Riassunto esame Psicologia Dinamica, prof. Nespoli, libro consigliato Modelli Evolutivi in Psicologia Dinamica I, Quaglia, Longobardi
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aspetti negativi che possono essersi sviluppati agli stadi precedenti, ovvero la sfiducia, la
vergogna ed il senso di colpa), allora il bambino sviluppa un senso di inferiorità tale da
condurlo al ritiro nei confronti sia dei pari che degli strumenti;
5. 5° stadio (adolescenza) – identità contro dispersione d’identità l’equivalente stadio
psicosessuale è quello della pubertà. L’individuo deve formarsi una propria identità relativa
al proprio corpo, alla sua famiglia, al suo ruolo sessuale ed al tipo di lavoro che vorrebbe
svolgere: tutti questi aspetti devono essere integrati in una rappresentazione unitaria, che
deriva, quindi, dalle precedenti esperienze di ruolo ed identificazione di cui, tuttavia, non
rappresenta una sommatoria, bensì una riorganizzazione. La consapevolezza della propria
identità si origina a partire da una percezione di “medesimezza” (sameness) e continuità, che
si sanno essere notate, anche, dagli altri. Una mancata integrazione dei diversi costituenti
dell’identità sfocia in una diffusione di identità, con un persistente senso di confusione circa
il proprio ruolo;
6. 6° stadio (giovinezza) – intimità contro isolamento l’equivalente stadio psicosessuale è
quello della genitalità. L’individuo deve fondersi con gli altri, ovvero entrare nella società
attraverso la creazione di rapporti intimi e l’affiliazione a gruppi senza temere di perdere,
così facendo, di perdere la propria identità. Agli antipodi dell’intimità vi è l’isolamento, in
cui le relazioni sociali sono vuote ed in cui si generano i pregiudizi, dovuti al rifiuto di tutto
ciò che viene visto come una minaccia. Solo a questo punto dello sviluppo è possibile lo
sviluppo di una buona genitalità, intesa come la capacità di sperimentare la
complementarietà con l’altro attraverso l’orgasmo;
7. 7° stadio (maturità) – generatività contro stagnazione l’equivalente stadio psicosessuale è
quello dell’età adulta. La generatività è quel desiderio che si manifesta in tutto ciò che è
creatività e produttività, in particolar modo nei riguardi delle nuove generazioni. Non
implica, quindi, necessariamente la riproduzione, ma consiste nella tendenza ad occuparsi
degli altri, con l’intento di creare un mondo migliore. Quando tale generatività è assente, si
verifica un autoassorbimento, con autocompatimento e preoccupazione continua focalizzata
sulla propria persona, oltre che un sentimento di stagnazione, ovvero di incapacità di
investire su qualcosa di altro;
8. 8° stadio (vecchiaia) – integrità dell’Io contro disperazione l’equivalente stadio
psicosessuale è quello della maturità. L’integrità altro non è che l’accettazione di quella che
è stata la propria esistenza ed una sua visione come insostituibile e necessaria, inserita
nell’ampio contesto della storia umana, in cui tutte le vite sono tra loro collegate. Al
contrario, la disperazione deriva dalla non integrità dell’Io ed insorge dalla consapevolezza
che è troppo tardi per iniziare una vita diversa. Raggiungere l’integrità è, pertanto,
fondamentale per evitare rimorsi e per accettare con tranquillità l’arrivo della morte.
LA SCUOLA UNGHERESE
Sándor Ferenczi è stato uno dei massimi esponenti della Scuola ungherese. Cresciuto in una
famiglia governata da una madre depressa ed in cui il padre è mancato quando egli era solo
adolescente, Ferenczi si è recato a Vienna per studiare Medicina ed ha poi aperto un proprio studio
privato, diventando, anche, consulente psichiatra per il tribunale. Con Freud ha instaurato fin da
subito un bel rapporto, vedendo in lui anche quella figura paterna che quasi non aveva avuto, per
via sia dell’età sia dell’autorevolezza. Ferenczi ha fondato la Scuola psicoanalitica ungherese che,
tuttavia, è entrata molto presto in contrasto con quella di Berlino, connotandosi come molto
indipendente nel pensiero. Particolare in Ferenczi era la relazione terapeutica che instaurava con i
suoi pazienti e che ha fornito un modello alla Psicoanalisi interpersonale americana.
István Hollós è stato uno dei primi, insieme a Ferenczi, ad interessarsi alle psicosi con un approccio
analitico. Del resto, proprio a Budapest è nato il movimento dell’antipsichiatria, che ha portato, in
un secondo momento, alla riapertura dei manicomi. 30
Altre figure importanti sono stati i coniugi Balint e Mihály, in particolare, è stato sia allievo sia
paziente di Ferenczi ed è diventato il suo erede intellettuale, permettendo, anche, la diffusione delle
sue opere dopo la sua morte. Alice Balint, anch’ella allieva di Ferenczi, ha pubblicato “L’amore per
la madre e l’amore della madre”, in cui ha esteso i concetti del suo maestro sul rapporto uomo-
donna alla relazione madre-bambino, ponendo in analogia il coito con l’allattamento ed
identificandoli entrambi come momenti in cui vengono soddisfatti i desideri di ambo i partner.
Anche Imre ed Alice Hermann hanno ricoperto un ruolo di spicco. In particolare, Imre ha
sviluppato il concetto di istinto di aggrappamento, partendo dall’idea di Ferenczi secondo cui il
bambino è motivato a creare un rapporto sociale con la madre: secondo Hermann, questo rapporto è
indispensabile per lo sviluppo e per la sopravvivenza stessa del piccolo. Egli ha, in questo modo,
unito Psicoanalisi e Biologia in una teoria dell’attaccamento, nella quale l’aggrappamento viene
considerato il precursore tanto dell’affetto quanto della tendenza ad aggredire l’altro: un
aggrappamento con carezze porta all’amore, mentre, se a queste si sostituiscono i graffi, allora ci
sarà aggressione.
Sándor Rado è rimasto fedele al pensiero freudiano ma, anche, alla sensibilità di Ferenczi, il che
l’ha portato ad attribuire grande importanza alla dimensione relazionale. Egli si è occupato
soprattutto della depressione, caratterizzata ad un tempo da autopunizione e richieste di amore. In
particolare, ha descritto il bambino come disposto a far sfoggio del suo dolore pur di ottenere
l’amore di cui necessita ed ha connotato il depresso come caratterizzato da un’autostima molto
scarsa, associata ad impulsi narcisistici che fanno sì che egli non possa prendere atto della propria
dipendenza dall’oggetto d’amore: quello che ne consegue è un comportamento di indifferenza, che
porta l’oggetto d’amore ad allontanarsi, lasciando il depresso in preda al rimorso ed intento a
cercare di riottenere l’amore perduto suscitando nell’altro pietà e sensi di colpa. Un tal schema
comportamentale richiama quello che il bambino rivolge al seno materno, seguendo lo schema
“rabbia-fame-nutrimento”, il che significa che l’andamento maniaco-depressivo si basa sulla
primitiva alternanza di fame e sazietà nel neonato. Rado ha anche introdotto il concetto di “orgasmo
alimentare”, per far riferimento alle intossicazioni da etanolo ed altre sostanze che sono finalizzate
al ritorno allo stato di onnipotenza infantile. Dal punto di vista tecnico, poi, sosteneva che non fosse
sufficiente aiutare il paziente a ricordare il trauma alla base della sua malattia, ma che lo si dovesse
coadiuvare nell’acquisizione di nuove conoscenze circa sé, avvalendosi di una psicoterapia adattiva,
basata su un potenziamento dell’auto-fiducia e sulla contrapposizione di esperienze piacevoli al
ricordo di quelle sgradevoli, in modo tale che queste potessero essere neutralizzate.
Franz Alexander è ricordato nell’ambito psicosomatico e criminologico. Ha distinto il disturbo
psicosomatico dalla conversione attribuendo solo a questa un significato simbolico inerente un
conflitto e considerando il primo come risultato di una “logica delle emozioni”, in grado di portare
delle tensioni ad un qualsiasi organo del corpo e, quindi, di generare delle disfunzioni. Alexander ha
parlato, quindi, di “ginnastica emotiva”, finalizzata a permettere al terapeuta di controbilanciare gli
effetti negativi genitoriali ed a suscitare un’esperienza emotiva correttiva: in questa accezione,
l’analisi diventa una sorta di rieducazione emotiva e comportamentale. Dal momento che la nevrosi
nasce da un’esperienza infantile e che il paziente tende a riprodurre comportamenti inadatti al suo
stato di adulto, l’analista deve renderlo consapevole di questo, avvalendosi di un rapporto emotivo.
Alexander era in apprensione per via dell’allontanamento dell’uomo dalla natura, dovuto allo
sviluppo tecnologico e scientifico e segnato da un’alienazione che porta ad un senso di solitudine
esistenziale: l’uomo moderno, di conseguenza, è chiamato ad adattarsi ad una realtà che è mutevole,
oltre che priva di valori ed ideologie in cui credere; l’uomo, in una tal condizione, non può che
essere ossessionato dalla produttività, al punto da sentirsi in colpa quando ha del tempo libero e da
non saperne godere.
Géza Róheim, essendo stato un bambino iperprotetto e viziato, ha sviluppato una personalità
autoritaria e fiera. Era interessato all’Antropologia culturale, che ha inteso unire, con l’appoggio
degli analisti e l’opposizione degli antropologi, alla Psicoanalisi. Lo scopo dei suoi studi era quello
di raccogliere ed analizzare materiale inconscio dei primitivi ed i risultati sono stati riportati in
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“Psicoanalisi e antropologia”. La sua esperienza più importante è stata quella australiana, ove si è
documentato circa i sogni (che ha interpretato con le libere associazioni), la vita sessuale,
l’organizzazione sociale ed i giochi infantili degli Aborigeni. Egli è arrivato a sostenere l’esistenza
di analogie tra tutti i popoli umani, che sono riscontrabili nei sogni, nei miti e, pure, nelle nevrosi.
Ha preso in prestito dalla Biologia il termine “neotenia” (animale in grado di riprodursi in stato
larvale) ed ha ascritto l’origine della cultura al ritardo nel raggiungimento della maturità biologica
da parte dell’essere umano. Sarebbe, quindi, l’infanzia prolungata a creare fobie, credenze e modelli
di comportamento che si ritroverebbero, poi, nella società adulta, differenziando tra loro le diverse
culture. Questa è la teoria ontogenetica della cultura, che prevede, anche, che ogni cultura sia legata
ad una determinata fase dello sviluppo, in cui si sarebbe verificato uno specifico trauma. Tale teoria
è in contrapposizione con il pregiudizio filogenetico (l’ontogenesi ripercorre la filogenesi) di Freud
e di Ferenczi. Allievo di Róheim è stato Devereux, fondatore dell’Etnopsichiatria e della pratica
terapeutica transculturale: egli ha ripreso la posizione del suo maestro, ipotizzando, però, l’esistenza
di un inconscio universale, dal quale avrebbe origine l’inconscio culturale.
Sándor Ferenczi. Il metodo attivo
Ferenczi ha descritto il percorso dal principio di piacere all’esame di realtà basato su una
valutazione obiettiva, ovvero l’evoluzione dell’Io che va da uno stadio psichico “primario” ad uno
secondario, in cui vi è autocoscienza. Questo sviluppo dell’Io vede una graduale sostituzione della
megalomania infantile ad opera di un’accettazione dei limiti imposti dall’ambiente esterno, mentre,
all’inizio della vita, si ha il principio di piacere, che fa sentire il bambino, ancora nell’utero,
onnipotente e privo di desideri: quest’ultima è la fase dell’onnipotenza incondizionata e viene
turbata dalla nascita, con cui il bambino è separato dalla madre e deve iniziare a procurarsi
l’ossigeno da solo, oltre che rimuovere l’appagamento totale di cui godeva prima per adattarsi ad
una realtà spazio-temporale. La rimozione ha luogo col termine di ogni fase di sviluppo, poiché è
fondamentale affinché il bambino possa adattarsi a quella successiva. Dopo la nascita persiste,
comunque, il desiderio di tornare nel grembo materno, il che genera un reinvestimento allucinatorio
della condizione perduta, grazie alla quale il neonato può appagare tutti i suoi desideri: è la fase di
onnipotenza allucinatoria. Col tempo, il bambino capisce che le rappresentazioni non sono
sufficienti e che deve emettere dei segnali per ottenere la gratificazione dei suoi bisogni, segnali che
coinvolgono principalmente il versante motorio e che sono “segnali magici”, poiché determinano
l’immediata soddisfazione: questa svolta segna l’ingresso nella fase dell’onnipotenza con l’aiuto dei
gesti magici. Tutte queste fasi sono caratterizzate dalla patologia e costituiscono punti di
regressione della conversione isterica, poiché gli attacchi isterici altro non sono se non la
soddisfazione dei desideri rimossi attraverso l’uso dei gesti; anche il ricorso a gesti scaramantici
non patologici deriva da questo periodo. Crescendo, il bambino capisce che il gesto magico non
funziona tutte le volte e ciò determina la scissione tra Io e mondo esterno, ove il primo è costituito
da emozioni ed il secondo da sensazioni: questo conduce alla fine della fase introiettiva, durante la
quale tutte le esperienze sono dell’Io e segna l’inizio della fase proiettiva che, al contrario, è
caratterizzata dalla visione degli oggetti come animati e legati in modo simbiotico con il proprio
corpo. Il linguaggio sostituisce, per la sua maggiore efficacia, il ricorso ai gesti ed il bambino
continua a percepire parte della sua onnipotenza poiché viene gratificato subito dagli adulti. Il
linguaggio conduce il bambino nella fase dei pensieri magici e delle parole magiche, periodo a cui
regrediscono gli ossessivi. La fase della visione scientifica del mondo è l’ultima del percorso di
sviluppo del senso di realtà e costituisce il punto di fissazione della paranoia, caratterizzato da uno
spostamento all’esterno di ciò che è interno.
Accanto allo sviluppo del senso di realtà, Ferenczi ha collocato lo sviluppo sessuale, in riferimento
al senso di onnipotenza. In particolare, la fasi di onnipotenza incondizionata è comprensiva sia
dell’autoerotismo sia nel narcisismo, i quali costituiscono fasi di onnipotenza dell’erotismo; essa si
estende fino alla fase dei pensieri magici e delle parole magiche. Il fine ultimo dello sviluppo, in
questo senso, è il raggiungimento della realtà erotica, ovvero il desiderio di trovare un oggetto
genitale. 32
Ferenczi ha introdotto notevoli innovazioni anche nella stessa pratica psicoanalitica. Egli aveva
successo con tutti i pazienti più gravi, probabilmente perché vedeva nella Psicoanalisi più un mezzo
per aiutare gli altri che, meramente, un lavoro. Utilizzava la così detta “terapia di rilassamento”, che
si fondava su tre punti:
- sincerità del terapeuta;
- accettazione del paziente;
- ripetizione dei traumi in presenza di un “genitore affettuoso”.
