propri: ciascun significato dà un senso al ruolo
che la persona gioca nel mondo e permette la creazione di ulteriori significati. Un nuovo
significato può causare un’espansione del livello o, al contrario, rendere rigido il significato
più vecchio e se ciò accade lo stato di coscienza non va incontro ad evoluzione, ma perde
coerenza, facendo sentire l’individuo annichilito. Si prova angoscia anche quando
l’imposizione di un nuovo significato determina una temporanea perdita di organizzazione
da parte del livello: vi è, dunque, un conflitto tra la necessità di espandere i livelli e quella di
mantenere l’organizzazione stabile raggiunta.
L’interazione è qualcosa di più della regolazione reciproca, la quale si base sulla capacità dei
due membri della diade di comprendere l’uno lo stato affettivo dell’altro e può presentare
stati sia coordinati sia non, nei quali ci sono degli errori di comunicazione (cioè, uno dei due
non capisce lo stato in cui versa l’altro ed emette una risposta non adeguata). Questi errori
portano a stati emotivi negativi e devono essere corretti, con una modifica della risposta
emessa. Per l’autore, l’intersoggettività è possibile perché entrambi i partner sono dei
sistemi aperti autorganizzanti, seppur inseriti in un processo diadico. La creazione di una
coscienza diadica che comprende gli stati di coscienza di entrambi è fondamentale perché
questi ultimi diventino più completi ed è quindi importante per lo sviluppo umano. Un
bambino che non sperimenti stati di coscienza diadici va incontro ad un arresto evolutivo o
ad una distorsione dello sviluppo, come accade nel caso di depressione materna: la naturale
tendenza all’espansione dei livelli, infatti, fa sì che il piccolo incorpori i suoi elementi
negativi. Il trauma, invece, rende il soggetto incapace di dare un senso alla sua esperienza e,
quindi, gli nega l’opportunità di un’espansione: la conseguenza è l’attribuzione di un
significato dissociato (non integrato in uno stato di coscienza) e l’isolamento affettivo.
Tronick ha studiato la relazione terapeutica alla luce di quella madre-bambino, considerando
la comunicazione emotiva il fattore in grado di promuovere il cambiamento in analisi. In
particolare, l’autore riteneva che l’interpretazione non fosse necessaria e che ad essa potesse
sopperire la creazione di stati diadici di coscienza, la cui natura è emotiva e di per sé
sufficiente a spingere l’analizzante al cambiamento. Durante il processo terapeutico, poi, lo
stato di coscienza del paziente tende ad espandersi in modo spontaneo e la creazione della
coscienza condivisa fa sì che gli elementi della vecchia coscienza del paziente debbano
andare incontro ad una riorganizzazione: è da qui che ha origine il cambiamento.
Conclusioni
L’Infant Research ha mostrato come il bambino sia attivo, dotato di capacità innate e predisposto
alla socialità. Ha posto l’accento sull’importanza degli affetti, considerando la relazione affettiva il
bisogno umano più vero ed al centro dello sviluppo, in uno scambio bidirezionale e caratterizzato da
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reciprocità. La scoperta di una memoria implicita ha permesso di teorizzare circa processi di
apprendimento in una fase preverbale ed è, quindi, proprio la memoria procedurale a rendere il
bambino adatto alla relazione. L’essere umano è stato, infine, descritto come un sistema aperto, che
è in grado di autoregolarsi ed evolve per mezzo di scambi.
Daniel N. Stern: il modello della costruzione continua
Stern ha costruito la sua teoria dello sviluppo non partendo dai dati ricavati dall’analisi, ma da
nuove tecniche psicologiche, con l’obiettivo di unire il “bambino clinico” della Psicoanalisi al
“bambino osservato” della Psicologia dell’età evolutiva: il primo, infatti, permette di attribuire una
vita soggettiva al secondo, il quale consente di inferire delle teorie sulla vita soggettiva del bambino
clinico. L’obiettivo era verificare le ipotesi psicoanalitiche con l’osservazione. Egli ha descritto lo
sviluppo non come un susseguirsi di fasi ma nella continua interazione madre-bambino, da cui
deriva l’impossibilità di scindere i processi interni di autoregolazione ed auto-organizzazione da
quelli interattivi. Il bambino è considerato capace di differenziarsi dall’altro fin dalla nascita,
predisposto alla vita sociale ed alla modifica dell’ambiente. Stern ha rifiutato sia il narcisismo
primario freudiano sia la fase autistica normale di Mahler, oltre che, in generale, il modello di
sviluppo di causalità lineare, a cui ha contrapposto, rifacendosi alla teoria dei sistemi, due principi
fondamentali: a) circolarità ogni elemento è influenzato ed influenza tutti gli altri elementi del
sistema; b) equifinalità il sistema ha una tendenza innata all’auto-organizzazione, oltre che a
correggersi per ripristinare il percorso evolutivo. Non ha, però, rinunciato alle spiegazioni
psicoanalitiche classiche della psicopatologia, sebbene non abbia relegato l’evento traumatico
patogeno esclusivamente all’infanzia. Per l’elaborazione del suo modello si è rifatto all’Infant
research ed ha sostituito alla “matrice fusionale”, da cui il bambino si differenzia col tempo, una
“matrice intersoggettiva”, caratterizzata da un dialogo continuo che è co-creazione della vita
mentale: due menti, quindi, creano un’intersoggettività, la quale opera su di esse; in questa
prospettiva, il focus si sposta dall’intrapsichico all’intersoggettivo. Le ricerche in ambito
neurobiologico, con scoperte come quella dei neuroni a specchio da parte dell’équipe di Rizzolatti,
hanno dimostrato la possibilità di entrare in intersoggettività col prossimo. In particolare, i neuroni a
specchio consentono di imitare l’altro, sia relativamente ai gesti che per quel che riguarda le
emozioni, il che permette un’esperienza del come se si fosse l’altro; questo fa sì che sia possibile
comprenderne le intenzioni ed i sentimenti. Stern, inoltre, ha ulteriormente supportato l’esistenza di
una matrice intersoggettiva introducendo il concetto di “oscillatori adattivi”, delle sorte di orologi
corporei che permettono di coordinare il proprio movimento con quello dell’altro con il quale si stia
mettendo in atto un’azione (per esempio, prendere un bicchiere che l’altro offre). Un movimento
sincronico con quello di un’altra persona è indicativo della partecipazione ai suoi vissuti e questo
fenomeno è osservabile anche nei bambini molto piccoli che, pur non avendo ancora una
consapevolezza corporea reale, sanno imitare le espressioni degli adulti: essi sono in grado di
tradurre l’informazione da una modalità sensoriale ad un’altra attraverso la percezione amodale, che
è una capacità innata che consente di captare la valenza di uno stimolo indipendentemente dal
canale sensoriale che lo riceve e, quindi, di riprodurlo in modo diverso. Un’intersoggettività
completa, però, è presente solo quando è bidirezionale, ovvero non ci si limita a conoscere
l’esperienza altrui, ma si dispone, anche, di una conoscenza dell’esperienza che l’altro sta facendo
di quel che si sta sperimentando di lui. A questo punto, il bambino non solo sa che la madre ha
capito il suo comportamento, ma anche che conosce il vissuto emotivo che ne è stato alla base: il
loro dialogo non si fonda più sul comportamento manifesto, ma sull’esperienza soggettiva. La
sintonizzazione degli affetti è proprio un’imitazione transmodale che permette la condivisione degli
stati affettivi e che si differenzia da quella dei comportamenti manifesti, perché non è un’imitazione
fedele (ovvero, che avviene secondo la stessa modalità). Stern, quindi, ha posto l’intersoggettività
come una condizione di umanità, alla stregua della sessualità e dell’attaccamento, ove questi tre
sono tutti sistemi motivazionali. La tendenza all’intersoggettività del bambino deriva dal desiderio
di condividere la propria soggettività e si ripropone nelle amicizie e nella situazione analitica. 66
I sensi del Sé
Stern ha descritto la formazione e lo sviluppo del senso di Sé e dell’Altro, descrivendo la genesi del
Sé attraverso i sensi del Sé:
1. senso del Sé emergente si sviluppa grazie alle capacità interpersonali innate del bambino,
il quale non è ancora in grado di integrare le sue esperienze, ma questo non gli impedisce di
avere un primo senso di Sé, dal momento che l’esperienza riguarda anche il percorso verso
l’integrazione delle linee evolutive, durante il quale emerge, gradualmente,
un’organizzazione. Il Sé emergente permette di organizzare gli elementi dell’esperienza
sensoriale amodale (comprendente, anche, la percezione fisiognomica) e di creare delle
configurazioni di Sé e dell’Altro che siano stabili ed alla cui formazione concorre, pure, la
percezione degli affetti vitali. Questi ultimi sono i modi di sentire che si associano ai
processi vitali che influenzano continuamente l’organismo, come la respirazione etc;
2. senso del Sé nucleare a circa 2-3 mesi, il bambino percepisce gli altri come separati e
controlla i propri comportamenti nell’interazione con loro. Il Sé nucleare si forma tra i 2 ed i
7 mesi e permette la comparsa di nuovi campi di relazione, ovvero di nuovi modi di fare
esperienza di sé e dell’altro. Il bambino organizza il proprio mondo identificando le costanti
relative del Sé e dell’altro, ognuna delle quali si riferisce ad esperienze specifiche (attività,
coesione, affettività e continuità) e che sono:
- Sé agente è dato dalla sensazione di avere una volontà, la quale fa sì che le azioni
vengano percepite come proprie e volute;
- Sé dotato di coesione deriva dal sentirsi fisicamente integri e limitati. Si basa
sull’acquisizione dei seguenti elementi: a) unità di luogo, cioè sapere di occupare un
certo spazio rispetto agli altri; b) coesione del movimento, ovvero percepire i
movimenti delle diversi parti del corpo come provenienti da una stessa unità; c)
struttura temporale, sempre inerente i movimenti corporei; d) struttura d’intensità,
che fa riferimento al fatto che l’intensità che connota determinati comportamenti è
proporzionale al vissuto soggettivo (per esempio, l’intensità del pianto a quella
dell’angoscia); e) coesione della forma, ossia la stabilità della forma del volto
dell’altro, riconosciuto anche se assume delle espressioni diverse. Queste proprietà
sono costanti e fan sì che il bambino si riconosca come coeso e distinto dall’altro;
- Sé affettivo è la capacità di sperimentare stati intimi manifestati con espressioni
del viso;
- Sé storico riguarda la percezione della propria continuità nel tempo a livello di
esperienza delle altre costanti del Sé nucleare, appunto quelle motoria, percettiva ed
affettiva.