Attraverso l’analisi del transfert e del controtransfert, egli ha messo a punto la tecnica attiva, in cui
si ha una valorizzazione dell’impegno del terapeuta, anche nel garantire il superamento
dell’impasse. Mentre Freud considerava il ripetere una resistenza del paziente che doveva essere
evitata, Ferenczi ci ha visto un legame con delle fasi evolutive inaccessibili a livello conscio e,
pertanto, ne ha fatto un cardine della sua terapia. Dal momento che il transfert è una ripetizione
messa in atto dal paziente, Ferenczi ha enfatizzato l’importanza del controtransfert, ovvero della
risposta del terapeuta ai bisogni dell’altro. Ha sottolineato la necessità di far rivivere al paziente il
momento edipico ed ha sostituito alla fase cognitiva, che vede l’analista solo come colui che
dispensa informazioni, la fase dell’esperienza emotiva, durante la quale, al contrario, il terapeuta
cerca di provocare nel paziente ricordi vissuti. Poiché il transfert vede il paziente comportarsi in
modo regressivo, il terapeuta deve assumere un ruolo genitoriale, attraverso uno dei due metodi che
sono, anche, utili per indurre il soggetto ad uno stato ipnoico:
- metodo della dolcezza conduce ad un’ipnosi materna e comprende carezze,
incoraggiamenti e mormorii persuasivi;
- metodo dell’autorità conduce ad un’ipnosi paterna e comprende apostrofi energetici ed
intimidazioni.
Le persone possono essere più o meno suscettibili ad uno dei due metodi di cui sopra a seconda del
loro legame con i genitori nei primi quattro anni: lo stesso vale, al di là dell’ipnosi, anche per il con
transfert e se ne ricava che il terapeuta debba adattare il suo comportamento ad ogni paziente e
situazione. In particolare, un atteggiamento affettivo dell’analista nei confronti del paziente,
incoraggia la sua dipendenza, mentre un atteggiamento frustrante permette il recupero di materiale
inconscio altrimenti inaccessibile: il terapeuta, quindi, deve vincere le resistenze, lavorando con l’Io
del paziente.
Le idee di Ferenczi sul metodo analitico hanno portato ad un notevole raffreddamento del rapporto
con Freud, il quale sosteneva, del resto, il ruolo dell’astinenza, ovvero la necessità di evitare la
soddisfazione dei desideri del paziente (anche se non in modo categorico, dal momento che si ha a
che fare con una persona malata), in modo tale che questi diventino propulsori all’analisi. Al
contrario, Ferenczi ha proposto il ruolo della gratificazione, che consiste nello “acconsentire, il più
possibile, ai desideri e agli impulsi affettivi”, pur imponendo, però, anche delle privazioni, il tutto
allo scopo di responsabilizzare il paziente ed accrescere il suo impegno. Freud credeva che i
discorsi di Ferenczi sulla “tenerezza materna” celassero un problema personale e, in particolar
modo, temeva che la situazione potesse degenerare e che, dal bacio sulla guancia, il suo allievo
potesse arrivare ad un vero e proprio rapporto sessuale con i suoi pazienti. Egli riteneva, inoltre, che
il giovane collega intendesse dargli un esempio di come andassero trattati i pazienti, muovendogli
un rimprovero indiretto relativo al non averlo amato abbastanza.
Un caso di rilievo è dato dalla situazione analitica che Ferenczi ha avuto con una paziente
americana, Elizabeth Severn, la quale era una “guaritrice metafisica” molto disturbata. Ferenczi l’ha
accettata in analisi inizialmente controvoglia e, effettivamente, la terapia non faceva alcun
progresso. I due sono comunque riusciti a far riaffiorare ricordi di una relazione turbolenta con il
padre in età infantile e questa nuova consapevolezza ha fatto peggiorare le condizioni della Severn.
Ferenczi ha reagito dedicandole ancora più tempo, fin anche a 4-5 ore al giorno ed ella ha finito per
chiedergli di poterlo analizzare a sua volta, dal momento che riteneva l’impasse dovuta ad astio che
egli provava per lei. Ferenczi ha, inizialmente, rifiutato, per poi cedere e riconoscere, in questo
modo, il suo odio, contro il quale la paziente stava reagendo: questa “analisi reciproca” ha fatto sì
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che la Severn si sentisse giustificata nel suo atteggiamento e che l’analisi potesse continuare in un
rapporto di fiducia vicendevole. L’analisi reciproca si è mostrata uno strumento potente ma
Ferenczi, consapevole dei rischi, ha specificato che andasse usata solo in casi particolari, pur
ammettendo che, dopo averla provata, fosse difficile tornare ad una tecnica più tradizionale. Il caso
Severn si è risolto con la scoperta di un passato di abusi fisici, emotivi e sessuali perpetrati dal
padre da quando lei aveva solo un anno e mezzo, oltre che di altre vicende negative, come il fatto di
esser stata drogata e fatta prostituire con uomini e, forse, di essere stata coinvolta in un omicidio.
Il dissidio Freud-Ferenczi, però, può essere ricondotto anche alle diverse idee dei due autori sul
trauma. Freud, con la teoria della seduzione, ha inizialmente posto alla base della patologia un
trauma sessuale effettivo, messo in atto da un adulto nei confronti del bambino e ad un’età precoce,
inferiore ai 4 anni, nell’isteria, ma posticipata, ovvero nel corso della seconda infanzia, per quanto
riguarda la paranoia. Egli ha iniziato ad avere i primi dubbi su questa teoria quando ha riscontrato
l’enorme vastità del fenomeno e, incredulo di fronte a tanta perversione da parte degli adulti, ha
attribuito al trauma una connotazione fantasmatica. Ferenczi, al contrario, non ha mai considerato
l’abuso una fantasia del bambino e l’ha attribuito in primo luogo ai genitori e, in seconda istanza, ad
altri adulti vicini alla famiglia: al contrario del Maestro, non ha avuto dubbi sulla veridicità di questi
dati, dal momento che molti suoi pazienti adulti gli han riferito di aver fatto violenza a dei bambini
in prima persona. Egli ha attribuito al trauma sessuale le più gravi manifestazioni psicopatologiche
e riteneva che l’analisi avesse l’obiettivo di ricrearlo non in via allucinatoria, bensì oggettivamente
e come un ricordo, oltre che di ricostruire la fiducia che è stata distrutta nel bambino abusato.
Nel saggio “Thalassa”, Ferenczi ha messo insieme Biologia e Psicologia ed ha intrapreso un
percorso a ritroso, sino ad arrivare al punto in cui ciò che è organico e ciò che è inorganico si
incontrano nell’unità dei simboli. Egli, infatti, credeva che i simboli riguardassero ogni cosa,
persino le particelle subatomiche: nel suo pan-simbolismo, ognuno di essi è dotato di un significato
proprio e l’universo stesso si fonda su leggi simbolicamente coerenti. Ha introdotto, quindi, la
nozione di inconscio biologico, rendendo l’essere umano un’espressione simbolica, che ha in sé il
significato della sua stessa esistenza. Ha fondato, così, una prospettiva bioanalitica, in cui lo
strumento di lavoro è l’ultraquistico, ovvero il tentativo di descrivere un fenomeno riferendosi ad
altre discipline rispetto a quelle che tradizionalmente lo studiano e servendosi, anche, di strumenti
da esse mutuati; in questo modo, ha annullato il confine tra scienze naturali e dello spirito, dal
momento che egli credeva che qualsiasi problema fisico o fisiologico potesse essere spiegato in
termini psicologici e qualsiasi problema psicologico potesse essere spiegato in termini fisici. In
“Thalassa”, il tema centrale è dato dalle affinità che Ferenczi ha trovato tra ontogenesi e filogenesi
della sessualità, con il fine di dimostrare come lo sviluppo da lui descritto consistesse nella
riproduzione di eventi che hanno segnato la storia evolutiva della specie: lo strumento utilizzato per
questo scopo è, chiaramente, la bioanalitica. Uno dei concetti cardine di questo tipo di analisi è dato
dall’anfimissi degli erotismi: lo sviluppo sessuale non viene più visto come una riorganizzazione
degli erotismi parziali al di sotto del superiore erotismo genitale, bensì come il risultato della
fusione degli erotismi anale ed uretrale, fusione che si esplica anche su un livello biologico,
attraverso la coordinazione delle innervazioni dei due apparati. Già prima ancora del
raggiungimento della genitalità, i due erotismi si influenzano reciprocamente: mentre nella funzione
anale il piacere è dato dalla ritenzione, in quella uretrale deriva, al contrario, dall’emissione; il
risultato è che “il retto insegna la conservazione alla vescica e la vescica insegna a sua volta al retto
la generosità”, ovvero che la vescica inizia a dare piacere con la ritenzione ed il retto con
l’espulsione e l’atto eiaculatorio deriva dall’anfimissi di questi due erotismi. Per Ferenczi,
l’apparato genitale è una pangenesi, il che significa che rappresenta tutto il corpo nella sua interezza
e che diventa l’Io della persona; esso è, anche, il responsabile delle scariche sessuali, com’è facile
intuire. Durante il coito, se i due partner riescono ad annullare i confini che separano i loro due Io,
attraverso un’identificazione reciproca, possono far sì che i genitali assolvano la loro naturale
funzione. Ferenczi ha distinto tre tipi di identificazione:
- di tutto il corpo ai genitali ; 34
- della persona con il suo partner ;
- della persona con la secrezione genitale .
Il coito viene assimilato dall’autore ad un tentativo dell’individuo di tornare alla condizione
prenatale (il che è un desiderio, una tendenza biologica comune a tutti gli uomini, che si esprime, a
livello psicologico, nel complesso di Edipo) in modo simbolico (altri tentativi si ritrovano negli stati
allucinatori e nel sonno) e questo processo avviene in modo diverso a seconda del sesso:
- uomo l’intero organismo si identifica nel pene, che penetra il corpo della donna, oltre che
nelle cellule germinali, che raggiungono effettivamente l’ambiente uterino;
- donna ella si identifica, durante il rapporto sessuale, con l’uomo che possiede il pene ed
esperisce in prima persona la fantasia di avere un “pene cavo”, grazie alle sensazioni che
prova a livello vaginale. Un altro appagamento della tendenza biologica si ha con
un’identificazione al bambino che si forma dentro di lei durante la gravidanza.
Per Ferenczi, lo sviluppo del bambino si ha, in questo senso, per mezzo del passaggio dal periodo
autoplastico (anale e masturbatorio) a quello alloplastico, in cui il ritorno nel grembo materno viene
messo in atto per mezzo degli organi genitali. Il coito, tuttavia, non è solo realizzazione della
tendenza biologica, ma anche ripetizione dell’angoscia associata alla nascita, intesa non solo in
senso traumatico e facendo riferimento alle nuove richieste di adattamento, ma anche per quel che
riguarda la sensazione di vittoria che segue il superamento della condizione avversa.
Sempre in “Thalassa”, Ferenczi ha anche ripreso la teoria della biogenesi di Ernst H. Haeckel,
secondo cui lo sviluppo embrionale racchiude in sé quello della specie umana, ed ha ipotizzato che
il grembo materno potrebbe essere, in realtà, il mare che, prosciugandosi e costringendo molti
animali a spostarsi a vivere sulla terra, avrebbe determinato in loro il desiderio di un ritorno alla vita
precedente: per cui, la nascita richiama sia l’angoscia dell’obbligo di adattamento alle nuove
condizioni di vita sia la gioia della sopravvivenza e queste sensazioni sarebbero esperite,
nuovamente, durante il coito. In questa accezione, la genitalità diventa il punto in cui vengono
rivissute le catastrofi ontogenetiche e filogenetiche.
Ferenczi ha paragonato, poi, l’autotomia di alcuni animali con la rimozione, arrivando a teorizzare
una rimozione organica ed un inconscio biologico, presenti negli esseri viventi e contenenti le
tendenze arcaiche di funzionamento. In questo modo, il coito ed il sonno sono dei momenti in cui
l’individuo regredisce ad un livello pre-umano e prenatale, raggiungendo la pace inorganica a cui
anela e che diventa la spiegazione di tutti i fenomeni biologici. Un esempio di ciò è dato
dall’alimentazione, sicuramente un bisogno biologico: essa inizia, nell’uomo, con l’allattamento e
varia con la crescita, arrivando a comprendere sia piante sia animali. Anche gli altri animali, però, si
nutrono a loro volta di carne o di piante, secondo quanto stabilito dalla catena alimentare: in questo
modo si innesca una filofagia o consunzione degli avi, con cui l’uomo si collega a tutti i suoi
antenati mangiando gli animali inferiori.
Ciò che quindi muove l’evoluzione è il desiderio di tornare ad una condizione antecedente la vita.
Un’altra opera importante di Ferenczi, criticata da Freud, è “Confusione di lingue tra gli adulti e il
bambino”, in cui l’autore ha ripreso la teoria della seduzione ed ha trattato il tema dell’abuso reale
subito dal bambino. Egli ha spiegato che questo ha luogo quando il bambino propone delle
situazioni ludiche all’adulto che, se ha tendenze psicopatologiche, può o travisarle e scambiare il
piccolo per una persona matura dal punto di vista sessuale o mettere in atto dei comportamenti
sessualizzati senza prima pensare a quelle che potrebbero essere le conseguenze. Il bambino, a
questo punto, cede di fronte all’adulto e si identifica all’aggressore per difendersi dall’angoscia che
prova: in questo modo, però, ne introietta il senso di colpa e l’aggressore si comporta, dopo, come
se non fosse accaduto nulla od assumendo degli atteggiamenti moralistici. Il bambino finisce per
sentirsi confuso ed in colpa e questo ultimo vissuto gli impedisce di confessare quel che gli è
successo. Gli effetti di un abuso sessuale che si riscontrano in età adulta sono molto gravi e la
personalità del traumatizzato può andare incontro sia ad una regressione finalizzata a recuperare
l’armonia di cui si godeva prima che l’abuso avesse luogo sia ad una progressione traumatica, per
cui, al contrario, il bambino sviluppa precocemente la capacità di provare emozioni ed attitudini che
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sono tipici della vita sessuale degli adulti. Se i traumi si ripetono, aumentano le dissociazioni ed il
bambino si identifica con ognuna di esse, arrivando a sviluppare una personalità atomizzata, che
genera confusione. La cura, ancora una volta, è, per Ferenczi, basata sulla costruzione di un
rapporto di fiducia.
Mihály (Michaël) Balint. L’amore primario
Balint, erede di Ferenczi, non si è mai discostato dalla teoria pulsionale, sebbene vi abbia apportato
dei cambiamenti. Mentre per Freud le fasi pregenitali non sono necessariamente legate
all’insorgenza di problemi, per Balint i fenomeni ad esse associati diventano la manifestazione di un
rapporto povero tra il bambino e le sue figure genitoriali e, per interpretare tali fenomeni, l’analisi
deve essere considerata come articolata su due livelli:
- livello pre-edipico o pregenitale Balint lo ha definito “livello di difetto fondamentale”
(non ha fatto riferimento, quindi, ad alcun complesso o conflitto) ed è caratterizzato da una
relazione diadica, con processi psicologici che sono, di conseguenza, più semplici. Il
paziente che abbia raggiunto questo livello non mostra alcun riconoscimento all’analista.