La memoria, quindi, è ciò che consente l’integrazione delle costanti del Sé nucleare,
soprattutto quella episodica, che include tutti gli attributi (pensieri, atti, sensazioni etc.)
di un determinato episodio, ponendoli tra loro in rapporto temporale o causale. Le
esperienze vissute formano unità episodiche memorizzate ed episodi tra loro simili che si
ripetono costituiscono uno schema di episodio generalizzato, ovvero una
rappresentazione astratta di ciò che può accadere in una determinata situazione. Il
bambino, perciò, riesce già ad associare tra loro esperienze simili per crearsi dei
prototipi, che derivano dalle interazioni e sono schemi di “essere con”, atti a descrivere
le modalità di essere in relazione con qualcuno;
3. senso del Sé soggettivo tra i 7 ed i 9 mesi, il bambino scopre l’esistenza del contenuto
mentale dell’altro e capisce che può essere diverso dal suo e condiviso. Attraverso la
condivisione dei contenuti mentali si arriva all’intersoggettività propriamente detta. Di
conseguenza, mentre nel campo di relazione nucleare l’azione interpersonale aveva a che
fare con comportamenti e sensazioni, ora, nel campo di relazione intersoggettiva, assumono
importanza anche gli stati soggettivi. Il bambino non manifesta più la sua empatia solo per
mezzo di intimità fisica, ma ricorre all’intimità psichica. In particolare, alcune forme di
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compartecipazione sono caratteristiche della relazione intersoggettiva, quali il pointing
dichiarativo, l’attenzione condivisa ed il social referencing (osservabile negli esperimenti di
precipizio visivo). Ciò che ha luogo è l’interaffettività, che consiste nella compartecipazione
degli stati affettivi e richiede la capacità, da parte della madre, di comprendere i sentimenti
manifestati del bambino e restituirglieli in modo transmodale e non più per imitazione
(come avveniva per i comportamenti) e, da parte del piccolo, di ritrovare nella risposta
materna la sua stessa qualità affettiva: questa è la sintonizzazione degli affetti, in cui le
modalità espressive utilizzate da madre e bambino sono diverse, ma non variano la durata e
l’intensità di ciò che comunicano. L’intercambiabilità tipica della sintonizzazione affettiva è
permessa dal fatto che le diverse forme percettive abbiano in comune delle proprietà
amodali e che, quindi, sia possibile tradurre da una modalità sensoriale all’altra (per
esempio, se il bambino muove il braccio con il giocattolo, la madre muove la testa). La
sintonizzazione non ha luogo solo con le categorie affettive tradizionali (gioia e tristezza),
bensì anche con gli affetti vitali, caratterizzati da aumenti e cali dell’eccitazione, che
corrispondono a qualità amodali di tempo ed intensità: questo significa che ciò che viene
percepito come tempo, forma ed intensità (per esempio di un comportamento messo in atto
dal bambino) è tradotto, in modo transmodale, in un affetto vitale, che viene, in questo modo
trasmesso. Stern ha spiegato il trasferimento dei sentimenti da una persona all’altra in una
chiave evolutiva, sebbene ciò ponga nuovi quesiti inerenti, per esempio, la natura del primo
trasferimento e del sentimento con esso condiviso;
4. senso del Sé verbale tra i 15 ed i 18 mesi, il bambino appare in grado di:
- riconoscersi allo specchio denota una riflessione sul Sé come oggetto e consente
un’autocategorizzazione di genere;
- usare gli oggetti in modo simbolico mentre gioca permette di elaborare
l’esperienza reale con l’immaginazione;
- comunicare con il linguaggio le sue esperienze soggettive rende possibile la
creazione di nuovi modi di essere con.
In particolare, l’acquisizione del linguaggio influisce sul rapporto madre-bambino,
determinando una nuova comunione mentale che avrà luogo anche con altre persone con
stessa lingua e cultura. Il linguaggio permette al bambino di narrare la sua vita e si pone
come mediatore tra la vita vissuta e quella narrata. L’esperienza reale, però, può essere
raccontata solo in parte con il linguaggio verbale e, quindi, si crea una scissione tra ciò che è
esperienza immediata e ciò che ha luogo nella relazione verbale, ovvero che viene mediato
dal linguaggio: ne deriva l’esistenza sia di un complesso di esperienza non verbale sia di un
complesso di esperienza governata dal linguaggio, che non sono tra loro coincidenti, dal
momento che il linguaggio consente, solo, un’esperienza sensoriale e non una percezione
amodale;
5. senso del Sé narrativo intorno ai 3-4 anni, il bambino sa narrare la sua storia ed i
precedenti sensi del Sé non confluiscono in quello narrativo ma continuano ad agire in modo
separato seppur interdipendente. Il senso del Sé narrativo è importante, perché è quello su
cui si fa leva nella situazione analitica.
Secondo Stern, descrivere lo sviluppo sulla base dei diversi sensi del Sé permette di trasformare i
problemi di psicopatologia non in fasi evolutive, bensì in linee di sviluppo.
Il modello di sviluppo
La ricerca infantile ha descritto il bambino come impegnato nella ricerca di stimoli fin dalla nascita,
sia sul piano sensomotorio che a livello cognitivo, il che significa che egli mette in relazione stimoli
simili e si crea degli schemi interni circa il mondo esterno. Lo sviluppo viene considerato una
sequenza di cambiamenti biocomportamentali, in cui ogni livello evolutivo vede la comparsa di
nuove capacita derivanti da una riorganizzazione degli assetti biologico, affettivo e sociale e
costituisce, anche, un momento critico in cui può aver luogo un cambiamento dal punto di vista
interattivo. Stern ha proposto il modello di costruzione continua dello sviluppo, in cui lo sviluppo
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viene descritto in un’ottica relazionale (non più stadiale, in cui ogni fase ingloba le acquisizioni
della precedente) e non sono più possibili né regressioni né fissazioni, dal momento che i problemi
possono insorgere in tutti i punti dello sviluppo e le cause della psicopatologie sono le discontinuità
evolutive. Ha fatto riferimento alla developmental psychopathology, considerando i disturbi
relazionali ed i problemi che insorgono nell’interazione come responsabili della patologia e non più
un evento traumatico. Ne consegue che la relazione madre-bambino diventi particolarmente
importante, in quanto si struttura come prototipo per gli scambi interazionali futuri, dal momento
che è nelle interazioni precoci che il bambino definisce il Sé e l’Altro sulla base di elementi costanti
che sono le isole di coerenza: queste vengono integrate a formare delle rappresentazioni e derivano
da un momento interattivo vissuto nel presente che è il momento V. Tale momento viene trascritto
nella memoria e crea un ricordo, che è il momento M: dall’unione di più momenti M tra loro simili
si genera una rappresentazione, ovvero un momento R. Sequenze di momenti V creano scenari V,
che possono diventare ricordi di momenti specifici, vale a dire scenari M. Più scenari M formano
una rappresentazione che è lo scenario R, ovvero il prototipo. Momento R e scenario R
corrispondono, per Stern, alle rappresentazioni di un’esperienza interattiva generalizzata (RIG). In
breve, il bambino mette in atto una progressiva categorizzazione dell’esperienza, creando degli
schemi che soddisfino il bisogno di coerenza del Sé: quando la coerenza del senso di Sé e dell’altro
manca, infatti, è compromessa la continuità evolutiva e c’è il rischio di una psicopatologia.
La patologia
Madre e bambino concorrono nel determinare il reciproco adattamento: sono, però, possibili delle
situazioni che eccedono le capacità adattive del bambino, così come altre che sono, al contrario,
troppo carenti dal punto di vista interattivo; se tali modalità si ripetono, può crearsi una patologia.
Stern non si è focalizzato sul mondo fantasmatico, ma sull’effettiva interazione madre-bambino,
attribuendo ad ambo i partner un ruolo interattivo fondamentale e postulando la formazione, a
partire dai loro scambi interattivi, di schemi di essere con, da cui può derivare, talora, una
psicopatologia. Ha esaminato gli schemi che possono formarsi nel caso di depressione materna,
descrivendone quattro:
- a fronte di microdepressioni materne, il bambino cerca di stimolare la madre e, se fallisce, le
si identifica in un estremo tentativo di essere con lei, sviluppando, così, microdepressione a
sua volta, ovvero un ritardo psicomotorio;
- se le stimolazioni del bambino nei confronti della madre vanno temporaneamente in porto, il
bambino persiste nel suo comportamento, in quanto rinforzato. Ne deriva la strutturazione di
una modalità relazionale di tipo consolatorio;
- in caso di ripetuti fallimenti nel tentativo di stimolare la madre, il bambino può rivolgere il
proprio interesse altrove per appagare il suo bisogno di interazione, il che significa che resta
visivamente a contatto con la madre ma cerca forme di autoattivazione all’infuori di lei. Si
sviluppa, quindi, un modo di essere con la madre senza interagirvi ed il bambino diventa un
“ricercatore di stimoli”;
- se la madre si sforza di rispondere alle sollecitazioni del bambino senza manifestare un vero
coinvolgimento, anche l’interazione diventa fasulla ed il bambino sviluppa un falso Sé.
Questi quattro modi di essere con sono solo alcuni di quelli possibili e non sono dei meccanismi di
difesa, bensì delle esperienze soggettive che possono condurre alla formazione di schemi di
relazione patogeni. In particolare, la psicopatologia ha ai due estremi:
- le nevrosi attuali, derivanti da un evento traumatico in particolare, che si connota come
evento isolato,
- le patologie conseguenze di una lunga serie di traumi, i quali sono diventati parte del
“quotidiano”.