Presso Balint, il termine “difetto” va inteso per come viene utilizzato in ambito geologico e
cristallografico, ove sta ad indicare un’anomalia strutturale che è possibile vedere quando si
esercita una pressione sul minerale: il difetto fondamentale, quindi, è una deficienza nello
psichismo, che si estrinseca in una richiesta di aiuto e che non può essere risolta, ma solo
sclerotizzata. L’aggettivo “fondamentale” indica la rilevanza che questo difetto assume per
quanto riguarda lo sviluppo della personalità del soggetto. Il difetto fondamentale si origina
per via del divario esistente tra i bisogni del bambino e le cure che riceve e le cause possono
essere sia congenite sia ambientali. In questa prospettiva, non è importante solo un partner,
il bambino, ma anche l’altro, il caregiver, che può soddisfarlo o frustrarlo;
- livello edipico o genitale è caratterizzato da una relazione triangolare. Il paziente che
abbia raggiunto questo livello si mostra grato all’analista. Balint ha definito l’area edipica “il
complesso centrale”, perché è un’esperienza comune a tutti che diventa particolarmente
importante nel determinare le future relazioni dell’individuo;
- livello della creatività è caratterizzato dal numero uno ed a questo livello ci sono non
oggetti ma solo pre-oggetti, che diventeranno oggetti veri e propri per mezzo della
creazione. Risulta l’impossibilità di qual si voglia relazione oggettuale o transfert: il
soggetto, infatti, è da solo e si preoccupa solo di produrre qualcosa all’esterno. A quest’area
dello psichismo appartengono fenomeni come la creazione artistica e l’elaborazione di
teorie. Per Balint, questa fase è la terza nella successione con le altre due di cui sopra, che
inizia, quindi, con il livello del difetto fondamentale: egli spiega questa convinzione facendo
riferimento al fatto che, come provato dall’embriologia, capita non di rado che una struttura
regredisca o sparisca.
Un altro contributo importante di Balint riguarda il narcisismo. Nei suoi “Tre saggi sulla teoria
sessuale”, Freud ha descritto la pulsione sessuale come indirizzata ad un oggetto esterno, quindi al
proprio Io (autoerotica) e, infine, ad un oggetto, ove però ogni relazione oggettuale non sarebbe
altro che una riscoperta. In una rielaborazione successiva, ha posto l’autoerotismo come prima fase,
seguita dallo stadio narcisistico e, solo dopo, dai rapporti oggettuali. In “Introduzione al
narcisismo”, ha proposto un’ulteriore revisione, definendo il narcisismo primario (in cui la libido è
tutta investita sull’Io) come il rapporto più precoce che l’individuo sviluppi con l’ambiente in cui si
trova: tale condizione viene meno quando il bambino comincia ad investire libidicamente sulle
rappresentazioni degli oggetti, tramutando la libido narcisistica in libido oggettuale. Balint, invece,
ha considerato il narcisismo libidico come sempre e solo secondario, dal momento che ha ipotizzato
un rapporto primario con l’ambiente già nel corso della vita intrauterina, quando il feto, il liquido
amniotico e la placenta si compenetrano l’un l’altro, come il pesce con il mare, per cui non ha senso
distinguere tra loro queste entità così “mescolate”. E’ la nascita a compromettere questa
mescolanza, cambiando l’ambiente con cui il bambino si deve relazionare e richiedendo un
adattamento: l’Io del bambino comincia, così, a strutturarsi gradualmente e ad instaurare una
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relazione con l’esterno che non sarà mai, tuttavia, armoniosa quanto lo era quella più arcaica; i suoi
sforzi libidici restano, quindi, ancorati al tentativo di tornare alla condizione preesistente. Di
conseguenza, è la nascita a favorire la differenziazione dell’individuo dall’ambiente, cioè del Sé
dagli oggetti, anche se rimane un oggetto primario (la madre), che si occupa della soddisfazione dei
bisogni del neonato e che, essendo ovviamente disponibile (proprio come ovvia era l’armonia dello
stato precedente), diventa oggetto dell’amore primario. La fase più precoce della vita mentale si
configura in una relazione oggettuale passiva, in cui il bambino ha la pretesa di essere amato senza
dover dare nulla in cambio e questa speranza di essere amato e soddisfatto perdura per tutta la vita.
Tale avidità del bambino è solo una delle conseguenze della nascita: l’altra consiste nella messa in
atto di una serie di strategie volte a ristabilire l’equilibrio perduto. Se le relazioni oggettuali si
contrappongono alla condizione di armonia, sono possibili, in questo periodo che è quello della
prima infanzia, quattro forme di investimento libidico:
- il ritiro della libido sull’Io
- il trasferimento dei residui dell’investimento ambientale precedente su nuovi oggetti che
stanno emergendo;
- l’amore oggettuale attivo, in cui si ha la gratificazione del partner per ricevere amore;
- la creazione di determinate strutture di personalità, che derivano dalla scoperta che la madre
è un essere separato, con interessi propri e diversi. Queste strutture sono alla base di due
tipologie di carattere, che rappresentano i casi più rilevanti di difetto fondamentale e, salvo
che in casi estremi, non sono patologiche:
1. ocnofilia il bambino investe sugli oggetti che stanno affiorando e che percepisce
come benigni ed avverte gli spazi che li separano come minacciosi. La persona
ocnofila cerca continuamente qualcuno da cui dipendere e vive la separazione in
modo angosciante. Attribuisce al partner i suoi interessi e desideri per ristabilire
l’armonia perduta. E’ pessimista, indecisa ed incerta;
2. filobatismo il bambino percepisce gli spazi come sicuri e gli oggetti come
pericolosi e, di conseguenza, non investe su di essi ma sulle funzioni dell’Io,
sviluppando una spiccata autonomia. La persona filobata evita le relazioni con gli
altri e fa affidamento solo su se stessa. Ha come partner gli spazi aperti, come le
montagne ed il mare, con cui sviluppa una forte armonia. E’ ottimista ed ama
l’azione, l’avventura ed il rischio.
Secondo Balint, il fine ultimo della vita adulta dell’uomo, in accordo con Ferenczi, è ritrovare
l’armonia fetale: questo è quasi possibile attraverso una serie di esperienze, come l’estasi religiosa,
la creazione artistica e l’orgasmo. Ciò nonostante, egli ha distinto l’amore genitale (o adulto) dal
soddisfacimento genitale ed ha differenziato le varie espressioni dell’amore facendo riferimento al
senso di realtà. L’amore oggettuale si sviluppa in modo graduale e, dato che la prima relazione
oggettuale è, in vero, priva del senso di realtà, allora la forma d’amore più primitiva si caratterizza
dalla mancanza di senso di realtà nei confronti dell’oggetto: questo è l’amore dell’Es, che si
mantiene per tutta la vita. Con l’adattamento alle esigenze sociali, si sviluppano le forme di amore
che sono tipiche dell’Io e l’amore genitale va oltre il soddisfacimento genitale, così come è più di
una relazione caratterizzata dalla disponibilità dei partner. In esso, infatti, compaiono anche altri tre
elementi:
- l’idealizzazione è una barriera per lo sviluppo di un amore maturo;
- la tenerezza come l’idealizzazione, è una qualità primitiva dell’amore;
- la conquista è finalizzata a trasformare un partner ostile o disinteressato in un partner
disponibile ed avente gli stessi interessi e desideri ed ha luogo attraverso preliminari ed
adattamento all’oggetto.
L’amore genitale richiede una relazione oggettuale che veda i due partner coinvolti, anche, da un
punto di vista emotivo, oltre che in grado di bypassare, attraverso un’illusione, la separazione tra il
Sé e l’oggetto costituito dall’altro, per diventare un’unica entità. Come l’arte e la religione, questo
tipo di amore è un prodotto sociale ma, dal momento che l’organizzazione stessa della società
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richiede una regressione verso forme di amore più infantili, si presenta come un insieme di tratti
inerenti sia il soddisfacimento genitale sia la tenerezza pregenitale. Lo scopo ultimo dello sviluppo
è il raggiungimento di un amore genitale e, di conseguenza, lo scopo dell’analisi deve essere quello
di rendere il paziente in grado di amare senza provare angoscia. Balint, quindi, proprio come
Ferenczi, ha attribuito importanza al terapeuta ed alle sue capacità empatiche all’interno della
relazione analitica.
Béla Grunberger. Il narcisismo
Quello del narcisismo è un tema che ha interessato molto gli analisti ungheresi.
Freud ha identificato un narcisismo primario, in cui il bambino investe su di sé, ed un narcisismo
secondario, caratterizzato da investimenti libidici oggettuali: ha, quindi, distinto la libido dell’Io da
quella oggettuale, mettendo in luce come nell’innamoramento la libido sia investita sull’oggetto e,
al contrario, come essa ricada su parte del corpo della persona nel caso dell’ipocondria. Questa
teoria, comunque, è stata soppiantata da quelle successive, fino ad arrivare ad una perdita del
legame tra Io e narcisismo e ad una visione degli investimenti libidici sull’oggetto come non più
provenienti dall’Io, bensì dall’Es.
Grunberger ha estremizzato due espressioni di Freud inerenti il narcisismo, che sono quella di
“narcisismo fetale” e quella di “narcisismo della cellula germinale”, vedendole come caratterizzate
da un’energia neutra. Ella ha, quindi, formulato l’ipotesi secondo cui il narcisismo costituirebbe
un’istanza, ovvero una configurazione dinamica autonoma e con le proprie peculiarità; in questa
visione, esso è slegato dalla pulsione ed associato all’esperienza armoniosa di appagamento della
condizione prenatale. Ha, perciò, creato l’istanza del Sé narcisistico e, riferendosi al concetto di
coazione a ripetere freudiano (che egli aveva posto alla base del Thanatos), ha ipotizzato che l’Io
tenda a ripetere tutte quelle situazioni in cui non vi sia stato un soddisfacimento per via
del’interferenza di un trauma precoce durante lo sviluppo: la conseguente ferita narcisistica non può
essere sanata, in quanto troppo precoce; ripetere, perciò, non serve a riparare il danno, ma a
ricercare la condizione antecedente alla nascita, il che costituisce una tendenza fondamentale che è
la base dell’ipotesi del narcisismo. Per Grunberger, contrariamente che per Freud, questa tendenza
non spinge alla morte, bensì alla vita, poiché a livello inconscio non è presente alcuna informazione
circa la morte. L’autrice ha chiamato la condizione anelata “stato elazionale”, che significa stato
superlativo.
Ella ha anche rivisto i costrutti di Eros e Thanatos, sostenendo che si tratti di due difese contro la
morte e che la nostra identificazione con l’istinto di morte ci doti di un fallo narcisistico, come
accade, per esempio, al cristiano che accetti la castrazione trasformandola in un fallo potente.
In breve, Grunberger ha postulato uno stato di elazione, in cui i bisogni non possono neanche essere
percepiti in quanto tali perché vengono subito soddisfatti, il quale costituisce la matrice delle
diverse forme di narcisismo, diventandone il modello.
Anche in età adulta si può trovare uno strascico della vita fetale, che è dato dalla credenza
nell’immortalità, necessaria per affrontare la vita: il desiderio di eternità, infatti, ha radici profonde,
si ritrova a livello cellulare. Altre eredità di quel periodo sono la sensazione di invulnerabilità ed il
sentimento di infinito, anch’essi presenti ad un livello biologico.
Un tema fondamentale da affrontare per comprendere il narcisismo è quello del valore, che viene
percepito in sé e per sé, senza necessitare di conferme dall’esterno: in ogni persona, quindi, c’è un
narcisista che estima il proprio valore solo in ragione di quello che è. Chi cerca conferme circa il
suo valore, lo fa perché non è in perfetto equilibrio con se stesso, mentre, al contrario, una persona
eccessivamente sicura di sé non rientra nel patologico, poiché è portatrice di qualcosa che viene
considerato naturale e proprio dell’uomo. Grunberger ha collocato il Sé narcisistico, che cresce con
l’individuo, in una zona libera da conflitti, uno stato primitivo in cui tutto è presente in forma di
germe, comprese la sessualità e l’aggressività: la prima si esplica nella proliferazione cellulare, la
seconda nel metabolismo fetale. Dal momento che, in questa fase, tutte le attività del feto sono
sostenute dalla madre all’interno di una relazione che è unicamente unilaterale, è possibile ritrovare,
in alcuni narcisisti, la convinzione che sia loro tutto dovuto: ciò che resta è un’impronta “elazionale
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e megalomanica”. A partire da questa condizione di armonia e perfezione, si organizzano, quindi, le
varie tipologie di narcisismo ed i sentimenti ad esse associati. Dopo la nascita, il bambino cerca di
rivivere la vita prenatale attraverso il sonno ed entra nella fase del narcisismo primario, che precede
la formazione dell’oggetto: si parla, quindi, di “unione narcisistica” per far riferimento a quella non
distinzione che vi è tra Sé ed oggetto, in una “omeostasi narcisistica” caratterizzata dalla
“realizzazione allucinatoria del desiderio”. Durante l’infanzia, però, il bambino va incontro a delle
frustrazione che sfociano in un trauma dato, da un lato, dal dover assistere al crollo della sua
situazione di armonia elazionale e, dall’altro, dal trovarsi a dover far fronte ad un mondo di oggetti
e di pulsioni: ha, quindi, bisogno di essere supportato dalle figure genitoriali e, in particolare, di
trovare una conferma del suo valore negli occhi della madre, affinché possa continuare a sostenere i
suoi elementi narcisistici. Dal conflitto che si genera tra le pulsioni ed il narcisismo si origina
l’Ideale dell’Io. Intanto, mentre l’Io si sviluppa, il narcisismo resta immutabile, ma si lascia
esprimere dalle altre istanze attraverso la libido: essa proviene dall’Es e può investire
narcisisticamente l’Io, i suoi atti e gli oggetti. Grunberger ha chiamato “completezza narcisistica”
una buona integrazione tra il Sé narcisistico e le pulsioni (Io pulsionale) all’interno dell’Io. La
libido che viene investita non va persa, il che significa che, per esempio, un genitore che investa
narcisisticamente sul figlio non sminuisce il proprio narcisismo, bensì lo accresce: l’investimento
della libido, infatti, deve essere visto come collocato all’interno di una relazione dialettica tra
narcisismo ed Io.
Grunberger ha riflettuto, anche, sul processo di guarigione in analisi e si è rifatta al pensiero di
Baudouin, il quale riteneva che non esistesse una traslazione vera e propria, per via
dell’impossibilità di riesperire un vissuto semplicemente ripetendolo. Egli ha distinto la traslazione
analitica dal rapporto analitico, ove la prima è la reiterazione di un’esperienza, mentre il secondo è
dato dalla relazione. Ancorandosi al concetto di “rapporto analitico”, Grunberger ha attribuito alla
situazione analitica il merito di quelle guarigioni che avvenivano senza un’analisi del contenuto,
ovvero dei conflitti riportati nella traslazione. Secondo l’autrice, la situazione analitica innesca il
processo analitico che, dal canto suo, determina la traslazione e la fantasmatizzazione inconscia. A
supportare da un punto di vista energetico tutto questo è il narcisismo. Grunberger ha descritto lo
sviluppo come il passaggio da un’illusione di onnipotenza infantile e di amore per se stesso a
modalità di rapporto di tipo oggettuale, che insorgono quando si ha il rapporto con la realtà, ovvero
quando il bambino inizia a ricorrere alla rimozione (che, però, non risolve il problema e lo nasconde
solo) ed a proiettare la sua onnipotenza prima sui genitori e poi sulle loro imago idealizzate.