La coscienza intersoggettiva
La coscienza implicita è non simbolica, non verbale, procedurale ed inconscia ed è quella in cui il
bambino accumula tutte le sue conoscenze prima di imparare a parlare. Secondo Stern, questa
conoscenza non diventa esplicita come conseguenza dello sviluppo linguistico, ma le due
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dimensioni sono distinte, in interdipendenza ed evolvono in modo parallelo. Inoltre, l’autore
riteneva che la conoscenza implicita non facesse riferimento solo alla comunicazione non verbale
ed alle sensazioni corporee, ma anche agli affetti e, pure, al linguaggio verbale, dato che può
comunicare messaggi impliciti (“tra le righe”). La conoscenza implicita non è né più primitiva
(sebbene cronologicamente precedente) né più limitata di quella esplicita ed è sede di quelle
conoscenze che vengono utilizzate nell’interazione. Si tratta di una conoscenza non conscia ed a
questo proposito Stern ha distinto ciò che è inconscio (ovvero il materiale rimosso, con un
riferimento all’inconscio dinamico) da ciò che è non conscio (cioè il materiale implicito).
In ambito analitico, ha individuato due livelli di lavoro, che ha chiamato “agende”:
- agenda esplicita si riferisce a quella conoscenza che viene espressa attraverso il canale
verbale, cioè alla narrazione a cui paziente ed analista cercano di dare un significato;
fa
- agenda implicita riferimento agli elementi non consci della relazione terapeutica, come
il transfert ed il controtransfert e la co-creazione del rapporto paziente-analista.
Ha poi distinto la consapevolezza dalla coscienza, definendo la prima (awareness) la focalizzazione
dell’attenzione su un momento di esperienza e la seconda (consciousness) il processo che rende la
persona consapevole della propria consapevolezza. Un momento presente esperito implicitamente
diventa conscio per mezzo della coscienza intersoggettiva, la quale fa riferimento a quando, nel qui
ed ora, l’esperienza soggettiva di un individuo attiva nell’altro un’esperienza simile, creando una
condivisione intersoggettiva. L’autore non ha associato la trasformazione dell’esperienza in
coscienza ad alcuna struttura cerebrale, dal momento che ha definito la coscienza intersoggettiva un
fenomeno socialmente costruito, proprio come il linguaggio (Vygotskij) ed il significato (Bruner).
In ambito clinico, ha distinto tre tipi di coscienza:
- fenomenica riguarda le esperienze del qui ed ora che svaniscono subitaneamente ed è una
coscienza percettiva;
- introspettiva ha a che fare con quelle esperienze che diventano oggetto di riflessione ed è
una coscienza verbale;
- intersoggettiva riguarda i momenti presenti ed importanti ed è di natura sociale.
Nel contesto analitico, le coscienze di paziente e terapeuta si sovrappongono e, quindi, la coscienza
intersoggettiva, anche in quanto passibile di verbalizzazione e memorizzazione, è il nodo della
psicoterapia.
Conclusioni
La teoria di Stern si basa sul senso di Sé e dell’altro ed attribuisce una notevole importanza
all’esperienza sociale per quel che riguarda la creazione di rappresentazioni di interazioni
generalizzate. Il bambino viene descritto come attivo nella formazione identitaria, in quanto
impegnato in una ricerca di stimoli attraverso l’interazione con la madre, dalla quale dipende la
qualità dello sviluppo. Proprio in ragione di queste sue peculiarità, il pensiero dell’autore appare
molto discostato dalla Psicoanalisi classica.
I SISTEMI MOTIVAZIONALI
Joseph D. Lichtenberg
Formatosi presso la scuola di Kohut, Lichtenberg ha attinto, per la formulazione della sua teoria
psicoanalitica della motivazione, alla Psicologia del Sé, all’infant research ed alla Psicoanalisi
relazionale.
I sistemi motivazionali
Obiettivo ubiquitario della Psicoanalisi è quello di spiegare le motivazioni sottese alla condotta
umana. Si è assistito, in questo senso, ad un graduale passaggio dalle pulsioni, intese come
motivazione centrale del comportamento, all’affermarsi del primato della relazione, considerata
ancora più importante alla luce di quella che è stata reputata una vocazione innata del neonato nei
confronti della socialità. Una lacuna è però rimasta circa cosa regoli la relazione madre-bambino,
ognuno portatore di proprie peculiarità: è questa lacuna che Lichtenberg ha cercato di colmare con
la sua teoria della motivazione. Egli ha riconosciuto come forze motivazionali la regolazione del Sé,
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l’adattamento sociale, il monitoraggio affettivo e l’attaccamento, ma le ha poste in relazione con
bisogni biofisiologici, attorno ai quali ha costruito un modello formato da più sistemi motivazionali
tra loro in relazione. Ogni sistema può diventare preponderante in particolari momenti di vita, ma
ciò non toglie che anche gli altri restino attivi. La motivazione è costituita da più sistemi volti a
garantire la soddisfazione dei bisogni di base. I sistemi motivazionali hanno una base
neurobiologica che consente la sopravvivenza, la quale è il bisogno ultimo della gerarchia. Subito
dopo vi sono gli schemi elementari appresi, portatori di intenzioni e programmi che diventano via
via più complessi, mentre, ad un livello ancora più alto, ci sono i desideri per come sono intesi dalla
Psicoanalisi, ovvero come rappresentazioni in chiave simbolica di aspirazioni, ideali ed obiettivi.
Questi tre livelli (esigenze di base, intenzioni/programmazione e desideri) restano attivi per tutta la
vita.
I cinque sistemi identificati da Lichtenberg sono:
1) sistema motivazionale basato sulla regolazione psichica delle esigenze fisiologiche il
bambino piccolo attraversa una serie di stati (sonno, vigilanza, calma, assopimento,
irritazione, pianto) ed induce il caregiver a soddisfare le sue necessità. La madre, dal canto
suo, può intervenire su alcuni dei suoi ritmi e modificarli. Quando i due entrano in relazione
in modo sintonico, vivono un’esperienza comune che rende più agevole, per il bambino, il
passaggio da uno stato all’altro e che fa sì che egli sperimenti un senso di coerenza ed affetti
positivi. Un’altra funzione importante svolta dalla madre, consiste nell’aiutarlo a riconoscere
i bisogni che manifesta, favorendo l’organizzazione del Sé. Gradualmente, il piccolo
sperimenta un senso di fiducia che lo rende più propenso ad adattarsi, ovvero ad attendere la
gratificazione del bisogno ed a modificare alcune delle sue risposte comportamentali. La
madre agevola, così, la fiducia nella regolazione tra il Sé e l’altro e coadiuva il Sé nella sua
differenziazione, dopo l’avvenuto riconoscimento e distinzione del senso di fame e di quello
di sazietà;
2) sistema motivazionale di attaccamento-affiliazione per quanto riguarda il sistema
motivazionale di attaccamento, Lichtenberg considerava questo ultimo come uno scambio
interattivo, in cui sia la madre sia il bambino fanno delle richieste e si rispondono
vicendevolmente. Non ha fatto riferimento ad un comportamento istintivo, bensì ad una
reciproca regolazione ed ha anteposto il piacere che si ricava dall’intimità tipica
dell’attaccamento al bisogno di garantirsi la sopravvivenza. Nell’attaccamento sono
riscontrabili una serie di attività che manifestano delle esperienze soggettive: a) attività di
sintonizzazione il bambino comprende che i suoi stati emotivi vengono accolti e
compresi dall’altro, che si occupa anche di darvi una risposta; b) attività di allontanamento-
riunione a seconda di quelle che pensa essere le intenzioni della madre, il bambino
reagisce in modo diverso al momento della separazione da lei e, poi, del suo ritorno. Può,
quindi piangere all’allontanamento ed essere contento alla riunione, mostrarsi indifferente
all’allontanamento ed evitante alla riunione od esplicitare disagio all’allontanamento ed
essere ambivalente alla riunione; c) attività di riferimento sociale il bambino cerca
nell’espressione del volto della madre una rassicurazione a fronte di un oggetto estraneo od
informazioni circa situazioni ambigue; d) attività di gioco con gli oggetti transizionali si
tratta di oggetti che funzionano come surrogati della figura materna e su cui il bambino
trasferisce il comportamento di attaccamento.
Il sistema motivazionale di affiliazione deriva da quello di attaccamento e si caratterizza per
la ricerca, da parte dell’individuo, di gruppi a cui potersi affiliare per vivere un’esperienza
condivisa o sostenere un’idea o progetto comuni, il tutto senza abbandonare le vecchie
relazioni di attaccamento. Mentre Freud era sospettoso nei confronti dei gruppi, dal
momento che aveva riscontrato la tendenza dei loro membri a considerare il proprio gruppo
di appartenenza migliore degli altri che venivano, in questo modo, svalutati, Lichtenberg
credeva che l’ostilità non fosse l’elemento sotteso all’affiliazione, sebbene non ne negasse la
presenza. La motivazione fondamentale dell’affiliazione è, per l’autore, la stessa
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dell’attaccamento, ovvero il piacere che si ottiene dalla condivisione, che diventa sempre
maggiore con la scoperta di nuovi modi di “essere con”; la differenza tra i due tipi di
relazione, pertanto, risiede nelle entità coinvolte. L’affiliazione permette la gratificazione di
due bisogni: quello di approvazione, che distingue il singolo dagli altri, e quello di
trasgressione, che permette di non essere riconoscibili all’interno della massa. Il gruppo,
infine, diventa un riferimento sociale per confrontarsi con qualcosa di nuovo o sconosciuto;
3) sistema motivazionale esplorativo-assertivo ruota attorno al piacere che il bambino prova
quando scopre di poter determinare dei cambiamenti nell’ambiente. Tale scoperta avviene in
quello spazio che Winnicott ha definito “capacità di essere soli alla presenza dell’altro” e fa
sì che il bambino sviluppi un senso di abilità. Egli cerca di ricreare tutte quelle esperienze
che ha sperimentato e sperimenta tutt’ora come gratificazioni di bisogni, ovvero la sazietà,
l’intimità ed il piacere di riprodurre determinati stimoli, come rispettive conseguenze della
fame, del bisogno di attaccamento e dell’esplorazione: questo gli permette, da un lato, di
rivivere la condizione desiderata e, dall’altro, di percepire una sensazione di successo, di
competenza. Anche nel gioco si ritrovano gli elementi tipici di questo sistema
motivazionale, dal momento che, giocando, il bambino si relaziona con l’ambiente,
esperisce la sua capacità di agirvi provocandovi un mutamento e percepisce efficacia;
4) sistema motivazionale avversivo Lichtenberg non credeva in una sorta di aggressività
innata e tipica dell’essere umano, ma riteneva che essa fosse sempre causata da un dolore od
un disagio e che fosse direttamente proporzionale all’intensità di esso. Il sistema assertivo,
dunque, si attiva nel momento di esplorazione, mentre quello avversivo (che l’autore non ha
voluto definire “aggressivo”, perché tale aggettivo rimanda ad un’idea di distruttività) è
legato alle situazioni percepite come minacciose o che provocano disagio. Il sistema
avversivo si sviluppa solo quando la madre sospende temporaneamente la sintonizzazione
empatica con il figlio e comprende due modelli che sono innati, ovvero l’antagonismo ed il
ritiro: il primo si manifesta, nel neonato, mediante il pianto, la rabbia ed il disgusto, mentre
il secondo si estrinseca sotto forma di paura e vergogna. Le risposte avversive sono utili al
bambino per comunicare il suo disagio ed il sistema avversivo ha anche la funzione di
permettergli di apprendere quando sia il caso di fronteggiare l’altro e quando no. Si tratta di
un sistema che è connesso a stati emotivi che, contrariamente a quelli dei sistemi precedenti,
non sono piacevoli, sebbene utili per lo sviluppo e, di conseguenza, l’individuo non cerca di
riattivarli in seguito;
5) sistema motivazionale sensuale-sessuale il piacere sensuale fa riferimento a tutte le
sensazioni piacevoli che la madre provoca al bambino toccandolo per la cura o per
esprimere il suo affetto, oltre a quelle che il bambino crea in modo autonomo cercando di
consolarsi quando frustrato (per esempio, la suzione del pollice). Questo tipo di piacere può
determinare una condizione di rilassamento, così come eccitazione, sfociando in un piacere
sessuale. Mentre il piacere sensuale è presente durante tutto l’arco di vita, l’eccitazione
sessuale è “periodica ed episodica”. La motivazione sensuale può essere considerata
consolidata quando il bambino cerca di ottenere il piacere sensuale tanto dalla figura di
accudimento quanto da se stesso. E’ intorno all’anno che egli inizia le sue pratiche di
manipolazione genitale che, come tutti i comportamenti esplorativi, non mira
all’eccitazione, ma alla creazione di un rapporto con il proprio corpo. La finalità erotica
insorge a circa 2 anni, quando l’autostimolazione diventa masturbazione eccitatoria. Per
quanto riguarda l’identità di genere, viene costruita dai genitori, che rinforzano quei
comportamenti che sono socialmente accettabili e compatibili con il sesso biologico del
figlio: in questo modo, ad un anno il bambino presenta già caratteristiche maschili/femminili
ben definite ed a 3 anni ha appreso i comportamenti legati al ruolo di genere; identità e ruolo
di genere possono, però, essere compromessi se il sesso biologico del bambino non
corrisponde alle aspettative genitoriali. A proposito della scelta dell’oggetto sessuale, dal
momento che il bambino è a contatto con una molteplicità di persone, non si può dare per
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scontato che la madre costituisca, necessariamente, la figura con cui sperimenta il piacere
sensuale e l’eccitazione sessuale ai massimi livelli.
Lo sviluppo
Al centro dello sviluppo umano vi sono i sistemi motivazionali (ognuno dei quali si sviluppa come
conseguenza di uno specifico bisogno) ed il Sé, il quale si occupa di organizzare ed integrare la
conoscenza e la motivazione, consentendo di attribuire unità e continuità all’esperienza. I cinque
sistemi motivazionali si alternano tra loro e determinano delle motivazioni che agiscono su pensieri,
sentimenti e condotte dell’individuo e questi tre aspetti dipendono, anche, dalle necessità proprie
dei diversi periodi di vita. Obiettivi e desideri sono invece organizzati in modo gerarchico sulla base
di decisioni che possono essere o meno consce. Tutti i sistemi motivazionali sono, poi, il prodotto di
una base neurobiologica, secondo una gerarchia che, dal più basso al più altro, comprende i seguenti
livelli, presenti per tutta la vita:
- modelli di percezione-affetto-azione ;
- intenzionalità e pianificazione ;
- rappresentazioni simboliche di progetti ed ideali .
A seconda della fase evolutiva, un sistema può prevalere sugli altri ed influenzarli: tutti i sistemi si
alternano tra loro, passando da fasi di dominanza a momenti di quiescenza.
Scene modello
La soddisfazione dei bisogni che afferiscono ai cinque sistemi permette la formazione di un senso di
coesione del Sé stabile, mentre una figura di accudimento incapace nell’andare incontro alle
esigenze del bambino non permette la soddisfazione dei bisogni dei sistemi e può condurre a delle
conseguenze negative a carico di un determinato sistema che, essendo questo in relazione con gli
altri, si diffondono a tutto l’assetto motivazionale.
Lichtenberg ha introdotto il concetto di scene modello per far riferimento ad una riattualizzazione in
sede analitica di esperienze infantili del paziente che possono essere state normali o patologiche, la
quale consente di ottenere delle informazioni circa l’essenza delle motivazioni e delle relazioni del
paziente stesso (adulto). Quelle che vengono riportate non sono sempre esperienze reali, dal
momento che possono essere influenzate da episodi antecedenti o successivi, oltre che
dall’immaginazione dell’analizzante. La nozione di scene modello richiama quelle di “copertura” di
Freud e di “sovrapposizione” di Kohut.
I ricordi di copertura sono delle creazioni del paziente finalizzate ad impedire l’accesso a qualcosa
che provocherebbe disagio: in questo senso, si distinguono dalle scene modello, che sono il risultato
del lavoro condotto da paziente e terapeuta e consistono in rappresentazioni che ricorrono e
raffigurano delle esperienze ignote.
La sovrapposizione ha luogo quando ricordi antichi e recenti vengono tra loro sovrapposti, in modo
tale da consentire un nuova espressione di un trauma originario. Le scene modello, invece, non si
limitano ad una funzione ricostruttiva, ma creano dei nessi causali tra le esperienze tra loro simili
che vengono richiamate e che possono aver avuto luogo in diversi periodi di vita.
Il lavoro sulle scene modello consente di capire come si possa accedere all’inconscio del paziente.
I valori
Secondo Lichtenberg, i valori e la morale non sono tra loro separati, ma si ritrovano in ciascun
sistema motivazionale, in cui sono percepiti in modo diverso. In una stessa persona, così come tra
persone diverse, la violazione dei codici etici può determinare reazioni differenti, quali colpa, paura,
imbarazzo, vergogna o punizione.
I bambini cominciano a manifestare molto presto una certa attenzione di fronte al disagio dell’altro
(intorno ai 18 mesi) e si sentono responsabili. Apprendono i valori fondamentalmente dalle madri,
che insegnano loro quali comportamenti siano approvati e quali no, permettendo di distinguere ciò
che è buono da ciò che è cattivo.
Il sistema motivazionale avversivo è molto importante nella formazione dei valori, relativamente a
alle seguenti tappe: 73
- il bambino sviluppa un senso di fiducia quando vede soddisfatti i suoi bisogni dopo aver
espresso disagio;
- impara che esprimere rabbia in presenza di un ostacolo può rafforzare la sua assertività;
- i genitori pongono limiti e divieti, sollecitando le risposte assertive del bambino;
- il bambino impara che la proibizione (“No!”) è importante, dal momento che gli permette di
evitare la disapprovazione ed il pericolo. Capisce che ci sono dei limiti che vanno rispettati
ed apprende il valore della riconciliazione e del perdono, grazie al fatto che i suoi genitori lo
riaccolgono anche dopo che ha disobbedito.
IL MOVIMENTO RELAZIONALE
Il movimento relazionale si inserisce nel pensiero americano, caratterizzato da una considerazione
dell’essere umano come profondamente vincolato al contesto socio-culturale. Mentre il modello
pulsionale ha enfatizzato il ruolo del conflitto, prima tra pulsioni e difese e poi tra strutture
psichiche, e mentre il modello dell’arresto evolutivo si è focalizzato sui bisogni evolutivi del
bambino e sulle condizioni ambientali con cui si incontrano, il modello del conflitto relazionale
pone il conflitto nell’ambito delle interazioni. La relazione con gli altri, sia facenti parte della realtà
che presenti nel mondo interno, diventa così la base della vita psichica. Dall’incontro tra la
Psicoanalisi inglese delle relazioni oggettuali e la teoria interpersonale, nasce la svolta relazionale,
che porta un grande apporto innovativo soprattutto per quel che riguarda il modo di guardare
all’analisi.
Stephen A. Mitchell: la Psicoanalisi relazionale
Freud ha fondato le relazioni interpersonali sulle pulsioni, che sono necessariamente correlate ad un
oggetto: l’oggetto sessuale è fonte dell’attrazione, mentre la meta sessuale è associata alla scarica
pulsionale. La prospettiva relazionale ha spodestato le pulsioni dal loro ruolo centrale, considerando
il bisogno di relazioni la motivazione primaria sottesa al comportamento umano, oltre che punto di
partenza da cui si forma la mente. Mitchell si è posto come obiettivo quello di cercare le aree di
sovrapposizione dei diversi approcci psicoanalitici, al fine di organizzarli in un costrutto unitario da
un punto di vista relazionale. Egli, infatti, è colui che ha ispirato il modello relazionale o “relazione-
conflitto”.
Dalla pulsione alla relazione
Mitchell riteneva che il modello strutturale delle pulsioni ed il modello strutturale delle relazioni
fossero irriducibili l’uno all’altro. L’ultimo dei due considera la mente come diadica e non
monadica, ponendola in una situazione di interazione. Alla ricerca di un accordo tra i due punti di
vista, l’autore ha individuato le seguenti strategie di base a cui può essere ricondotta la storia
psicoanalitica:
- strategia dell’accomodamento ha rappresentato il tentativo di inserire le prime relazioni
d’oggetto nel modello pulsionale, senza spostare le pulsioni dalla loro posizione centrale di
motivazione primaria (Hartmann, Mahler, Jacobson);
- strategia dell’alternativa radicale la relazione è stata collocata alla base di ogni
motivazione (Sullivan, Fairbairn).