L’obiettivo dell’analisi è aiutare l’individuo ad abbandonare l’onnipotenza narcisistica e ad aprirsi
nei confronti di una relazione d’oggetto: la traslazione, infatti, altro non è che la persistenza
dell’uomo a voler restare nell’immaturità, attraverso un percorso a ritroso che lo riporti alla
condizione iniziale di amore di sé. Secondo Grunberger, il terapeuta deve garantire al paziente un
apporto narcisistico gratificando alcuni dei suoi bisogni in modo spontaneo e senza che egli lo
richieda (questo rimanda molto al periodo fetale), in modo tale da arrivare a costituire un’unità
narcisistica. Nella scelta del terapeuta, il paziente gli attribuisce il suo senso di onnipotenza
sopravvalutandolo: ne consegue che l’analista svolge il ruolo di intermediario, per permettere al
paziente di recuperare i propri sentimenti, proiettando su di lui il proprio Ideale dell’Io. “L’analista,
semplice riflesso dell’analizzando, non può essere che ciò che questi è o soprattutto vorrebbe
essere”, per citare l’autrice. Nella prima parte dell’analisi, il paziente deve disporre di una completa
libertà, essere la sola parte attiva e specchiarsi nel terapeuta: solo col tempo, infatti, può iniziare a
tollerare le frustrazioni, fino a sviluppare relazioni oggettuali; questo momento può sfociare in una
crisi, se non nella volontà dell’individuo di abbandonare l’analisi. E’ l’apporto narcisistico garantito
dal terapeuta (e qui l’autrice si avvicina a Ferenczi) a dover mantenere la volontà del paziente a
proseguire la cura. 39
VERSO IL MODELLO RELAZIONALE
Presso il pensiero di Freud, la pulsione si trova a metà tra lo psichico ed il somatico ed è principio
motivazionale, il che significa che tutto il comportamento umano è un’espressione delle pulsioni
primarie, che possono essere sessuali od aggressive. In questo modello, l’oggetto è inteso come quel
qualcosa verso cui la pulsione è diretta ed in relazione al quale essa può pervenire alla sua meta.
Anche l’attaccamento del bambino alla figura materna, pertanto, va ricondotto ad una gratificazione
pulsionale. Interessanti sono, in questo ambito, gli studi che Harlow ha condotto sulle scimmiette
rhesus, che hanno consentito di osservare come queste avessero una tendenza naturale a preferire il
sostituto materno a cui potersi aggrappare rispetto a quello che dispensava cibo: secondo quanto
scoperto dallo studioso, quindi, non è vero che i comportamenti sono tutti legati a gratificazioni
pulsionali poiché, se così fosse, le scimmiette avrebbe preferito il fantoccio in grado di soddisfare la
loro fame: esiste, quindi, una gratificazione non ascritta ad una pulsione. Una tendenza a legarsi ad
un oggetto in grado di donare sicurezza per mezzo del contatto fisico è riscontrabile, anche, nel
neonato ed è proprio sulla soddisfazione di questo tipo di bisogno che si può fondare uno sviluppo
adeguato, ovvero a partire da relazioni oggettuali idonee. George e Mitchell, introducendo il
modello kleiniano, hanno affermato che la pulsione può essere dedotta solo attraverso l’oggetto,
poiché sono le relazioni oggettuali che si creano a dar ragione del tipo di pulsione; inoltre,
specifiche relazioni sono in grado di influenzare quelle che l’individuo creerà nel corso della vita
futura.
Melanie Klein, quindi, ha definito un oggetto interno come la rappresentazione psichica di altro, che
il soggetto utilizza per capire come comportarsi nel mondo esterno e, pure, per provare a prevedere
il comportamento altrui. Gli oggetti interni sono, inoltre, i resti a livello mentale di quelle che sono
state le relazioni più importanti della persona. L’oggetto, quindi, passa da essere concreto (nel
modello pulsionale) a costituirsi come un’immagine (con Klein) ed il mondo interno dell’uomo
appare costellato di oggetti interni.
Melanie R. Klein. Tra pulsioni e relazioni
Freud ha fatto riferimento, per spiegare la malattia dei suoi pazienti e facendo leva sui loro ricordi,
all’infanzia, pur senza essersi mai occupati di osservazioni dirette su bambini. Melanie Klein, al
contrario, ha scelto i bambini come pazienti ed ha proposto le sue teorie sull’infanzia come un
ampliamento del pensiero freudiano: ciò nonostante, è stata accusata di aver tradito l’ortodossia
psicoanalitica e dalla dispute che ne è nata si sono originati tre correnti nella Società Psicoanalitica:
- gruppo “A” orientato verso l’ideologia kleiniana;
- gruppo “B” fedele a Freud;
- Middle Group raccoglieva la maggioranza degli analisti, tra cui Winnicott.
Klein, sebbene abbia parlato di relazioni oggettuali, non rientra nel modello delle relazioni di
oggetto, dal momento che l’oggetto che ha studiato (la madre) l’ha considerato interno e non
esterno.
La vita
Melanie Klein è nata a Vienna, in una famiglia di origine ebraica, da un padre molto più vecchio ed
emotivamente scostante ed una madre invece disponibile ed intellettualmente vivace. Si è sposata, a
21 anni, con l’ingegnere Klein, per poi capire quanto il matrimonio avesse deluso le sue aspettative
e provare un senso di solitudine inserito in un quadro depressivo: per cercare di chiarire questo
aspetto, è entrata in analisi da Ferenczi, che ha avuto il merito di ispirare il suo interesse verso
l’infanzia; il successivo incontro di Klein con Freud ha formalizzato l’ingresso di lei nel mondo
della Psicoanalisi. Con il crollo dell’Impero Austro-Ungarico e l’antisemitismo dilagante, Klein ha
accettato l’invito di Abraham a trasferirsi a Berlino, ove si è stabilita con i tre figli, una volta
separata dal marito. Qui ha continuato la sua analisi infantile, senza mai ricevere il consenso dei
colleghi, eccetto Abraham, che è stato anche il suo terapeuta fino a che non è mancato. Klein si è
trasferita, quindi, a Londra, ove le sue idee hanno riscosso molto successo al punto da allarmare lo
stesso Ferenczi, che ne ha messo al corrente Freud. Lo scontro si è giocato, però, tra Klein e la figlia
del Maestro Anna Freud e si è protratto a lungo; un inasprimento ha avuto luogo con lo spostamento
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in Inghilterra di molti analisti provenienti dalla Germania, a seguito dell’avvento nazista, analisti
fedeli all’ortodossia freudiana. Klein, in particolare, ha rimproverato in Anna Freud il fatto di
escludere la nevrosi di transfert nel bambino e, quindi, di eliminare l’elemento necessario all’analisi
a priori. Il confronto con Vienna l’ha stimolata ad approfondire ulteriormente il suo lavoro e Klein è
stata produttiva fino alla fine, sopraggiunta dopo la rimozione di un tumore in un contesto di forte
solitudine, la stessa che aveva caratterizzato la sua giovinezza.
L’analisi infantile
Nella descrizione dello sviluppo di Freud, una posizione di rilievo è occupata dall’evoluzione della
libido, che si articola negli stadi psicosessuali: una fissazione od una regressione ad uno di essi può
determinare il ritorno ad un funzionamento precedente , nonché un blocco della libido che causa un
soddisfacimento inadeguato del desiderio.
Anna Freud, per spiegare la genesi di una nevrosi infantile, ha fatto riferimento allo sviluppo dell’Io
ed alla sua capacità di arginare le pulsioni ed ha descritto, quindi, una condizione di “normalità”
come caratterizzata da un buon equilibrio tra l’Io e le pulsioni dell’Es, ovvero da un’adesione al
principio di realtà nella gratificazione dei propri bisogni e desideri. Il sintomo nevrotico si configura
come segno dell’incapacità dell’Io a compiere il suo ruolo di controllo sulle pulsioni. L’analisi del
bambino, comunque, implica una serie di difficoltà che sono legate ai seguenti fattori:
- la sua immaturità;
- la sua non consapevolezza del problema;
- la mancanza di una motivazione a raggiungere una condizione di “normalità”.
Per condurre l’analisi infantile è fondamentale instaurare una relazione di transfert, che agevoli
l’interpretazione dei sogni, delle difese e dei disegni, i quali sono il principale strumento
comunicativo, al contrario delle libere associazioni, valide solo per l’adulto. Il gioco, invece, non è
interpretabile perché si basa sul principio di piacere ed è proprio questo il massimo impedimento a
fare della psicoanalisi infantili. La funzione del terapeuta, quindi, è di tipo educativo, ma a questa si
associa il fornire al bambino un Io ausiliario per permettergli di superare l’angoscia ed il favorire le
sublimazioni.
Klein, al contrario, ha proposto che ci si trovi di fronte ad una nevrosi ogni qual volta il bambino si
mostri incapace di superare un conflitto psichico: particolari indici rivelatori di angoscia sono le
fobie, i disturbi del sonno e dell’alimentazione, i disturbi funzionali come i tic, l’incontinenza
urinaria e turbe psicomotorie; tutti questi hanno in sé un valore simbolico, che consente di
individuare il momento evolutivo a cui sono legati. Secondo la prospettiva kleiniana, comunque,
l’assenza di sintomi non è indicativa dell’assenza di una nevrosi, dal momento che poterebbe celare
una repressione pulsionale eccessiva da parte del bambino: di conseguenza, due criteri utili per
rilevare un conflitto sono, anche, l’adattamento eccessivo alle esigenze educative e la rimozione
della vita immaginativa. Essendo il gioco un’attività naturale per i bambini, una sua inibizione non
può che essere considerata come associata ad ansia e sensi di colpa, nonché una manifestazione del
fatto che il bambino, che non trova piacevole il gioco, si stia difendendo dalle fantasie in esso
riprodotte. Altri criteri importanti sono costituiti dalla reazione al bambino di fronte ad un regalo,
che può essere di delusione od indifferenza se i regali diventano simbolo di doni d’amore a cui egli
ha dovuto rinunciare, a cui si aggiunge la tolleranza alla frustrazione e, in questo ultimo caso, sia un
desiderio non gratificato sia una richiesta di adattamento all’ambiente possono condurre ad un
vissuto punitivo. Tutti questi elementi diagnostici non vanno a valutare le capacità adattive del
bambino, bensì le risorse di cui egli dispone o meno per la risoluzione dei suoi conflitti. Il sintomo,
di conseguenza, non deve essere eliminato ma compreso, in modo tale da capire come la nevrosi
inibisca lo sviluppo. Klein, quindi, ha individuato nella tecnica del gioco la via regia all’inconscio
infantile (soprattutto a seguito degli insuccessi riportati con il metodo verbale, pure quello del
colloquio libero), dal momento che è in esso che vengono riprodotti, in forma simbolizzata, le
fantasie e le esperienze; l’analisi del bambino, eccezion fatta che per la tecnica, è di per sé uguale a
quella dell’adulto. L’intento dell’autrice era quello di utilizzare il gioco per scoprire il rimosso del
bambino ed i suoi punti di fissazione, per eliminare le inibizioni e per promuovere nuovi interessi.
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Nel gioco, il bambino esprime pulsioni sessuali ed aggressive e fa assumere ai suoi personaggi dei
ruoli diversi, il che gli consente di superare i conflitti che prova, nel mondo reale, con quei
personaggi. Il gioco che ha luogo durante una seduta analitica, però, non è quello naturale, in quanto
influenzato dalla presenza del terapeuta: esso viene sollecitato attraverso la presenza di giocattoli
tradizionali, di altri facenti leva sull’immaginazione del bambino (per esempio, il materiale per
disegnare) e, infine, di un lavandino. Fondamentale nel processo del gioco è l’invenzione dei
personaggi: attraverso queste personificazioni, il bambino può esprimere le proprie identificazioni e
soddisfare fantasmaticamente i suoi desideri; questo non accade nel caso dei bambini schizofrenici,
che ripetono solo azioni in modo monotono e non danno luogo ad alcuna personificazione. Il gioco
del bambino è rivelatore del tipo di atteggiamento che egli ha nei confronti del mondo reale.
Un’altra ipotesi di Klein ha a che fare con la formazione del Super Io, che avverrebbe con il
passaggio da un Super Io minaccioso ad uno più reale ed ispirato alle figure genitoriali, con un
passaggio attraverso personificazioni con qualità buone e cattive. L’analisi del gioco aprirebbe, in
questo senso, la strada alla comprensione delle trasformazioni cui andrebbero incontro queste
personificazioni, diverse nei vari stadi di sviluppo: il contrasto tra le personificazioni sarebbe
direttamente proporzionale all’insufficienza nel processo di integrazione. Un Super Io formatosi da
immagini tra loro in conflitto diventerebbe, tra l’altro, indicativo di uno scarso equilibrio tra Super
Io, Es e realtà. Klein ha considerato due elementi come necessari al processo di personificazione nel
gioco, che sono la scissione e la proiezione, senza i quali non sarebbe possibile spostare il conflitto
intrapsichico verso l’esterno.
Per quanto riguarda il rapporto tra il bambino ed il mondo reale, anch’esso evincibile dal gioco,
permette di identificare diverse “tipologie” di bambini:
- bambini schizofrenici si assiste ad una rimozione della fantasia e ad un distacco completo
dalla realtà;
- bambini paranoici domina l’illusorio, poiché il rapporto bambino-realtà è in balia
dell’attività fantastica;
- bambini nevrotici le fantasie legate al gioco sono associate ad un forte senso di colpa,
con la manifestazione, nel gioco, di un bisogno di punizione;
- bambini sani giocano esercitando, in questo modo, il loro controllo sulla realtà.
I bambini con patologie gravi provano una forte angoscia associata ad una rimozione delle fantasie
ogni volta che devono adattarsi alla realtà e questo impedisce lo sviluppo della capacità simbolica,
determinando un’impossibilità a creare una vita fantasmatica. Klein, quindi, cercava di aiutare i
bambini ad eliminare la rimozione delle fantasie, che provava a far esprimere più liberamente anche
se in modo adeguato rispetto alla realtà. Nell’eziologia dei disturbi psicotici, un ruolo fondamentale
è giocato da un Super Io sadico, generato molto precocemente, agli inizi dello sviluppo dell’Io. La
tecnica dell’analisi del gioco consente, in questi casi, di analizzare le fasi in cui si è formata la
struttura superegoica e di permettere lo sviluppo di imago più positive, associate allo stadio orale
della suzione.