A queste, ha poi aggiunto quella a cui ha fatto ricorso il modello misto, che ha fatto sommato i
contribuiti dei due approcci.
Mitchell non ha cercato di unire il modello pulsionale con quello relazionale, bensì di trovarne i
punti di contatto.
Secondo la Psicoanalisi ortodossa, la mente ricerca un rapporto con l’ambiente allo scopo di
smorzare le tensioni interne e perseguire la gratificazione: attraverso queste relazioni, si ha la
creazione del mondo interno. La personalità si origina come prodotto delle interagenze tra
l’interazione con il mondo sociale e le modalità di adattamento adottate dall’individuo. La
prospettiva relazionale, invece, mette le relazioni al centro della vita mentale, in particolare quelle
primarie. Come precisato dall’autore, le differenze esistenti tra i due modelli non riflettono una
separazione tra biologia e cultura o tra corpo e contesto sociale, dal momento che ambo le
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prospettive teoriche tengono in considerazione tutti questi elementi. Lo scollamento sta in come
biologia-cultura e corpo-società vengono considerati in relazione tra loro: nel caso del modello
freudiano, le pulsioni hanno un ruolo preponderante, mentre nell’ottica relazionale fisiologia ed
interazione sociale si influenzano reciprocamente.
Per quel che concerne la psicopatologia:
- Psicoanalisi pulsionale la malattia si origina da una condizione conflittuale;
- teorie relazionali la malattia è una conseguenza della qualità delle prime relazioni.
Mitchell ha mantenuto una posizione intermedia preservando l’importanza del conflitto e, al tempo
stesso, continuando a ritenere importanti le prime esperienze relazionali del bambino. Ha
denominato le teorie afferenti al modello relazionale “modelli dell’arresto evolutivo”, dal momento
che si fondano sulla convinzione che un certo tipo di ambiente inadeguato possa bloccare lo
sviluppo. Ha proposto il “modello del conflitto relazionale”, in cui si ammette l’esistenza e la
rilevanza dei conflitti tra passioni, desideri e paure, ma il ruolo principale per quel che riguarda la
formazione della mente non spetta più alle pulsioni, bensì alle configurazioni relazionali.
La teoria pulsionale spiega l’insorgenza della psicopatologia con una fissazione ad una fase dello
sviluppo: più precoce è la fase, più gravi i sintomi della malattia mentale. Nel modello dell’arresto
evolutivo, invece, la patologia riflette le antiche carenze materne nella cura del figlio e lo sviluppo
sarebbe bloccato dai bisogni rimasti inappagati di questo ultimo. Secondo Mitchell, una
deprivazione di cure da parte della madre non può riguardare una sola fase evolutiva, così come la
psicopatologia non è il risultato di una fissazione: al contrario, sarebbe segno di quei processi di
adattamento che il bambino ha messo in atto per vivere all’interno di una relazione disturbata
proposta dalla figura materna. Di conseguenza, non è la precocità della fase ad influire sulla gravità
della malattia, bensì la rigidità delle strategie di adattamento messe in atto dal bambino.
Sia il modello pulsionale sia quello dell’arresto evolutivo, comunque, hanno attribuito una forte
connotazione causale ai primi anni di vita per quel che riguarda lo sviluppo della patologia; il
modello del conflitto relazionale, invece, sposta il conflitto tra le configurazioni relazionali, ovvero
i modelli relazionali interiorizzati, che possono esprimere bisogni e passioni tra loro incompatibili.
Quest’ultima visione non priva le prime esperienze della loro importanza, ma la giustifica alla luce
del fatto che contribuiscono a creare dei modelli relazionali che si organizzano su livelli sempre più
complessi nel corso dello sviluppo. La matrice relazionale (o “ideale mappa soggettiva delle
interazioni”), infatti, resta un’organizzazione fluida per tutta la vita.
Nel modello relazionale di Mitchell, l’analisi ha l’obiettivo di affrancare l’analizzante dalla matrice
relazionale in cui è intrappolato, proponendogli un’apertura verso nuove modalità di entrare in e di
vivere la relazione interpersonale ed evidenziando quelli che sono i modelli relazionali maladattivi.
Il narcisismo nelle letteratura psicoanalitica
Freud ha considerato causa della schizofrenia il narcisismo secondario, ovvero il ritiro libidico dalla
realtà e l’investimento di quella che prima era la libido oggettuale sull’Io. Si definisce narcisismo
“secondario” perché deriva dal narcisismo primario, ovvero una primitiva fase in cui il bambino
vive una condizione di armonia ed onnipotenza: a seguito di tale fase, parte della libido narcisistica
diventa libido oggettuale ed il resto può investire un oggetto sessuale, un oggetto idealizzato ed
amato in modo narcisistico o l’Io Ideale, dando luogo, in tutti i casi, ad una sopravvalutazione,
ovvero alle illusioni narcisistiche. Queste illusioni fanno sì che la persona metta in atto una chiusura
difensiva nei confronti della realtà che, se sfocia nella perdita totale di contatto con l’esterno, si
traduce in schizofrenia.
Kernberg ha differenziato il narcisismo normale, in cui si ha un investimento libidico del Sé, dal
narcisismo patologico, ove si assiste ad un’idealizzazione primitiva che determina vissuti di
grandezza ed onnipotenza. Il bambino tendente al narcisismo non si aspetta di poter ricevere
alcunché di buono dall’esterno, per cui attacca ciò che gli viene offerto e si crea un Sé grandioso,
che lo difende dalla paura provata per il mondo esterno, percepito come pericoloso. Il Sé grandioso
è indipendente da chiunque (per questo si sente forte) e nasce dalla fusione del Sé idealizzato con il
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Sé percepito. Anche in Sullivan, la grandiosità è finalizzata a celare l’inadeguatezza che la persona
prova nei contatti interpersonali.
Winnicott e Kohut, invece, hanno considerato il narcisismo infantile il nucleo del Sé e la sorgente
della creatività, elevando le illusioni narcisistiche a fonti di ispirazione e non più a caratteristiche
della psicosi schizofrenica. In particolare:
- Winnicott la madre sufficientemente buona è in grado di avvalorare le illusioni
narcisistiche del piccolo, facendogli esperire una condizione di onnipotenza soggettiva. Solo
col tempo, cessando di gratificare tutti i suoi bisogni, lo introduce al mondo reale e questo
passaggio dall’onnipotenza soggettiva alla realtà oggettiva è mediato dall’esperienza
transizionale, uno stato mentale in cui gli oggetti non vengono percepiti né come interni né
come esterni, poiché hanno caratteristiche di ambo le connotazioni. Se al bambino non viene
data la possibilità di vivere le sue illusioni narcisistiche, si va incontro allo sviluppo di un Sé
non sano. In analisi, quindi, il compito del terapeuta è proprio quello di guarire il Sé non
sano del paziente, andando a colmare le lacune dei suoi bisogni non soddisfatti e
consentendogli di ritrovare la sua creatività potenziale;
- Kohut ha identificato due tipi di transfert, ovvero quello speculare, in cui il paziente si
vive con grandiosità per andare contro al rischio di disintegrazione di Sé, e quello
idealizzante, nel quale è l’analista ad essere sopravvalutato. E’ attraverso queste illusioni
narcisistiche che l’analizzante cerca di costruire quelle relazioni oggettuali che non ha avuto
durante l’infanzia ed il terapeuta deve sapervi rispondere con “comprensione empatica”, per
facilitare la ripresa del Sé non sano.
Mitchell ha fornito un ulteriore punto di vista circa i fenomeni narcisistici e l’ha fatto spostando
l’attenzione dal contenuto della mente al carattere. Ha ripreso la filosofia di Nietzsche, che aveva
considerato la rinuncia alla vita raccomandata da Schopenhauer (ascetismo per sfuggire al dolore
esistenziale) il comportamento tipico della morale cristiana, ovvero lo spirito apollineo. Ad esso si
contrappone lo spirito dionisiaco, che vede un’accettazione della vita per quello che è ed una sua
esaltazione, la quale può condurre l’uomo a superare se stesso. L’equilibrio dell’apollineo e del
dionisiaco delinea il tragico, ovvero l’atteggiamento di colui che persevera nelle sue illusioni e vi
rinuncia quando viene posto di fronte alla caducità della sua esistenza, contemplandosi come se
fosse un’opera d’arte. Per cui, mentre l’apollineo soffre per via delle illusioni ed il dionisiaco non
ne ha, il tragico costruisce le proprie illusioni pur essendo consapevole della provvisorietà della
vita: in questo senso, illusione e realtà sono in un rapporto dialettico. Tornando a Mitchell, egli ha
paragonato il tragico di Nietzsche al narcisismo sano, che diventa patologico solo se le illusioni:
- vengono sopravvalutate dalla persona anche a scapito della realtà;
- sono occultate e questo fa sì che la realtà faccia perdere la gioia di vivere.
Secondo l’autore, è nella relazione del bambino con i genitori che si sviluppa un sano equilibrio
dialettico tra illusione e realtà, per cui spetta alle figure genitoriali alimentare il narcisismo del
figlio, attribuendogli degli aspettative ed accogliendo con gioia le sue illusioni narcisistiche.
Lo sviluppo
Stando all’Antropologia, il cervello umano è andato incontro ad un’evoluzione che ha permesso lo
sviluppo di specifiche funzioni cognitive, le quali hanno consentito la nascita della cultura e delle
interazioni sociali. Prospettive più recenti, però, non considerano la cultura un prodotto del cervello,
ma il contrario: in questo senso, si può ipotizzare l’esistenza di un campo internazionale, da cui
nasce la mente individuale. Per Mitchell, oggetto di studio diventano, in questo modo, non le menti
dei singoli ma le relazioni sociali, considerate fattori motivazionali di natura genetica alla pari con
le funzioni biologiche, dalle quali non sono determinate. La mente, perciò, deriva dalla matrice
relazionale, che è sia culturale sia linguistica ed è il luogo in cui la persona fa esperienza di sé.
Aggressività e sessualità, infine, non vengono considerate istinti, ma funzioni biologiche.
Per descrivere lo sviluppo, Mitchell ha individuato quattro forme di relazionalità, ad ognuna delle
quali corrisponde un certo tipo di funzionamento mentale. Sono pensate in ordine gerarchico e
corrispondono alle seguenti: 76
- modo 1 – comportamento non-riflessivo si riferisce a quello che le persone si fanno a
vicenda. Interazioni ripetute consentono la creazione di modelli, caratterizzati dal fatto che i
partner hanno entrambi l’uno una certa influenza sull’altro. Questi modelli non sono né
consci né inconsci, bensì non-consci, poiché, pur essendo al di fuori della consapevolezza,
possono essere conosciuti. Costituiscono quella che è stata definita dagli infant researchers
come un’organizzazione presimbolica o preriflessiva e corrispondono alla conoscenza
relazionale implicita;
- modo 2 – permeabilità affettiva consiste nella condivisione degli stati affettivi,
specialmente quelli molto intensi, come la rabbia, l’angoscia e l’euforia. Corrisponde a
quello che Sullivan ha chiamato “legame empatico” e vede una trasmissione del contenuto
affettivo dall’adulto al bambino, quasi per una sorta di contagio;
- modo 3 – configurazioni sé-altro le interazioni conducono alla formazione di
rappresentazioni del Sé in relazione con l’altro e viceversa, per cui si può asserire che la
formazione del Sé sia necessariamente associata a quella dell’altro, che a sua volta assume
importanza solo nel momento in cui viene investito dal Sé. Ogni individuo non dispone di
un singolo Sé unitario, ma di una pluralità di Sé tra loro organizzati;
- modo 4 – intersoggettività è solo a questo punto che si ha la percezione dell’altro come
entità a sé, come oggetto autonomo. Il Sé e l’altro vengono qui considerati dotati di
un’intenzionalità auto-riflessiva, ovvero di un proprio pensiero e di propri intenti, oltre che
come agenti impegnati in un’interazione.
In analisi, è utile comprendere quale sia il livello utilizzato dal paziente per esprimersi.
La sessualità
Freud ha descritto la nevrosi come un’intossicazione, dovuta ad un accumulo di energia non
adeguatamente scaricata. Con l’abbandono della teoria della seduzione, la nozione di impulso ha
rimpiazzato quella di trauma infantile e la sessualità si è configurata come la manifestazione della
pulsione sessuale, di cui la meta è il soddisfacimento. Il modello pulsionale identifica la sessualità
in quanto forza motivazionale, così come base per la psicopatologia. Accantonare questo modello fa
scemare l’importanza della sessualità, in particolare di quella infantile: le teorie relazionali non
considerano più la pulsione come la base dell’esperienza umana e vedono la sessualità in quanto
espressione della matrice relazionale. Mitchell ha addotto quattro motivazioni che giustificano
perché il sesso sia stato scelto come dominio dei conflitti e della malattia mentale:
- le prime esperienze infantili sono legate al corpo ed al suo funzionamento;
- la sessualità richiede “una compenetrazione di corpi e di bisogni”, per cui regola
l’esperienza relazionale per quel che riguarda l’intimità tra i partners e le loro condotte
reciproche;
- l’eccitazione sessuale non proviene dall’interno ma viene elicitata da stimoli esterni;
- la sessualità si connota come un “segreto”, una dimensione molto privata, il che fa sì che il
bambino, sentendosi escluso da quella dei genitori, finisca per fare lo stesso nei loro
confronti. La sessualità, quindi, diventa un nodo conflittuale tra l’isolamento e la relazione.
L’intimità sessuale si basa su fiducia e sincerità e questi presupposti la associano ad un
coinvolgimento emotivo. Il desiderio d’intimità, però, può provocare stati emotivi diversi, anche
negativi, ed il partner può essere vissuto come troppo potente e minaccioso, perché detiene il
controllo del piacere sessuale, che può dare o negare. Il nevrotico ossessivo può rispondere a questa
situazione caricando di valori positivi il proprio desiderio e decidendo di vivere l’esperienza come
se fosse innamorato dell’altro, finendo per coinvolgersi in attività sessuali fini a se stesse e senza
amore. Può anche ricorrere alla masturbazione coatta, particolarmente dopo un rapporto, come a
voler dimostrare la propria indipendenza e la non necessità dell’altro per ottenere il piacere ambito.
Gli schemi interattivi che si osservano, pertanto, sono di resa e fuga e mirano ad evitare
l’umiliazione. I pazienti più gravi, come quelli borderline, vivono il desiderio sessuale come
particolarmente angosciante e, quindi, lo negano o, se si concedono un soddisfacimento sessuale, lo
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fanno degradando il partner, il che rimanda al concetto di invidia kleiniano: è un intento distruttivo
indirizzato contro qualcuno che si teme possa divenire importante.
Il Sé
In Psicoanalisi, il Sé è stato concepito in due modi:
- unitario descrivibile attraverso una metafora spaziale. Il Sé viene immaginato come un
qualcosa contenuto nella mente ed è unico e continuo. Kohut ha posto l’accento
sull’importanza della costituzione di un Sé unitario durante lo sviluppo. Un Sé unitario privo
di una continuità per quel che riguarda il susseguirsi degli stati soggettivi provocherebbe
condizioni patologiche, come un disturbo di personalità multipla. Secondo Mitchell, la
continuità è solo un’illusione, poiché il Sé è in continuo mutamento. Ciò nonostante,
l’autore ha anche sostenuto l’importanza di percepire un senso di continuità per avere la
possibilità di riferirsi ad un’identità interiore che sia stabile.;
- multiplo descrivibile attraverso una metafora temporale. Il Sé non viene considerato un
nucleo presente nel soggetto per motivi biologici, ma è dato dalla somma delle esperienze
individuali. Non è un’identità, ma si genera all’interno delle relazioni e fa riferimento ai
significati che vengono creati dall’individuo.
Anche se l’esperienza comune è quella di avere un Sé unitario, nella vita di ciascuno si susseguono
diversi Sé, poiché essi cambiano nel corso del tempo. Il Sé, inoltre, esattamente come la persona, si
genera all’interno della relazione e lo fa attorno ad una serie di rappresentazioni di Sé e dell’oggetto
all’interno del contesto relazionale: dissociazioni tra le varie parti del Sé possono essere
diagnostiche del grado di psicopatologia. D’altro canto, Mitchell ha sottolineato come la percezione
di un Sé unitario non corrisponda per forza ad un’esperienza autentica del Sé, perché sono invece i
cambiamenti e le discontinuità a consentire un arricchimento ed uno sviluppo. I due modelli del Sé,
unitario e multiplo, pertanto, non sono realmente in contraddizione, ma possono essere integrati in
una prospettiva relazionale della mente, in modo tale da spiegare tanto la continuità quanto le
discontinuità. L’autore ha paragonato il Sé al fiume di Eraclito, che scorre ed è sempre diverso pur
rimanendo lo stesso, così come ad un film costituito da tanti fotogrammi che, proiettati in sequenza,
vengono percepiti come qualcosa di unitario.
Il lavoro del terapeuta, alla luce di quanto detto, è doppio, dal momento che deve basarsi sia su un
Sé continuo che su un Sé multiplo: egli deve, contemporaneamente, restituire al paziente
un’immagine unitaria del suo Sé, mettendo insieme tutte le sue esperienze, così come incoraggiarlo
nella sperimentazione di nuove rappresentazioni del Sé. Mitchell, infine, si è opposto alla neutralità
analitica classica, sostituendovi la nozione di “responsività auto-riflessiva”: ha espanso, quindi, la
comprensione dell’analizzante alle risposte che il terapeuta è indotto a fornirgli per via del
controtransfert, il quale non può essere ignorato ma deve essere espresso, in un processo di co-
costruzione della relazione terapeutica.
IL CAMPO BIPERSONALE: WILLY E MADELEINE BARANGER
Il modello di campo in Italia
Kurt Lewin ha partecipato al dibattito natura-cultura ed ha utilizzato il linguaggio della Fisica,
descrivendo il comportamento e lo sviluppo come due funzioni della situazione totale. La persona
(P) e l’ambiente (A) non sono tra loro indipendenti, ma formano un insieme di fattori che è lo
spazio vitale (SV). Il comportamento (C) è funzione (F) sia di P sia di A, il che si esprime con:
C = F (P A) oppure F (SV)
Il campo è inteso come insieme di fatti coesistenti ed interdipendenti e la Psicologia deve occuparsi
dello SV.
Merleau-Ponty ha sostenuto esser possibile considerare sia l’oggetto sia il soggetto come elementi
di un unico campo, proprio come nella Fisica quantistica l’osservatore influenza l’oggetto di studio.