La teoria
Nella sua opera “La psicoanalisi infantile”, Klein ha raccolto le sue teorie sviluppate grazie
all’analisi del gioco. Ella ha scoperto la presenza di una forte angoscia nelle prime fasi dello
sviluppo, che l’ha portata a sostenere l’esistenza dei meccanismi dell’introiezione e della proiezione
fin dalle origini della vita psichica, con la conseguente presenza di un’attività fantasmatica. Freud
ha parlato di fantasia in due accezioni, ovvero per far riferimento all’appagamento di un bisogno
conscio od inconscio e per intendere un processo alla base di un contenuto manifesto. Egli ha
definito le fantasie primarie come un patrimonio comune al genere umano, alla base della
formazione della vita fantasmatica, tra cui vi è, anche, la paura dell’evirazione. Klein ha esteso il
concetto di fantasia, che Isaacs ha definito come “il contenuto primario dei processi mentali
inconsci”: ogni attività mentale, quindi, deriva dalle fantasie inconsce, che sono sempre attive e si
originano dalle pulsioni. Di conseguenza, gli impulsi, che generano un’attività fantasmatica
subitanea, attivano un oggetto a cui rivolgersi; le fantasie, quindi, implicano una conoscenza
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inconscia ed innata degli oggetti. Ogni oggetto, o meglio ogni relazione con un oggetto, può
elicitare una sensazione più o meno piacevole a seconda della sua qualità gratificante o frustrante,
motivo per cui il bambino affamato fantastica la presenza di un oggetto cattivo nel suo corpo e
quello allattato la presenza di un oggetto buono. La fantasia, inoltre, esprime i meccanismi di difesa
attivati contro le pulsioni, quali l’introiezione e la proiezione, che Ferenczi aveva associato,
rispettivamente, agli impulsi orali ed a quelli anali. Abraham ha il merito di aver dimostrato il
carattere non patologico dell’introiezione, che si presenta in tutte le relazioni dell’uomo e che
permette l’ingresso degli oggetti nell’Io e la sua conseguente modifica che fa sì, anche, che tutte le
persone portino dentro di sé coloro che hanno amato. Tra le esperienze relazioni reali e quelle
fantasmatiche interne corrispondenti, non va dimenticato esistere una reciproca influenza: questo
equivale a dire che tutte le esperienze reali sono accompagnate dalla fantasia inconscia e le due
influiscono l’una sull’altra; la fantasia, dunque, è una funzione dell’Io. Klein, quindi, ha collocato la
genesi del Super Io in fase orale, come risultato dell’introiezione di oggetti buoni e cattivi ed uno
dei primi oggetti ad essere introiettato è il seno materno: gli oggetti introiettati portano alla
creazione del Super Io ed all’arricchimento dell’Io, che esiste già dal momento della nascita e che si
può identificare con alcuni di essi per mezzo dell’identificazione proiettiva, restando, invece,
separato da altri. In questo modo, Klein ha anticipato, anche, l’Edipo, ponendolo a cavallo tra il
primo ed il secondo anno di vita, in uno stadio caratterizzato da un forte sadismo, in cui il bambino
incorpora gli oggetti edipici. Questo sadismo è fondamentale per la costruzione delle prime imago e
viene proiettato, in parte, sugli oggetti esterni, la cui introiezione determina, poi, il Super Io: questo
spiega il carattere di severità superegoica riscontrabile precocemente. Il bambino proietta la sua
aggressività sui genitori perché li teme in quanto mete delle sue pulsioni aggressive e questo gli
provoca angoscia: tuttavia, la successiva introiezione degli oggetti determina un accoglimento,
anche, di questa componente sadica; è solo con l’attenuarsi del sadismo che nel bambino va via via
diminuendo il terrore associato alle imago. Klein non si è limitata ad introdurre, come ha fatto
Freud, il Super Io nell’ambiente psichico, ma vi ha aggiunto due oggetti, che sono le imago del seno
della madre e del pene del padre e che formano il nucleo superegoico. Il seno-madre ed il pene-
padre sono contemporaneamente buoni e cattivi e rappresentano le prime imago delle figure
genitoriali appaganti e vendicative, oltre a costituire gli oggetti delle prime identificazioni dell’Io. Il
complesso edipico rende più complesso il mondo interno del bambino e comincia con la fase del
sadismo orale; le teorie di Klein su questo periodo dello sviluppo non derivano da osservazioni
dirette, ma dall’interpretazione delle fantasie dei suoi pazienti (che l’hanno già superato): tale
interpretazione l’ha portata ad asserire che già a due anni i bambini esplicitino una netta preferenza
per il genitore dell’altro sesso. La fase edipica di Klein è caratterizzata da una forte spinta a
conoscere nel bambino, a cui si somma una finalità distruttiva, in linea con la pulsione di morte, che
Freud ha definito come una tendenza all’autodistruzione. Nella fase sadico-orale, infatti, il bambino
vuole impadronirsi del contenuto del corpo materno ed annientare la madre e tutto questo ha luogo
allo stesso tempo dell’inizio del complesso edipico, il quale è dato dal conflitto tra gli impulsi
distruttivi e quelli conservativi dell’oggetto (per Freud, invece, il conflitto si gioca tra i desideri
libidici ed il timore di ritorsioni). Gli impulsi aggressivi generano ansia e senso di colpa, ma il
bambino separato dal seno non può che provare un’aggressività che viene rivolta, però, non alla
mammella ma all’interno del corpo della madre. Intanto, il bambino comincia ad interessarsi al pene
del padre che, come il seno, diventa oggetto dei desideri del piccolo. L’Edipo, quindi, si crea per via
dello svezzamento e dell’educazione all’igiene, che determinano un allontanamento dalla madre,
facendo sì che il bambino cominci a rivolgersi verso il padre. Egli diventerebbe, per la femmina,
oggetto d’amore, mentre il maschio comincerebbe a provare per la madre (che è il suo oggetto
d’amore) dei desideri non più orali ma genitali. Queste differenze segnano l’acquisizione
dell’identità di genere, intesa come conforme al sesso biologico. Il fatto che l’Edipo si verifichi così
precocemente nello sviluppo del bambino, fa sì che egli interpreti il coito in termini pregenitali, cioè
orali ed anali: le sue fantasie, quindi, gli suggeriscono un’immagine del rapporto sessuale tra i due
genitori come particolarmente violento, in cui la madre incorpora il pene del padre oralmente e si fa
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mettere dei bambini nel corpo. La bambina sviluppa il desiderio di privare il corpo della madre di
ciò che esso contiene, ovvero le feci, i bambini ed il pene del padre, per distruggere la figura
materna corporea: da qui sorge il timore di essere a propria volta fisicamente annientata dalla
madre. Per il bambino, invece, vale il principio della pars pro toto, il che significa che egli identifica
il padre con il pene che, penetrando nel corpo materno, crea una figura parentale combinata, sia
materna sia paterna, che viene percepita come mostruosa e terrificante e che è il simbolo del coito
violento che coinvolge i genitori: il bambino, quindi, crede che lo stesso sadismo che egli rivolge
verso i genitori sia presente nel loro rapporto e prova invidia per esserne escluso. Per Klein,
pertanto, l’angoscia del bambino in fase edipica non deriva dai suoi impulsi libidici (come per
Freud), ma da quelli distruttivi: la pulsione di morte diventa centrale.
La posizione schizo-paranoide
La scissione originaria del seno in buono e cattivo coinvolge, all’inizio dell’Edipo, il pene del padre
e queste due imago vengono introiettate per formare figure interne buone o cattive e per mettere le
basi del Super Io. Dal momento che questi fenomeni di scissione che hanno luogo, nel momento
edipicpo, in modo del tutto fisiologico, si ritrovano, in vero, nella schizofrenia, Klein ha coniato
l’espressione “posizione schizo-paranoide”. Il termine “posizione” fa riferimento ad un modello di
sviluppo in cui l’individuo non passa più attraverso degli stadi ben definiti, bensì da una posizione
all’altra, ove la posizione è vista come un agglomerato di angosce, impulsi e difese che possono
ripresentarsi nel corso della vita in determinate condizioni, ovvero come il modo in cui l’Io si
rapporta all’oggetto.
La posizione schizo-paranoide è collocata nei primi quattro mesi ed è tipica non solo della
schizofrenia, ma anche della paranoia. Il bambino, in questa posizione, dispone di un Io primitivo,
che oscilla tra integrazione e disintegrazione e che lotta contro l’angoscia derivante dalle relazioni
con gli oggetti per conservare la propria integrità. Questa angoscia è connessa alla pulsione di
morte, che si manifesta come paura di persecuzione da parte di quegli oggetti interni che si sono
originati a seguito dell’introiezione. L’Io cerca di difendersi proiettando parte della sua pulsione
distruttiva su un oggetto esterno che è il seno cattivo, mentre quel che ne resta diventa aggressività;
allo stesso modo, proietta la libido allo scopo di creare e di mantenere l’oggetto gratificante, ovvero
il seno buono, e quel che ne resta viene utilizzato per creare il legame libidico con l’oggetto stesso:
questi due processi di proiezione fanno sì che l’oggetto primario risulti scisso. A determinare
angoscia nella posizione schizo-paranoide è il timore che l’oggetto minaccioso si sposti dentro l’Io
ed annienti l’oggetto ideale ed il Sé. L’angoscia provata, quindi, è paranoide e la relazione con
l’oggetto è scissa, ovvero schizoide: da qui il nome attribuito alla posizione. Il meccanismo di
scissione, pertanto, risulta essere uno dei primi a venire utilizzati contro l’angoscia e con esso la
proiezione e l’introiezione: la prima deriva dalla necessità di spostare la pulsione di morte dall’Io a
qualcosa di diverso, la seconda è funzionale ad affrontare l’angoscia, perché consente di spostare
l’oggetto buono verso l’interno. Alla scissione si associa, anche, l’idealizzazione, ovvero una
sopravvalutazione degli aspetti buoni del seno da contrapporre a quelli cattivi, da cui ci si deve
difendere: un’idealizzazione al massimo livello porta al diniego dell’esistenza dell’oggetto cattivo,
poiché anche negare l’angoscia è una strategia per affrontarla. Talora sono le parti buone dell’Io ad
essere proiettate all’esterno e questo accade quando l’Io si identifica con gli aggressori che ha
introiettato: espellendo ciò che è buono, può salvaguardarlo dal cattivo che ha in sé. In questo
momento dello sviluppo, c’è ancora una confusione tra il Sé e l’oggetto, per cui fantasie di
introiezione di un oggetto buono sono utili per migliorare l’autostima: un’identificazione proiettiva
con un oggetto buono, infatti, finisce per rafforzare l’Io; l’introiezione di un oggetto buono è
fondamentale affinché l’Io si sviluppi correttamente, poiché è proprio attraverso introiezioni che
esso si forma e si completa. Se, tuttavia, si ha un’identificazione basata sulla proiezione di ciò che si
ha di cattivo, allora l’oggetto viene distrutto: la madre diventa un contenitore in cui il bambino
riversa le sue parti cattive e viene sentita come una parte di sé e non come un oggetto esterno
(questa è l’identificazione proiettiva). Se ne deduce, che il bambino può sviluppare delle relazioni
oggettuali positive solo se la sua identificazione parte da una proiezione delle sue parti buone: se,
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però, la proiezione è quantitativamente eccessiva, allora si corre il rischio che vi sia un
impoverimento dell’Io e questo può sfociare in una marcata dipendenza dalla madre e, poi, da altre
persone, che si configurano come Ideale dell’Io. Klein, alla stregua di Freud, considerava la
pulsione di morte una causa di angoscia, ma le attribuiva, anche, un altro ruolo, ovvero quello di
spingere allo sviluppo di meccanismi di difesa. Quando il bambino prova, oltre all’angoscia, anche
la frustrazione, non riesce a fantasticare e ad immaginare un oggetto buono: questo determina una
frantumazione del seno buono e, quindi, anche una frammentazione dell’Io, che è tipica degli
schizofrenici; la disintegrazione è una modalità estrema adottata dall’Io per affrontare l’angoscia,
dal momento che l’andare in pezzi permette di sottrarsi alla vita e, di conseguenza, anche al dolore.
La posizione depressiva
A partire dai 4 mesi, l’oggetto buono inizia a prevalere su quello cattivo e la libido sulle pulsioni
aggressive. Gli oggetti parziali, quali il seno, le mani ed il volto, cominciano ad essere integrati in
una persona unitaria e l’indebolimento della scissione fa sì che diminuiscano le proiezioni degli
aspetti cattivi di sé, con un conseguente rafforzamento dell’Io dovuto al fatto che gli oggetti esterni
non vengono più visti come molto minacciosi. Quando l’integrazione si completa, inizia la
posizione depressiva, durante la quale l’Io comincia ad avere delle imago che rappresentano sempre
meglio gli oggetti reali e, identificandosi con l’oggetto buono, finisce per non distinguerlo più da se
medesimo, arrivando alla condizione in cui la difesa di tale oggetto corrisponde a quella dell’Io
stesso. Il bambino non stabilisce più relazioni con oggetti parziali, bensì con oggetti totali e ci crea
un rapporto: questo accade, primariamente, con la madre, la quale viene riconosciuta come
individuo e ciò fa sì che il bambino possa iniziare a fare lo stesso con la sua persona; tale
condizione è preparatoria nei confronti della perdita dell’oggetto amato. Infatti, per citare Klein:
“Finché l’oggetto non è amato come oggetto totale non se ne può sentire la perdita come perdita
totale”; del resto, quando il bambino comincia a rapportarsi con la madre come con un oggetto
totale, si rende conto della sua dipendenza da ella e questo determina l’emozione della gelosia nei
confronti delle altre persone. L’angoscia della posizione depressiva, dunque, deriva dalla paura di
perdere l’oggetto amato, verso il quale il bambino prova dei sentimenti ambivalenti che lo mettono
in una situazione altamente conflittuale: egli, infatti, teme che i suoi stessi impulsi aggressivi
possano giungere a distruggere l’oggetto d’amore. I meccanismi di difesa di tipo espulsivo vengono
utilizzati sempre di meno, per via del terrore di espellere, anche, l’oggetto buono: diventano più
forti i meccanismi introiettivi, allo scopo di accogliere l’oggetto dentro di sé e difenderlo dalla
propria aggressività. L’oggetto, però, non è minacciato solo dall’aggressività del bambino, ma
anche dal suo amore, dal momento che in questa posizione egli ama ancora in modo orale: questo fa
sì, per esempio, che tema di aver divorato la madre quando non la vede più.
Per ridurre la sua angoscia, il bambino ha bisogno di vivere esperienze positive contrapposte a
quelle del lutto, che gli permettano di acquisire una maggior fiducia nei confronti sia dell’oggetto
sia del suo stesso modo di amare. Il lutto e gli impulsi riparativi indirizzati alla riparazione
dell’oggetto d’amore, sono alla base di due meccanismi:
- sublimazione quella degli impulsi distruttivi, consente di risparmiare l’oggetto amato;
- creatività nasce dal desiderio di riparare l’oggetto distrutto, attraverso una restaurazione.
Se, invece, il bambino vive esperienze negative, allora finisce per convincersi di aver perso
l’oggetto d’amore per colpa della sua avidità e questo determina un rafforzamento delle angosce
persecutorie.
La posizione depressiva non si supera mai del tutto, poiché può riproporsi se si esperisce il lutto, il
senso di colpa o l’ambivalenza, per cui, anche nella vita adulta, i rapporti ambivalenti sollevano le
angosce tipicamente depressive. Secondo Klein, è con la posizione depressiva che il bambino
acquista un senso di realtà e, di conseguenza, una regressione a questo punto comporta un ritorno
alle relazioni con oggetti parziali: l’autrice, pertanto, ha collocato le psicosi nella posizione schizo-
paranoide ed all’inizio di quella depressiva.
Una difesa a cui il bambino può far ricorso per affrontare il suo “struggimento” per l’oggetto amato
consiste nella fuga, che può avvenire: 45
- nell’oggetto buono interiorizzato l’Io introietta l’oggetto d’amore;
- in oggetti buoni esterni l’Io sviluppa forti dipendenze nei confronti di questi oggetti.
Di primaria importanza sono, tuttavia, le difese di riparazione e quelle maniacali, di cui sotto.
Le difese maniacali
Nei primi momenti della posizione depressiva, l’Io può far ricorso all’onnipotenza maniacale per far
fronte all’angoscia, poiché non è ancora sufficientemente forte da affrontarla diversamente. Le
difese maniacali sono quelle della posizione schizo-paranoide, ovvero la scissione, l’idealizzazione,
l’identificazione proiettiva e la negazione, ma sono qui più organizzate e rivolte all’angoscia
tipicamente depressiva; in particolare, si rivolgono alla dipendenza, con l’intento di negarla o
capovolgerla. Per evitare di danneggiare l’oggetto buono, il bambino nega il mondo interno o nega
la presenza in esso dell’oggetto d’amore, svilendo, in ambo i casi, ogni rapporto con esso; si
instaura, così, un rapporto maniacale con l’oggetto, il quale rapporto è caratterizzato da:
- senso di onnipotenza ;
- senso di dominio ;
- senso di trionfo ;
- senso di svilimento .
Tra le difese maniacali si annoverano le seguenti:
- il diniego la negazione del mondo interiore fa sì che si accenda il senso di onnipotenza;
- il dominio l’Io cerca di controllare l’oggetto per negare la dipendenza da esso e questo
può sfociare in iperattività;
- il trionfo il bambino desidera essere meno fragile ed apparire come i suoi genitori se non
meglio. Per far ciò, crea una fantasia di inversione del rapporto di dipendenza, arrivando a
trionfare sui genitori. Questa situazione, tuttavia, può fargli provare senso di colpa;
- lo svilimento l’Io sminuisce sia l’importanza degli oggetti buoni sia la potenza ed il
pericolo rappresentato da quelli cattivi e questo si accompagna ad una negazione del valore
stesso dell’oggetto, il che fa sì che il bambino non solo non ne senta la mancanza quando
crede di averlo perso, ma anche che non provi alcun senso di colpa.
Tutti questi sentimenti possono ostacolare, però, la riparazione dell’oggetto e far tornare gli oggetti
al ruolo di persecutori, con un conseguente ritorno delle angosce paranoidi e dei meccanismi di
difesa tipici di quella posizione, che conducono alla distruzione dell’oggetto.
La riparazione
Le difese maniacali, anche se conducono ad una svalutazione dell’oggetto e ad una negazione del
valore del rapporto oggettuale, sono tentativi di riparazione, perché finalizzati a fronteggiare
l’angoscia. Esiste, però, un’altra forma di riparazione, che si basa sull’amore e si attiva dopo diverse
esperienze di perdita e recupero dell’oggetto d’amore: infatti, quando la madre ricompare, il
bambino capisce di non amare in modo distruttivo ed aumenta la sua fiducia nelle sue capacità di
riparazione; ha, a quel punto, meno paura del suo odio e comincia a sopportare meglio la
separazione, senza cedere all’angoscia associata ai suoi impulsi distruttivi. L’angoscia che si diparte
dagli impulsi aggressivi, pertanto, è ciò da cui si originano la compassione ed i desideri di riparare.
In mancanza dei processi riparativi, il bambino finirebbe per distruggere sia l’oggetto sia il suo Io
con la propria aggressività: Klein, però, ha individuato, accanto a questi impulsi distruttivi, anche
degli impulsi riparativi ad essi contrapposti e questo antagonismo cambia il modo in cui il bambino
vede la vita; questo significa che egli cessa di vederla come in balia del sadismo e vi aggiunge
l’aspirazione di raggiungere e possedere l’oggetto di vita.
L’invidia
Se in una prima fase Klein ha tenuto separate l’angoscia depressiva e quella schizo-paranoide, pur
ammettendo una continua oscillazione tra le due posizioni corrispondenti, nella sua ultima
produzione teorica ha considerato questa visione “troppo schematica”, poiché è possibile trovare
l’angoscia depressiva già nella posizione schizo-paranoide e viceversa (l’angoscia depressiva è
rivolta alla preservazione dell’oggetto buono, quella paranoide alla difesa dell’Io). Per quanto
riguarda i possibili punti di fissazione e movimenti di regressione, assumono una grande
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importanza, in questo contesto, le esperienze positive, che devono essere predominanti rispetto a
quelle frustranti. Ci sono, però, dei fattori interni che possono ostacolare le esperienze gratificanti e
tra questi vi è l’invidia, che Klein ha aggiunto, insieme alla gratitudine ed attraverso,
rispettivamente, l’odio e l’amore, alle nozioni di pulsione di vita e pulsione di morte. Ella ha
associato l’invidia alla fase orale, introducendo il costrutto di “invidia orale”, ovvero di quella
spinta motivazionale che i bambini avvertono a penetrare nel corpo della madre, sotto l’azione,
pure, dell’istinto epistemofilico. In particolare, Klein ha potuto far chiarezza sul concetto di invidia
grazie all’analisi condotta con pazienti schizofrenici, in cui ricorreva la fantasia di penetrare in un
oggetto buono per saccheggiarlo; ha raccolto le sue teorie a riguardo nell’opera “Invidia e
gratitudine”. Per Klein, l’invidia non nasce da una frustrazione e, di conseguenza, non è
equiparabile all’aggressività; allo stesso modo, va differenziata dalla gelosia, poiché, mentre questa
si instaura all’interno di un rapporto triangolare ed anela al possesso dell’oggetto d’amore ed alla
distruzione del rivale, l’invidia provoca la sofferenza dell’individuo non in relazione all’oggetto,
bensì alla gioia altrui. L’invidia è anche diversa dall’avidità, che Klein ha definito come “un
desiderio imperioso e insaziabile che va di là dei bisogni del soggetto e di ciò che l’oggetto vuole e
può dare”: l’avidità, infatti, punta ad un’introiezione violenta dell’oggetto che non può portare con
sé alcuna gratificazione, mentre l’indivia non mira solo a svuotare l’oggetto buono, ma anche a
proiettarvi tutte le sue parti cattive per annientarlo. L’invidia, quindi, causa un’impossibilità a
stabilire delle relazioni con l’oggetto buono, che non può essere tollerato in quanto tale (è la sua
bontà a portare la sofferenza) e che viene, per lo stesso motivo, aggredito: il dolore dell’invidioso
trova una fine solo nella distruzione dell’oggetto e delle sue caratteristiche positive. L’invidia,
quindi, proprio come la pulsione di morte, distrugge quegli oggetti che sono permeati dalla pulsione
di vita ed in essa le due pulsioni, di vita e di morte, coesistono in uno stato di fusione. L’invidia è in
grado di ostacolare la scissione, dal momento che una separazione tra ciò che è buono e ciò che è
cattivo non può essere mantenuta: l’oggetto buono, infatti, provoca subito dolore e viene attaccato.
Anche la gratitudine si forma al momento della nascita ed è contrapposta all’invidia. Viene elicitata
dalla gratificazione di un bisogno, ma è da questa distinta: mentre la gratificazione deriva dalla
soddisfazione di un aspetto pulsionale, la gratitudine è un sentimento che viene provato per
l’oggetto ed è un’espressione della capacità di amare; del resto, la gratitudine è la conditio sino qua
non per stabilire un qualsiasi rapporto con l’oggetto buono e, quindi, anche un rapporto d’amore.
Conclusioni
Freud considerava la libido come diretta verso il soddisfacimento e non verso l’oggetto. Klein,
invece, credeva che gli oggetti fossero legati alle pulsioni e che fossero in grado di attivare, nella
realtà psichica del bambino, delle fantasie inerenti le relazioni tra il suo Sé e quegli oggetti. In
particolare, ella riteneva che fossero le fantasie rivolte al corpo materno a permettere la costruzione
di un primo rapporto con la realtà. In una tal visione, le pulsioni sono dotate di informazioni sulla
realtà e sugli oggetti, perché la loro soddisfazione conduce ad una scarica pulsionale solo in
relazione ad uno specifico oggetto di desiderio. Isaacs, infatti, ha affermato l’impossibilità
dell’esistenza di un desiderio senza oggetto. Di conseguenza, il bambino, fantasticando sugli oggetti
che potrebbero soddisfare i suoi desideri, non si serve di conoscenze provenienti dall’esperienza del
reale, ma di conoscenze inconsce ed innate di immagini, che fanno riferimento, in primo luogo, al
corpo della madre ed all’attività sessuale di questa con il padre.
Klein, poi, ha descritto la genesi degli oggetti interni come derivante dal disagio e dalle sensazioni
fisiche esperite dal bambino, che lo porterebbero a distinguere le gratificazioni e le frustrazioni del
soma come legate, rispettivamente, ad oggetti buoni e cattivi.
La considerazione dell’esistenza dell’oggetto è innovativa rispetto al modello pulsionale freudiano,
poiché rende le pulsioni degli eventi psichici e non le colloca più tra lo psichico ed il corporeo.
Quindi, mentre Freud credeva che le pulsioni avessero delle mete, Klein ha attribuito loro degli
oggetti. L’intero lavoro dell’autrice, in vero, sembra essere finalizzato a provare come le relazioni
oggettuali possano essere riscontrate già dal momento della nascita ed il suo lavoro si trova a
cavallo tra il modello strutturale delle pulsioni e quello delle relazioni. Il suo massimo contributo
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consiste nell’aver visto le pulsioni come dei sentimenti che possono, in quanto tali, portare alla
formazione di rapporti: in questo modo, l’uomo non è più ridotto ad un sistema di forze che devono
mantenersi in equilibrio, ma diventa un intricato insieme di relazioni in un mondo in cui coesistono
il bene ed il male.
Nel solco kleiniano
Lo scontro tra Klein ed Anna Freud si è inasprito, in particolare, quando la prima, senza avere una
formazione medica, ha presentato il tema della psicosi: questo ha fatto sì che Glover peggiorasse
ulteriormente il conflitto e che Jones, per cercare una soluzione, proponesse una serie di incontri
durante i quali ciascuno dei due schieramenti avrebbe potuto presentare le proprie teorie su base
scientifica. Nel corso di queste riunioni, Isaacs ha sottolineato come il pensiero kleiniano potesse
essere considerato uno sviluppo di quello freudiano ed anche Klein ha partecipato personalmente,
facendo però incagliare la discussione sul tema della pulsione di morte. Questi incontri, perciò, non
hanno portato ad una riappacificazione tra le due Scuole, ma sono stati funzionali a promuovere il
pensiero kleiniano ed a spingere l’autrice a meglio organizzarlo e ad espanderlo. Si è così potuta
affermare la corrente kleiniana, sotto il nome di “Scuola Inglese”, a cui hanno aderito diversi
psicoanalisti che hanno portato importanti contributi. Di essi, si parla in seguito.
1. Susan S. ISAACS ha collegato il concetto di fantasia a quello freudiano di fantasy, ove
questo ultimo fa riferimento più che altro ad una gratificazione allucinatoria (ad occhi
aperti) del desiderio, ma vi ha attribuito un significato più ampio, eleggendolo come
“rappresentante psichico della pulsione”. Ha scelto, quindi, la grafia “phantasy” per
designarlo ed ha sottinteso, con questa sua nuova concezione, che ogni processo psichico,
comprese le pulsioni, si esprima per mezzo di fantasie inconsce (presenti già dalla nascita).
2. Paula HEIMANN si è occupata del controtransfert, senza ricevere, però, l’appoggio di
Klein, che lo considerava un’intromissione tra paziente ed analista. Heimann, al contrario,
credeva che fosse la risposta del terapeuta nei confronti dell’analizzando e che, quindi,
potesse essere utile per addentarsi nell’inconscio di questo ultimo. Ella lo considerava una
reazione al transfert che, pertanto, diventava più accessibile mediante la lettura del
contenuto controtransferale. Questa divergenza di opinioni ha determinato l’uscita di
Heimann dal gruppo dei kleiniani, dopo la proposta della teoria dell’invidia da parte di
Klein. Le sue teorie sul controtransfert, comunque, sono state accolte da altri analisti, primo
fra tutti Bion, convinto che il terapeuta fosse un contenitore delle angosce del paziente.
3. Hanna SEGAL ha elaborato la nozione di “equazione simbolica”, a partire dalle sue
esperienze con i pazienti psicotici, che si è accorta usare i simboli in modo diverso: infatti,
se per i nevrotici il simbolo sta per un oggetto che non è presente, nelle psicosi simbolo ed
oggetto sono tra loro fusi, coincidenti. Vi è, quindi, un’incapacità di simbolizzazione, che
Segal ha attribuito alle difese schizo-paranoidi, prime fra tutte proiezioni ed identificazioni:
in questa posizione, infatti, i primi simboli vengono visti come parti integranti dell’oggetto e
non come rappresentanti o sostituti. Ne consegue che l’equazione simbolica tra oggetto reale
e simbolo interno sia alla base del pensiero schizofrenico. Inoltre, l’utilizzo
dell’identificazione proiettiva, che permette all’Io di proiettare su un oggetto delle parti e di
identificarle con esso, favorisce il mantenimento della confusione tra oggetto e soggetto ed è
solo con l’inizio della posizione depressiva che si sviluppa la capacità di simbolizzazione
vera e propria. Il graduale processo che porta alla percezione dell’oggetto totale permette la
differenziazione soggetto-oggetto e realtà interna-esterna; l’Io inibisce le pulsioni dirette
verso l’oggetto e le devia verso un simbolo da esso stesso creato, in modo tale da far
diminuire la colpa associata al timore di danneggiare l’oggetto: i simboli, quindi, permettono
di restaurare l’oggetto, di superare il dolore del lutto e di sviluppare, nel bambino, le
capacità di comunicazione.
4. Herbert A. ROSENFELD si è interessato in modo particolare al narcisismo. Freud ha
ipotizzato un narcisismo primario, con un investimento libidico incentrato, solo, sul sé del
bambino. Klein, invece, riteneva che non potesse esistere una fase anogettuale e considerava
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il narcisismo un investimento esagerato sugli oggetti interni, alla luce, anche
dell’identificazione proiettiva: con essa il soggetto, proiettando le proprie parti cattive su un
oggetto, ci instaura una relazione narcisistica. Secondo Rosenfeld, esiste, anche, un
narcisismo distruttivo o cattivo, risultato dell’investimento sull’Io della pulsione di morte: la
sopravvalutazione del Sé non è conseguenza solo dell’idealizzazione delle proprie parti
buone, bensì anche di quella delle parti cattive; l’autore ha, così, descritto una forza
distruttiva attiva fin dal momento della nascita. Freud, considerando la possibilità di una
fase senza oggetto, non riteneva gli psicotici (che, in quanto tali, sono regrediti ad una simile
condizione) adatti ad un trattamento analitico; Rosenfeld, al contrario, è evidenziato in
questi pazienti la presenza di relazioni oggettuali distruttive, comprendendoli, quindi, nella
schiera dei potenziali analizzandi. Il narcisismo distruttivo permette alla persona di sentirsi
protetta nei confronti di una separazione dall’oggetto e, proprio per questo, rende ostica
l’analisi, perché il paziente, ogni qual volta senta l’analista più lontano, non può che
interpretare il tutto alla luce di una minaccia rivolta alla sua onnipotenza: infatti, l’oggetto
che non può essere controllato diventa pericoloso e questo è anche il motivo per cui il
narcisista distruttivo gode nell’arrecare dolore agli altri e cerca di mantenere la sua forza
evitando ogni manifestazione di amore, che considera un segno di debolezza.