Il soggetto è “dato a se stesso” (ovvero ha una soggettività in un dato momento) perché si trova nel
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mondo. Su questa riflessione, in cui il fenomeno psichico viene ricondotto al contesto
intersoggettivo, i coniugi Baranger hanno fondato il loro pensiero, che applica il concetto di campo
alla situazione analitica. Quest’ultima è stata riconsiderata da un punto di vista interattivo, a scapito
della neutralità dell’analista: tale dimensione intersoggettiva era già stata teorizzata da altri autori,
ma solo i Baranger vi hanno aggiunto il concetto di campo. Essi si sono ispirati alla concezione di
Racker, il quale riteneva che nella relazione analitica il terapeuta fosse attivo nonostante la sua
neutralità e che fosse complementare al suo paziente e viceversa. I Baranger hanno incluso nel
contesto analitico anche altri elementi, tra cui le regole, lo spazio ed il tempo, ed hanno reso la
relazione una funzione del campo che si genera nell’incontro tra i due partner, il quale costituisce
l’oggetto di osservazione dell’analista. Persino lo spazio al di là delle mura della stanza analitica
può rientrare nel campo, per esempio per via dei suoi rumori, e la dimensione temporale può andare
incontro a delle modificazioni che possono o meno essere ben accolte dal paziente che, se le teme,
tende a mettere in atto delle strategie per arrestare o velocizzare il campo temporale. Di
conseguenza, sia la dimensione spaziale che quella temporale sono in continuo mutamento, non
fisse. Il campo si organizza sulla base degli accordi preliminari tra paziente e terapeuta, con i quali
si stabiliscono i ruoli ed i doveri: per il primo, comunicare tutti i suoi pensieri, per il secondo, esser
d’aiuto e non interferire nella vita extra-analitica. L’analista, inoltre, assume una posizione tale da
poter osservare l’analizzante, mentre questo viene messo in condizione da poter vivere una
regressione. Tal configurazione è la “relazione psicoterapeutica bipersonale”, ove il secondo
attributo è corretto solo da un punto di vista percettivo: infatti, nella relazione sono coinvolte più
figure, rievocate nel materiale portato dal paziente, oltre al fatto che le persone in analisi sono
composte da molteplici parti, così che il terapeuta può trovarsi ad interpretare una certa parte dell’Io
od il Super Io del partner. Seppur in una condizione multipersonale, comunque, la relazione
bipersonale resta sullo sfondo. I Baranger hanno evidenziato la presenza di una struttura triangolare,
con un terzo partecipante. Nella relazione analitica, vi è una forte ambiguità e tutto viene vissuto
“come se”, generando confusione: questa condizione è resa ancor più marcata dalla mescolanza tra
passato, presente e futuro, oltre che dalla presenza di uno spazio comune in cui esperienze diverse si
sovrappongono. Anche i corpi assumono una valenza ambigua, poiché vengono utilizzati come
“corpi analitici”: i movimenti del terapeuta sono associati al vissuto dell’interlocutore è questa è la
controidentificazione proiettiva somatica, per la quale il corpo risponde ai cambiamenti del campo.
Pure i contenuti inconsci, che possono agire su quelli manifesti, contribuiscono all’ambiguità ed il
fantasma inconscio è una strutturazione che si associa a quelle bipersonale e tripersonale.
All’interno del campo diverse situazioni inerenti esperienze passate, presenti e transferali si
manifestano e quella che predomina sulle altre è il punto di urgenza, che può modificare il campo se
viene interpretato. La fantasia inconscia non viene più concepita come produzione individuale ma a
due ed è diversa dal contributo di ambo i partner; essa si crea con identificazione proiettiva e ci si
basa la coppia analitica stessa. Il paziente deve poter utilizzare questo meccanismo per adattare la
fantasia di coppia ai suoi bisogni e l’analista è chiamato a non essere né troppo distaccato né
eccessivamente coinvolto.
Sintetizzando, il campo analitico presenta tre configurazioni:
1. setting e contratto iniziale;
2. materiale prodotto dalla coppia e funzione del terapeuta;
3. fantasia bipersonale è la fantasia inconscia di cui sopra e deve essere interpretata.
Per i Baranger, l’interpretazione è fondamentale e l’analista deve saper trovare il punto d’urgenza
su cui basarla in mezzo a tutto il materiale fornitogli dal paziente. I due autori hanno preferito la
metafora dell’analisi come partita a scacchi rispetto a quella che la associa ad uno scavo
archeologico:
- nella prima, l’analista conosce le mosse con cui si può iniziare e concludere una
partita, ma non può prevedere le mosse intermedie, che sono le difese e le
comunicazioni dell’analizzante ma, anche, le sue stesse interpretazioni. La
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scacchiera è la struttura di riferimento per entrambi, cioè il campo bipersonale,
mentre la partita è tutta l’analisi;
- nella seconda, lo scavo verso la profondità indica un percorso regressivo.
All’interno del campo bipersonale, non si ha una riattivazione di modelli relazionali, desideri od
angosce passati, ma il processo analitico prevede due poli:
- mobilità rende vitale la dinamica analitica;
- cristallizzazione immobilizza la dinamica analitica.
Quando il campo si blocca, può essere per via di un bastione, ovvero un “rifugio inconscio di
imponenti fantasie di onnipotenza”, che è sempre presente ma diverso da persona a persona. Il
paziente sente di non poterlo abbandonare, per cui può evitare di parlarne, mentire all’analista o non
accettare le sue interpretazioni pur di conservarlo; il successo dell’analisi dipende dalla disponibilità
del paziente ad analizzarlo e perderlo, lasciando così le fantasie di onnipotenza e rischiando di
essere debole a fronte a fronte dei persecutori. Una buona interpretazione determina un
cambiamento nel campo e fa sentire meglio il paziente. L’interpretazione è efficace da un punto di
vista terapeutico quando l’analista si mostra in grado di regolare i processi psichici del paziente:
pertanto, il campo si crea in un contesto che ha una funzione di contenitore. Il terapeuta,
accogliendo i proietti del partner, può rappresentare oggetti tanto idealizzati quanto persecutori ed è
con l’interpretazione che l’analizzante può re-introiettare in forma accettabile parti di Io e Super Io,
così come impulsi, che ha proiettato sull’altro. In questo senso, è molto importante la parola, che
non è solo comunicativa ma permette anche di recuperare l’antica relazione con la voce materna,
attivando emozioni primitive; le parole diventano oggetti gratificanti o frustranti e la parola veicola
relazioni oggettuali. Essa può essere debole, se non arriva alla vita interiore del paziente, o forte, se
si fonde con l’oggetto: solo in questo ultimo caso, l’interpretazione provoca reazioni emotive
intense. Per favorire l’insight (riorganizzazione dei diversi aspetti del campo), le parole devono
svolgere due funzioni:
1. comunicazione astratta tradurre la situazione del campo;
2. comunicazione concreta tradurre le fantasie primitive di scambio oggettuale.
L’insight ha luogo nell’Io ed è reso possibile dalla re-introiezione, che estende l’Io e permette un
contatto maggiore con il reale. Avviene grazie all’interpretazione ed è una riorganizzazione del
mondo interno dell’analizzante, cioè un’integrazione tra le sue fantasie transferali e
controtransferali inerenti l’analisi. Il trattamento termina quando non ci sono più cristallizzazione
patologiche, ovvero bastioni. Queste cristallizzazioni sono delle scissioni difensive dell’Io, ove la
scissione è diversa dalla rimozione perché ciò che è scisso può anche essere o diventare cosciente.
Si parla di punto cieco nell’analista per indicare la tendenza inconscia di questo ad incoraggiare il
paziente nel mantenimento delle scissioni. Un problema che può insorgere in analisi consiste in una
relazione parassitaria, che provoca patologia del campo ed in cui il parassita può essere:
- il terapeuta ha luogo quando egli non restituisce al paziente i suoi proietti e persevera nel
conservarne le parti scisse, sentendosi invaso da lui;
- il paziente si sente manipolato dall’analista, che lo ha reso parassita.
L’insight può verificarsi solo a partire da una relazione simbiotica, in cui l’identificazione proiettiva
è incrociata ed i partner complementari: questa relazione permette una duplice visione del campo,
che favorisce una visione interiore doppia; è con la cessazione della relazione simbiotica che ha
luogo l’insight, il quale ridà ai due partner i propri ruoli secondo quanto stabilito da contratto,
permettendo anche l’integrazione della parte scissa (la cui proiezione aveva causato l’attribuzione di
ruoli diversi) ed il superamento di un ostacolo nel campo.
Il modello di campo in Italia
Il modello di campo ha spostato il focus sulla coppia analitica ed ha considerato il setting come
dinamico, comprendendo anche, con un “campo emotivo”, un elemento terzo. L’obiettivo
dell’analisi è stato ridefinito come portare trasformazione. Il pensiero dei Baranger è stato
sviluppato anche in Italia, particolarmente da due autori: 80
- Francesco RIOLO si è basato sul concetto fisico di campo e l’ha riproposto in
Psicoanalisi, descrivendo il campo come in grado di organizzarsi sulla base di leggi proprie
ed in cui hanno luogo delle trasformazioni che sono indipendenti dagli oggetti, i quali, dopo
averlo creato, sono sotto le sue leggi. Il campo non può essere osservato, per cui si studiano
gli effetti che si manifestano sui corpi. Funzioni del campo sono anche lo spazio ed il tempo,
per cui il esso non è descritto come percorso da forze, ma come da un evento che comprende
una certa dimensione spazio-temporale. Dato che la materia viene percepita quando vi è
un’alta concentrazione di energia in poco spazio, il campo si crea da una riduzione di questa
energia: ciò che varia è solo la quantità, per cui il binomio campo/materia non ha più senso.
I corpi sono variazioni quantistiche del campo, che è un’onda. Il campo psicoanalitico è una
struttura che deve trasformare delle esperienze sensoriali grezze in pensieri coscienti, per cui
l’attenzione non è più sull’inconscio, ma sul conscio e sul passaggio degli elementi da uno
stato all’altro. Riolo ha fatto riferimento alla griglia di Bion per descrivere il campo psichico
come Maxwell ha descritto quello elettromagnetico: tale griglia è una tabella a doppia
entrata che permette di segnare le trasformazioni cui vanno incontro gli elementi in analisi,
da sensazione ad immagine e ad interpretazione; gli elementi (disposti in ordine da un livello
proto mentale con gli elementi beta ad uno più complesso ed astratto) sono sull’asse
verticale, che è l’asse genetico, mentre su quello orizzontale si trovano le funzioni che
derivano dall’esame di realtà ed esso è l’asse sistematico o degli usi. Il modello di campo,
quindi, permette di:
a) generalizzare le teorie psicoanalitiche;
b) andare oltre la dicotomia soggetto/oggetto, concentrandosi sui cambiamenti del
campo e non sugli oggetti;
c) vedere la cura in termini di trasformazioni nel campo e non nel paziente.
Alcune delle regole di trasformazione del campo che sono state teorizzate da Bion sono:
a) trasformazioni lineari i contenuti mentali si spostano in ambiti diversi da quello di
cui sono parte (per esempio, il transfert con riferimento all’Edipo);
b) trasformazioni proiettive si inverte il rapporto contenitore/contenuto;
c) trasformazioni in allucinosi si ha un’aggregazione di parti del soggetto e
dell’oggetto a seguito di una frammentazione.