5. John STEINER ha lavorato con pazienti che non rientravano in nessuna delle due
posizioni kleiniane, o meglio, con pazienti incapaci di sopportare l’angoscia tipica di ambo
le posizioni. Klein ha descritto l’angoscia schizo-paranoide come dovuta alla pulsione di
morte ed inerente l’integrità dell’Io a fronte di oggetti cattivi interni; l’angoscia depressiva,
invece, riguarda la potenziale perdita o distruzione dell’oggetto d’amore. I “pazienti
difficili” di Steiner non si servivano né di difese schizo-paranoidi né di difese depressive per
affrontare l’angoscia, ma di una serie di meccanismi con caratteristiche di entrambe le
posizioni. In particolare, queste persone evitavano le relazioni con gli altri e si rifugiavano in
un mondo di fantasia, ove potevano realizzare tutto ciò che nella realtà era impossibile:
alcune di esse trovavano questa condizione spiacevole, mentre altri vedevano nel rifugio un
luogo ideale. Questo rifugio, pur proteggendo la persona dal dolore, causa un blocco nel suo
sviluppo ed ostacola anche l’analisi, dal momento che il paziente percepisce ogni
cambiamento e contatto con l’esterno come minaccioso. Steiner ha definito questa strategie
difensiva “organizzazione patologica” e l’ha messa in relazione con la corazza caratteriale di
Reich e con il narcisismo distruttivo di Rosenfeld. L’autore, quindi, ha aggiunto alle due
posizioni di Klein un’altra posizione, il rifugio, esprimente la relazione dinamica tra le altre
due. Il rifugio può essere trovato in diverse malattie, quali nevrosi, psicosi e soggetti
borderline, ma, pure, nei soggetti sani. L’obiettivo terapeutico consiste nel portare
l’individuo ad abbandonare il suo rifugio, il che è decisamente ostico.
6. Donald MELTZER nel suo saggio “La relazione tra la masturbazione anale e
l’identificazione proiettiva”, ha riscontrato una relazione tra l’erotismo anale ed un tipo
caratteriale che ha chiamato “pseudomaturità” e che rimanda alla personalità as if di
Deutsch ed al falso Sé di Winnicott. Tre fattori specifici portano alla pseudomaturità:
a) una confusione geografica inerenti spazi interni ed esterni, dovuta ad un’eccessiva
identificazione proiettiva che porta ad una confusione oggetto-soggetto;
b) una confusione sulle zone e sulle modalità erogene, ovvero bocca-vagina-ano e feci-pene-
bambino;
c) la fantasia anale ed associata all’identificazione proiettiva, ove quest’ultima porta ad una
confusione tra il deretano del bambino e quello di sua madre, conducendo ad
un’idealizzazione del retto ed associandosi, poi, ad una confusione tra le natiche ed il seno
materno. La sequenza prevede che il bambino, dopo essere stato allattato, venga lasciato
solo ed inizi ad equiparare le sue natiche con i seni della madre, fino a prendere a penetrarsi
l’ano con le dita per tirare fuori le feci: questo comportamento genera una fantasia di
intrusione nell’ano materno e le feci del bambino vengono confuse con quelle idealizzate
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della madre, che egli crede vengano ritenute per dar nutrimento al padre e ad altri bambini
che ella ha in corpo.
Quando questa confusione viene risolta, l’individuo sviluppa una forte dipendenza
dall’oggetto esterno; se, invece, non vi è una risoluzione, allora il retto viene idealizzato e
visto come una fonte di cibo e si ha un’idealizzazione proiettiva alla madre interna, che porta
ad un’impossibilità a discriminare il se stesso bambino dall’adulto. E’ quindi importante, sia
nella relazione con la madre che in quella con l’analista, che il bambino/paziente possa
affrontare le sue parti cattive, proiettandole su un oggetto esterno che si configuri come un
contenitore: questo oggetto è il “seno-gabinetto”, un oggetto parziale necessario ma non
d’amore. Esso è gabinetto perché raccoglie tutte le proiezioni sgradevoli del paziente, ma è
anche seno perché deve restituire quanto ricevuto sotto forma di nutrimento: tutto questo ha
lo scopo di rendere la dipendenza e la differenza dall’altro tollerabili e di permettere nel
bambino lo svezzamento (che porta alla posizione depressiva, ovvero alla maturità) e
nell’adulto la fine della terapia.
Se questo sviluppo non ha luogo, si crea una personalità basata su pulsioni distruttive, in cui
la confusione circa le zone erogene porta ad una masturbazione anale bimanuale con fantasie
sadiche sul coito genitoriale, il tutto esitando in ipocondria ed angosce claustrofobiche
(queste due manifestazioni psicopatologiche si hanno perché la masturbazione aggredisce
entrambi gli oggetti interni con cui ha avuto luogo l’identificazione proiettiva e perché tra
essi viene creato un rapporto sadico). Nel corso dell’infanzia, quindi, il bambino può
presentarsi come molto docile con gli adulti ma violento con i coetanei e gli animali e questo
può persistere anche in età adulta. La pseudomaturità, poi, è una forma di adattamento
fasullo del bambino alle richieste dei genitori e dell’adulto a quelle sociali (soprattutto
quando si ha a che fare con persone molto dotate dal punto di vista intellettivo): in quanto
“pseudo”, questo adattamento è associato a solitudine ed insoddisfazione per la vita, che
viene compensata con atteggiamenti di maniera.
Se l’identificazione proiettiva alla madre è eccessiva e continua ad esserci una confusione
ano-vagina, allora non vi è una differenziazione adulto-bambino e le donne sviluppano
frigidità, mentre gli uomini si coinvolgono in attività omosessuali. Se l’identificazione
proiettiva ha luogo con il pene, sia i maschi sia le femmine assumono caratteristiche falliche.
Meltzer, poi, ha individuato, nella descrizione del funzionamento mentale, una prospettiva di
sviluppo nuova, che è il criterio di dimensionalità: esso unisce lo spazio con il tempo e
presenta, quindi, lo sviluppo in termini di circolarità, oscillazione e linearità. Lo spazio
psichico non si compone solo di un mondo interno e di uno esterno, poiché ognuno di essi è
popolato di oggetti che hanno, a loro volta, un mondo interno. Di conseguenza, ci sono
quattro mondi: interno, esterno, dentro gli oggetti del mondo esterno e dentro gli oggetti del
mondo interno; a questi si aggiunge il “luogo in nessun luogo”, ovvero quello in cui
svaniscono tutti gli eventi psichici. Esistono, poi, anche dei confini:
a) tra il proprio mondo interno e lo spazio interno degli oggetti esterni;
b) tra il proprio mondo interno e lo spazio interno degli oggetti interni;
c) tra lo spazio interno e quello esterno è lo “Io pelle”.
Da un punto di vista dimensionale, è possibile distinguere i seguenti stati psichici:
a) unidimensionalità la si trova nel mondo dell’autismo propriamente detto, ove non c’è
attività mentale ed il Sé e l’oggetto sono coinvolti in una relazione lineare ed immediata,
nella quale il tempo e la distanza non solo distinti e l’oggetto (che può solo essere o attraente
o repellente e non ha altre qualità) è fuso con la gratificazione che provoca;
b) bidimensionalità precede la separazione interno-esterno ed il Sé e gli oggetti sono privi
di uno spazio interno, per cui si relazionano ad un livello superficiale e non esiste uno spazio
mentale per la fantasia. Non può aver luogo, quindi, la proiezione e la relazione è circolare,
dal momento che non si verifica alcun mutamento che sia in grado di scandire le sequenze
temporali; 50
c) tridimensionalità gli oggetti ed il Sé hanno uno spazio interno e, quindi, sono possibili
introiezioni e proiezioni. La scissione e l’idealizzazione dell’oggetto portano alla nascita di
un pensiero che differenzia l’interno dall’esterno e la scoperta della tridimensionalità
avviene per via della consapevolezza circa l’impenetrabilità dell’oggetto e la funzione degli
orifizi del Sé e dell’oggetto. Questi orifizi vengono considerati naturali e non provocati da
penetrazione ed il Sé, cercando di dominarli nella loro chiusura/apertura, procede verso la
continenza ed il controllo mentale. Il tempo è assimilato ad un movimento che va da dentro
a fuori l’oggetto ed è altrettanto reversibile la differenziazione Sé-oggetto, a causa
dell’identificazione proiettiva (che è il meccanismo principe che consente l’identificazione
narcisistica);
d) tetradimensionalità si sviluppa con la separazione dell’interno del Sé e di quello
dell’oggetto e quando declina l’onnipotenza narcisistica ed è una dimensione mentale
corrispondente al tempo psichico riferito all’introiezione dei genitori, i quali, essendo buoni,
lottano contro il narcisismo e l’onnipotenza e danno sollievo contro invidia e gelosia. La
speranza che se ne ricava permette l’identificazione introiettiva, con la quale una parte del
Sé che si trova nell’oggetto viene introiettata rendendo più forte la propria identità.
Melanie Klein ha descritto due posizioni nello sviluppo, ma, ad oggi, si sa che esiste una
primitiva posizione autistica, caratterizzata da due meccanismi:
- identificazione adesiva è tipica della relazione bidimensionale narcisistica che il Sé
intrattiene con l’oggetto e consiste, infatti, in un appiattimento bidimensionale dello spazio
interno ed esterno. Si tratta, quindi, di un meccanismo antecedente rispetto alla formazione
degli oggetti interni, ma si può riproporre nel corso della vita. Il neonato sano utilizza
l’identificazione adesiva legandosi, transitoriamente, alle proprie sensazioni corporee,
mentre l’autistico crea oggetti autistici in modo stabile: si ha, quindi, una negazione
dell’oggetto come separato dal Sé, con una difesa che è di adesività nel primo caso e di
incollamento nel secondo;
- smontaggio è una modalità di funzionamento incentrata sulle esperienze sensoriali, che
è possibile riscontrare tanto nelle psicosi infantili quanto nell’autismo propriamente detto,
ove è da ascrivere a precoci difficoltà di identificazione introiettiva. Quest’ultima è
fondamentale per creare delle fantasie che siano rivolte ad uno spazio interno, mentre
l’identificazione proiettiva mira solo ad un possesso onnipotente dell’oggetto, da controllare
dall’interno. La mancanza di uno spazio interno nel Sé determina uno smantellamento
dell’apparato percettivo, tale per cui l’oggetto non viene percepito in modo globale ma in
riferimento a specifiche peculiarità che stimolano specifici sensi (il tatto, la vista, l’udito). I
sensi sono tra loro separati a causa dello smontaggio e questo fa sì che l’attenzione sia
mirata su qualità monosensoriali, mentre il suo compito sarebbe proprio quello di favorire
un’integrazione sensoriale.
L’autismo è stato spiegato da Meltzer alla luce della relazione seno-bambino: in presenza di
depressione o disturbi psicotici, infatti, l’attenzione della madre si impoverisce e, quindi,
anche la disponibilità del suo seno.
7. Esther BICK ha introdotto l’Infant Observation nel percorso formativo dei terapeuti
infantili londinesi, proponendo anche una serie di regole da seguire nell’osservazione del
neonato nel suo ambiente familiare:
- “imparare ad osservare” per accorgersi del carattere di unicità del lattante, ma non
focalizzarsi su di lui, bensì sulla relazione con la madre;
- osservare prima di interpretare, senza interferire e comportandosi come una tabula rasa;
- astenersi dal giudicare e dal dispensare consigli, ma mostrare ricettività, cioè capacità di
ascoltare;
- mantenere una distanza corretta, per non essere né invadente né disinteressato e per
assumere un carattere rassicurante. 51
Ha studiato, anche, la funzione della pelle, che ha paragonato ad un confine utile per tenere
insieme le diverse parti della personalità. La sua teoria, può essere sintetizzata in sei steps:
a) attraverso l’introiezione di un oggetto esterno, il bambino può sperimentare un senso di
coesione, poiché tale oggetto assolve la funzione di contenitore;
b) il seno è l’oggetto di introiezione ottimale e la sua presenza permette di creare una
fantasia di distinzione tra spazio interno ed esterno, per via del suo ruolo di contenitore a cui
il bambino si identifica;
c) l’oggetto introiettato viene percepito come una pelle vera e propria;
d) la pelle costituisce un confine che separa interno ed esterno ed attiva i processi di
scissione e di idealizzazione del Sé e dell’oggetto;
e) se l’introiezione della capacità di contenere dell’oggetto fallisce, allora si ha un
rimescolamento delle identità;
f) i problemi nell’introiezione possono portare alla formazione di una seconda pelle, ovvero
di un sostituto della funzione di contenitore della pelle che è finalizzato a proteggere la
persona dall’angoscia della dispersione del Sé (annichilimento).
La funzione di contenitore della pelle è il primo bisogno del lattante. Melanie Klein ha
associato l’annichilimento alla pulsione di morte, mentre Bick ha descritto il trauma della
nascita come dovuto ad un passaggio da un’angoscia claustrofobica ad una agorafobica,
modelli delle future paure del bambino. Per evitare il terrore di andare in pezzi, in ogni caso,
il neonato deve introiettare la funzione di contenitore. Meltzer ha descritto il contenitore
come dotato di confini (ovvero presente nell’esperienza del bambino), confortevole (per via
di caratteristiche sia sensoriali sia emotive) ed appartenente al bambino.
8. Thomas H. OGDEN difficilmente può essere considerato un kleiniano, dal momento che
ha integrato la teoria pulsionale e quella delle relazioni oggettuali per elaborarne una nuova.
Egli ha aggiunto alle due posizioni di Klein una terza posizione, ovvero quella contiguo-
autistica, ed ha descritto l’esperienza umana come il risultato dell’interazione di queste tre
modalità, che sono tra loro correlate in modo dialettico. Presso il suo pensiero, le posizioni
non sono più degli insiemi di angosce, difese e pulsioni isolati, ma configurazioni psichiche
che operano e si attivano/inibiscono a vicenda per tutta la vita: una condizione patologica
insorge qualora una di esse prevalga sulle altre due e funzioni in modo eccessivamente
rigido. Ogni posizione produce un certo tipo di esperienza che le è propria ed ha, quindi,
delle modalità di affrontare l’angoscia, di procedere alla simbolizzazione e di relazionarsi
all’oggetto che la caratterizzano. Lo sviluppo dell’organizzazione psichica, quindi, non è
sequenziale. La modalità contigua-autistica è stata descritta da Ogden come quella più
primitiva per fare esperienza, in quanto presimbolica e quasi esclusivamente sensoriale. Essa
è presente fin dalla nascita, per cui prima delle altre due posizioni. La sua funzione è quella
di portare all’attribuzione di un senso a quanto è percepito sensorialmente. Viene chiamata
“contiguo-autistica”, perché l’organizzazione psichica deriva dalla contiguità sensoriale e
perché le difese che il bambino mette in atto nei confronti dei pericoli sono di tipo autistico.
La percezione avviene prevalentemente a livello superficiale e, quindi, il primo Io di cui si
dispone è un Io-corpo. Va da sé che per “autistico” Ogden non facesse riferimento ad una
modalità di chiusura nei confronti dell’esterno, poiché ha attribuito, anzi, molta importanza
alle relazioni che hanno luogo sulle superfici del neonato: tali relazioni si basano,
inizialmente, su bisogni corporei e, col tempo, sui bisogni dell’Io. Nelle prime esperienze di
contiguità sensoriale, assumono importanza la ritmicità e l’epidermicità ed esperienze
ripetute conducono ad un senso di continuità e di prevedibilità, proprio come la pressione
esercitata sulle superfici del corpo del lattante trasmette un senso del limite. I caratteri visivi,
termici e tattili delle prime esperienze, poi, vanno ad anticipare le qualità del sé. Due
modalità possibili di relazione in questa modalità sono:
a) forme autistiche sensazioni che derivano da parti morbide del proprio corpo e di quello
materno, che favoriscono lo sviluppo di un senso di coesione ed integrità di sé e che
52
verranno associate, più avanti, a termini come “comodità”, “coesione”, “sicurezza”,
“tranquillità”, “contenimento”, “intimità” e simili;
b) oggetti autistici derivano dall’esperienza di contatto pressorio di un corpo duro sulla
propria pelle e forniscono maggiore sicurezza circa la protezione della propria superficie,
che è di per sé vulnerabile.