La prospettiva del campo permette di bypassare le dicotomie conscio/inconscio,
soggetto/oggetto e cognizione/emozione. Il campo, infine, non comprende solo la relazione
ma anche ciò che ne è escluso, o perché non rappresentato p perché espulso;
- Giuseppe DI CHIARA ha attribuito l’efficacia dell’analisi all’interazione tra analista e
paziente ed al cambiamento dell’atteggiamento di questo ultimo nei confronti del rimosso.
All’interno del campo si creano degli elementi che favoriscono lo sviluppo della competenza
edipica, che consiste nella capacità di:
a) decentrare l’Io ;
b) apprendere dall’esperienza ;
c) rompere la dipendenza dagli oggetti interni ;
d) accettare le proprie responsabilità .
L’introiezione di questi fattori, ovvero l’introiezione del campo psicoanalitico, equivale a
quella di un “interlocutore efficace” e consente al paziente di assumere delle conoscenze
utili per la sua cura. Un’analisi che non giunga mai ad una conclusione presenta,
probabilmente, una scarsa capacità introiettiva dell’analizzando ma, anche, risposte
inadeguate fornite dall’analista.
In conclusione, il modello di campo segna la risoluzione del dibattito nato sulla neutralità del
terapeuta: in questo modo, le “verità” sono tali se associate ad una determinata situazione. 81
PSICOANALISI E NEUROSCIENZE COGNITIVE
Freud era convinto che ci fosse una relazione tra psiche e cervello, ma è stato costretto ad accettare
di non poterlo dimostrare. Riteneva che le funzioni psichiche si fondassero su processi fisiologici,
pur rifiutando l’idea che fossero localizzate in specifici tessuti, fino a prova contraria. Del resto, ai
suoi tempi non si disponeva ancora delle conoscenze necessarie per tradurre concetti psicologici in
termini fisiologici e quindi non ha potuto fare altro se non delegare ai posteri il compito di trovare
delle basi biologiche che supportassero le sue teorie, convinto che si trattasse di un traguardo
raggiungibile, che avrebbe permesso di concretizzare l’idea di unione tra il soma e la psiche che
permea il modello pulsionale. Secondo Kandel, rapportare la Psicoanalisi alla Biologia è l’unico
modo per rafforzarla ed in particolare può essere utile un collegamento con le Neuroscienze
cognitive, nate dall’incontro tra Psicologia cognitiva e Neuroscienze. L’obiettivo, quindi, è
verificare sperimentalmente le teorie freudiane ed avvalorarle con delle prove biologiche. Un
concetto molto importante in ambito analitico che può essere affrontato anche in dalle Neuroscienze
a questo proposito è quello della memoria.
La memoria nelle Neuroscienze
La modalità con cui acquisiamo delle informazioni e creiamo dei ricordi è soggettiva, nel senso che
ci sono delle differenze individuali. La memoria, comunque, prevede tre fasi:
- codifica consiste in una rielaborazione delle informazioni e comprende due sottofasi, che
sono l’acquisizione ed il consolidamento. L’acquisizione permette la registrazione dei dati
nelle memorie sensoriali, mentre il consolidamento porta al rafforzamento di una
determinata rappresentazione;
- immagazzinamento permette di mantenere nei magazzini di memoria il prodotto della
codifica in modo permanente;
- recupero consente l’accesso alle informazioni.
Per le Neuroscienze, sono le reti neurali a rendere possibile l’apprendimento ed in particolare il
fatto che una rete si attivi rende più probabile una sua attivazione futura: questo è quanto stabilito
dall’assioma di Hebb, secondo cui neuroni che si eccitino allo stesso tempo, tendono in un secondo
momento a ricollegarsi nuovamente tra loro. Inoltre, quando dei circuiti cerebrali si attivano dopo
un flusso di energia, sono in grado di recuperare le informazioni registrate, il che dimostra come la
mente sia in capace non solo di creare un modello di eccitazione neurale, ma anche di riprodurlo
pure in assenza dello stimolo che l’ha inizialmente innescato: di conseguenza, non si ha una
riattivazione dell’immagine, bensì del profilo neurale. Nel corso dell’esistenza, l’architettura
cerebrale va incontro a mutamenti in termini di connessioni sinaptiche nuove che si possono creare,
il che può esser dovuto all’assetto genetico ed alle esperienze individuali. Le rappresentazioni che
vengono prodotte dal nostro cervello con riferimento alla memoria possono essere di diversi tipi:
- percettive riguardano delle informazioni che sono state captate come dati sensoriali;
- semantiche il ricordo viene evocato per mezzo del linguaggio;
- sensoriali il ricordo è legato a determinate sensazioni corporee.
Ogni ricordo si costituisce, così, come un insieme di rappresentazioni e, riguardo alle modalità con
cui può avvenire la rievocazione, è stato possibile dividere la memoria in:
- esplicita o dichiarativa i ricordi son di tipo semantico ed accessibili a livello conscio.
L’immagazzinamento avviene grazie all’attività ippocampale ed i ricordi selezionati
vengono ritenuti in modo permanente attraverso processi di consolidamento corticale;
- implicita o procedurale o memoria del fare è inconscia e, oltre ad essere sede di
comportamenti automatici memorizzati, ha a che fare anche con i fenomeni di priming. La
registrazione dei dati, contrariamente che per la lungo termine, non richiede focus attentivo.
La memoria, quindi, è il prodotto di più processi rappresentazionali, che cominciano con un
engramma, ovvero un impatto iniziale dell’esperienza sul cervello, il quale determina la creazione
di un profilo di eccitazione neurale. La memoria esplicita e quella implicita fanno entrambe parte
della memoria a lungo termine, che ha un magazzino potenzialmente illimitato per spazio e tempo
di mantenimento della traccia mnestica e si suddivide come segue: 82
comprende
- esplicita o dichiarativa memoria semantica le informazioni circa il
significato di parole e simboli;
memoria episodica memoria autobiografica fa
riferimento ad episodi di vita vissuta in prima persona;
memoria di eventi riguarda
eventi che possono anche esser stati solo raccontati e che non
sono emotivamente pregnanti;
- implicita o procedurale o memoria del fare fa riferimento a quei ricordi associati ad
abilità di tipo motorio, cognitivo o percettivo e che non vengono rievocati in modo
consapevole, bensì, pare, automaticamente ed inconsciamente. Nei processi di codifica e di
recupero non è coinvolta alcuna regione cerebrale connessa con la coscienza. I profili
neurali che si attivano relativamente a questo tipo di memoria son quelli che hanno a che
fare con le strutture cerebrali coinvolte nella vita quotidiana, ovvero si fa riferimento a:
1. memoria emozionale amigdala e regioni limbiche;
2. memoria comportamentale corteccia motoria;
3. memoria percettiva corteccia percettiva.
La memoria procedurale si compone di modelli mentali, che si creano a partire da
rappresentazioni generalizzate dell’esperienza e che permettono una valutazione molto
rapida delle situazioni, oltre che la possibilità di vedere la realtà come familiare e
prevedibile. La formazione dei modelli mentali è favorita dalla percezione amodale, che
consente al cervello umano di associare esperienze che hanno a che fare anche con modalità
percettive differenti, quale è il caso del bambino che riconosce con la vista il capezzolo
precedentemente conosciuto con la bocca. Dal momento che i modelli mentali rendono
possibile un’anticipazione del futuro basata su una conoscenza del passato, è stata proposta
la denominazione di memoria prospettica.
Per quel che riguarda, invece, la memoria a breve termine, va differenziata dalla memoria
sensoriale, che mantiene i dati in memoria per tempi estremamente brevi e che si divide in:
- iconica riguarda dati di natura visiva;
- ecoica riguarda dati di natura uditiva.
Secondo il modello modale di Atkinson e Shiffrin, gli inputs sensoriali sono processati nella
memoria a breve termine prima di essere trasferiti in quella a lungo termine, in seguito ad un
consolidamento che, tendenzialmente, avviene per ripetizione. Ciò nonostante, le evidenze
neuropsicologiche mostrano come le operazioni a breve termine non siano in realtà connesse a
quelle a lungo termine: non ci sono, quindi, fasi della memoria poste in sequenza, il che implica che
le informazioni possano passare dalla memoria sensoriale direttamente a quella a lungo termine,
senza transitare in quella a breve termine.
La memoria a breve termine è stata denominata da Baddeley memoria di lavoro (working memory),
poiché essa non solo trattiene i dati per breve tempo, ma può anche svolgere su di essi delle
operazioni. Per descrivere questa memoria, Baddeley ed Hitch han proposto il sistema tripartito
(mentre invece la memoria a lungo termine è concepita come unitaria), che ne identifica (le prime)
tre componenti a cui Baddeley ne ha poi aggiunta una quarta (l’ultima):
- meccanismo esecutivo centrale coordina le interazioni tra le altre componenti;
- circuito fonologico (phonological loop) si occupa della registrazioni di dati acustici;
- taccuino visuo-spaziale (visuo-spatial sketch pad) immagazzina con un codice visivo;
- magazzino episodico (Episodic Buffer) mantiene gli episodi integrandoli da un punto di
vista temporale e spaziale.
Il magazzino della memoria a breve termine è molto limitato in termini sia di capienza che di durata
della traccia mnestica, ma può restare intatto in caso di amnesie. Essa, del resto, risulta essere
localizzata in regioni del cervello differenti rispetto alla memoria a lungo termine, come dimostrato
dagli effetti delle lesioni cerebrali: la memoria a breve termine è compromessa da danni ad aree
molto specifiche e localizzate principalmente in sede destra. 83
DESCRIZIONE APPUNTO
Riassunto per l'esame di Psicologia Dinamica, basato su appunti personali e studio autonomo del testo consigliato dal docente Modelli Evolutivi in Psicologia Dinamica: Dal Modello Relazionale ai Nuovi Orientamenti, vol II, Quaglia, Longobardi. Argomenti trattati: psicoanalisi interpersonale, Sullivan, Fromm, Horney, psicologia del Sé, teoria dell'attaccamento, Bowlby, Main, Ainsworth, teoria intersoggettiva, Atwood, Stern, Infant research, movimento relazionale, campo bipersonale, Neuroscienze cognitive.
I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher JennyJenny di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Psicologia dinamica e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Torino - Unito o del prof Nespoli Giorgio.
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