La modalità contiguo-autistica ha una propria angoscia e delle difese che le sono tipiche.
L’angoscia riguarda il timore di perdere quelle sequenze, quella ritmicità, su cui si fondano
le esperienze del sé, ovvero, ha a che fare con la paura di perdere la contiguità sensoriale
stessa. Ciò che si prova, dunque, è sentimento di debordare, motivo per cui le difese mirano
a ridonare continuità e ritmicità, oltre che a ricreare l’interezza e la delimitatezza
epidermica: questo ultimo obiettivo può essere raggiunto attraverso due meccanismi
difensivi, che sono la formazione di una seconda pelle e l’identificazione adesiva. Altre
modalità difensive sono la masturbazione coatta (non con lo scopo di raggiungere
l’orgasmo, ma con quello di aumentare l’esperienza sensoriale e non provare più il senso di
disgregazione) e la procrastinazione (è funzionale alla creazione di limiti contro i quali
scontrarsi ma, pure, definirsi). Anche l’atto imitativo assume una valenza difensiva, poiché
mira a creare od a riparare una superficie sensoriale.
Nella teoria di Ogden, è importante la dinamica intersoggettiva su cui si basa lo sviluppo
della personalità. Egli ha considerato, infatti, ogni elemento psichico come inserito nella
polarità soggetto-oggetto in modo dialettico. Il soggetto, quindi, si crea nell’intersoggettività
e, in particolare, nel primitivo rapporto con la madre, la quale, riconoscendolo ed
identificandosi in lui, gli consente di vedersi come dall’esterno: da qui, nasce la
differenziazione tra Io (Sé-soggetto) e Me (Sé-oggetto). E’, invece, nello spazio che si crea
nel rapporto dialettico tra oggetto e soggetto che trova posto il simbolo. Lo stesso avviene
durante l’analisi, ove il paziente ed il terapeuta creano un “terzo analitico”, la cui presenza è
essenziale all’analisi stessa: questa entità è “il soggetto dell’identificazione proiettiva”.
L’identificazione proiettiva, per Ogden, non consiste solo nell’esteriorizzazione di alcune
parti di sé, ma si configura come una vera e propria “condivisione empatica”, un modo di
comunicare. Nelle prime fasi di sviluppo, essa serve al bambino per liberarsi di quegli
aspetti di sé che gli fanno paura, per comunicare i propri sentimenti proiettandoli su un altro,
per costruire delle relazioni oggettuali e, infine, per consentire un cambiamento psicologico,
dato dalla re-introiezione di quanto è stato precedentemente proiettato e che appare, a quel
punto, più tollerabile. In analisi, l’identificazione proiettiva si verifica soprattutto con i
pazienti gravi ed ha luogo, come per il bambino, in tre momenti:
- l’analizzando proietta le sue parti cattive sull’analista e controlla l’oggetto su cui attua
questa proiezione, che viene spinto ad accogliere quanto gli è stato trasferito, pena il non
riconoscimento;
- il terapeuta si percepisce per quello che è nella fantasia del paziente e può scegliere di
accettare o meno la proiezione (chiaramente, in una buona analisi deve farlo). Nel primo
caso, rielabora i proietti, accettandone l’aggressività e la distruttività, nel secondo li evacua a
propria volta;
- il paziente re-interiorizza i proietti modificati che sono, ora, accettabili.
Il terapeuta, pertanto, ha il compito di rimandare al paziente dei proietti che siano tollerabili
ed il terzo soggetto si crea perché il paziente, proiettando parti di sé che nega (Io-separato)
nel terapeuta, diventa una presenza esterna a se stesso, che è allo stesso tempo Io e Non Io:
oltre a negare il proietto, il proiettante nega anche l’analista che, dal canto suo, si nega a
propria volta, offrendosi come un contenitore; il terzo soggetto che si viene a creare è il
prodotto della mutua negazione che coinvolge paziente ed analista ed è e non è il proiettante
ed il ricevente. La restituzione di proietti rielaborati e la loro re-introiezione da parte del
paziente, fa sì che questi possa allontanarsi dal terzo analitico e l’identificazione proiettiva si
53
afferma come un meccanismo in grado di portare ad un reciproco “soggiogamento” e
“riconoscimento” tra le due parti.
9. Franco FORNARI è colui che ha portato il pensiero kleiniano in Italia. Si è sempre
impegnato a cercare un nesso tra il biologico e lo psichico, con l’intento di descrivere uno
sviluppo che vedesse l’affettività associata alla personalità. In particolare, ha visto la base
per una teoria evolutiva all’interno della relazione madre-bambino. Ha risolto il problema
del dualismo pulsionale (vita/morte) attraverso il fantasma inconscio ed asserendo che la
pulsione, avente un’origine somatica che non la rende passibile di interpretazione analitica,
possa essere descritta dalla vita fantasmatica. Ha posto le intenzioni come fondamenta delle
condizioni somatiche di un qualsiasi evento psichico, definendole come le prime attività a
livello psicologico delle tensioni istintive, ovvero delle pulsioni. Sono proprio l’istinto e
l’esperienza percettiva ad attivare i fantasmi, trasformando la tensione in intenzionalità, che
è data dal sentire piacere o dispiacere nei confronti di qualcosa. Fornari, ha identificato i
primi orientamenti intenzionali già nelle condotte espressive, quali sono i riflessi: se ne
deduce, quindi, che è lo stimolo stesso ad avere in sé un’intenzione (per esempio, un
neonato, a fronte di un capezzolo, può scegliere se metterlo in bocca o respingerlo). La
presenza di comportamenti di alimentazione in assenza di cibo osservata negli animali (per
esempio, negli uccelli) dimostra l’esistenza di un’intenzionalità istintiva in grado di elicitare
determinate condotte e di attivare degli oggetti illusori su cui queste vengono messe in atto.
L’attività fantasmatica, quindi, nasce dall’attivazione di due presenze che possono essere
associate al piacere od al dispiacere e che possono essere vissute come fuse al sé nel primo
caso e separate da sé nel secondo. L’esperienza buona fusa con il sé è legata al fantasma di
interiorizzazione di un seno buono, mentre quella cattiva alienata dal sé si associa al
fantasma di espulsione di ciò che ha generato la frustrazione. Già precocemente, quindi,
hanno luogo la fusione e la separazione, che portano alla creazione dei primi oggetti
fantasmatici di seno-buono e di seno-cattivo.
Fornari si è distanziato da Klein relativamente al tema del sadismo: mentre per l’autrice il
sadismo precoce è innato e dovuto ad un dispiegamento della pulsione di morte verso
l’esterno, per egli il sadismo è dovuto all’effettiva mancanza del seno; se ne deduce
l’importanza che l’autore attribuisce alla presenza materna in quanto oggetto nello sviluppo
del bambino.
L’ultimo apporto teorico di Fornari consiste nella teoria coinemica, una teoria psicoanalitica
del linguaggio. Per la Psicoanalisi classica, sono da considerarsi segni tutte quelle
produzioni dell’inconscio che fanno irruzione nel processo secondario, mentre le
“regolarità” non hanno in sé nulla di inconscio. Secondo la teoria coinemica, invece,
l’inconscio (e quindi le emergenze affettive) può manifestarsi in ogni significazione del
“discorso umano”. Gli affetti hanno delle basi biologiche, esattamente come il linguaggio:
questi due elementi si incontrano e questo loro incontro deve essere descritto, secondo
Fornari, da una teoria semiotica degli affetti: egli, infatti, riteneva che la significazione degli
affetti fosse fondamentale per inserire la Psicoanalisi nella Psicolinguistica. L’autore ha
studiato il simbolismo onirico rilevando il legame tra i simbolizzanti (le immagini oniriche)
ed i simbolizzati (i significati) ed è giunto alla conclusione che ogni semiosi (ovvero ogni
processo in cui ci sia un segno) sia associata ad un processo affettivo, perché affetto e
rappresentazione non possono essere separati. Di conseguenza, in tutte le comunicazioni
umane vi è una semiosi affettiva, che si compone di unità elementari che sono i coinemi, le
più piccole unità del significato affettivo. I coinemi sono ciò che lega l’affetto e la
rappresentazione e sono i rappresentanti più primitivi e più semplici della pulsione. Il
linguaggio degli affetti deriva da esperienze gratificanti e frustranti che il bambino vive con
la madre e che conducono, rispettivamente, alla formazione di segnali di vita e di segnali di
morte. Il coinema media tra pulsione e relazione oggettuale e, quindi, la teoria coinemica
postula l’esistenza di strutture di significato che sono geneticamente precostituite e che
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possono essere identificate, a livello universale, sia nel linguaggio degli affetti sia nei
simboli che questi affetti li rappresentano. Di conseguenza, ci sono pochi significati che
vengono inseriti in una struttura più complessa di significanti e di simboli, i quali utilizzano
l’energia pulsionale mediante l’investimento dell’oggetto. Questo investimento si rivolge, in
prima istanza, agli oggetti primari che sono i coinemi, che, a loro volta, trasmettono agli
oggetti il proprio significato affettivo mediante un transfert. Fornari, dunque, ha utilizzato il
costrutto di transfert per far riferimento:
- a quel che succede nel rapporto analitico;
- al trasferimento degli affetti che i coinemi mettono in atto nei confronti dei significanti che
li simbolizzano;
- al trasferimento di forme cognitive che fanno sì che la forma dei significanti richiami il
significato degli stessi coinemi.
Nella relazione coinemica, perciò, ogni significante è dotato di un significato nascosto e
questo significa che si dispone di conoscenze interne che derivano dai coinemi (per cui, si
tratta di informazioni affettive) e che sono, quindi, innate: tali conoscenze genetiche, unite
all’introiezione dell’oggetto esterno, permettono la creazione dell’oggetto interno. I coinemi
richiamano, quindi, gli archetipi junghiani, in quanto esistenti a priori, tuttavia Fornari ha
sottolineato la differenza enunciando che gli archetipi siano dei significanti dei coinemi e
non dei coinemi essi stessi. Dal momento che i coinemi sono delle preconcezioni, lo stesso
si può dire dei simboli utilizzati nei sogni e dei codici affettivi, che sono dei saperi inconsci
ognuno dei quali è specificatamente associato ad un familiare: i codici materno, paterno,
fraterno, infantile, maschile e femminile. I codici affettivi, quindi, sono delle forze inconsce
legate alla gratificazione e che promuovono i ruoli attanziali, ove per “processo di attanza”
si intende la messa in atto dell’evento inconscio. A livello inconscio, tutti gli affetti sono
uguali in termini di probabilità di essere mobilitati, ma nella vita reale non è così: sono,
infatti, le esperienze cui va incontro il soggetto a decidere dello sviluppo della sua vita
affettiva. Per esempio, nel caso del piccolo Hans la paura dei cavalli deriverebbe ad una loro
interpretazione come significanti del padre cattivo, il tutto all’interno di una
drammatizzazione ove i cavalli hanno richiamato la parte giocata dal padre nel mondo
interno del bambino, ovvero la parte del cattivo da cui il bambino teme di ricevere la stessa
aggressività che vi ha rivolto. L’intera vita umana si basa sul transfert dei coinemi sugli
oggetti esterni ed ogni attività è una recita esterna di quel che avviene nel mondo interno.
Nel processo di attanza, il coinema è attante, mentre l’oggetto esterno è attato, ovvero
significante del coinema, il quale gli ha suggerito che ruolo affettivo interpretare. Ecco
perché i codici affettivi sono da intendersi come dei codici attanziali, sulla base dei quali
viene organizzata la messa in atto dei programmi affettivi siti a livello inconscio. Ogni
individuo recita un attore ed ha alle spalle un personaggio coinemico: per esempio, nella
lotta di classe, i padroni richiamano il padre, gli operai la prole-bambino. I codici affettivi
sono stati sviluppati dagli esseri umani come valori etici a cui ispirarsi per garantire la
sopravvivenza ed esiste un codice vivente che si compone di tutti i codici affettivi che sono
stati, evolutivamente, selezionati: questo codice vivente, a partire dall’inconscio, informa la
coscienza da un punto di vista affettivo (funzione correlazionale) e guida,
inconsapevolmente, il comportamento umano (funzione istituzionale). Nel pensiero di
Fornari, quindi, si sviluppano due teorie in parallelo:
- teoria coinemica è una teoria del simbolismo;
- teoria dei codici affettivi è una teoria dell’Io Ideale, che si forma dalla totalità dei codici
familiari integrati (tra cui un ruolo centrale è giocato da quello materno) ed ha la funzione di
controllare le forze affettive geneticamente proprie dell’uomo come se fossero una “buona
famiglia interna”. 55
Wilfred R. Bion. Il mondo della psicosi
Il pensiero di Bion non è organizzato in modo unitario, ma è di difficile interpretazione, soprattutto
per via del linguaggio talora criptico. Egli si è interessato primariamente alla comprensione delle
psicosi ed ha posto l’accento su quanto il linguaggio possa essere inadeguato nella descrizione
dell’esperienza grezza che ci giunge dai sensi, particolarmente quando deve esprimere “parti
psicotiche”. Il suo pensiero viene diviso, convenzionalmente, in quattro periodi.
Primo periodo (1943-1951). Esperienze nei gruppi
Bion ha lavorato, durante la Seconda Guerra Mondiale, presso un ospedale psichiatrico militare, ove
si è avvalso della terapia di gruppo in un reparto di riabilitazione, con lo scopo di coinvolgere le
persone in attività volte alla cura delle loro nevrosi ed alla creazione di uno spirito gruppale. Egli ha
imposto ai suoi pazienti la stessa disciplina richiesta ai soldati al fronte, identificando, anche, un
nemico comune costituito dalla nevrosi, dando loro un obiettivo condiviso a cui lavorare. Non ha
applicato la Psicoanalisi al gruppo, ma ne ha osservato le dinamiche ed ha constatato come, al suo
interno, si creasse una mentalità di gruppo, in cui confluivano gli apporti individuali e che si
presentava come unitaria per via del conformismo di tutti gli individui; la mentalità del gruppo
(group mentality), quindi, è un qualcosa di altro rispetto agli obiettivi coscienti dei singoli.
Bion ha definito “gruppo di lavoro” un gruppo avente lo scopo di svolgere un lavoro nel mondo
reale avvalendosi di mezzi razionali. Al suo interno ha scoperto essere attivi degli assunti di base
(ab, basic assumptions), che non sono tra loro conflittuali e che, anzi, possono alternarsi. Ad ogni
ab, inoltre, si associa un particolare senso di sicurezza:
1. assunto di accoppiamento (abA/pairing) il gruppo ripone le sue speranze in una
coppia e non esiste un capo, poiché deve ancora “nascere” da quella coppia che
dispone di particolari risorse. Tale capo può essere sia una persona sia un’idea e
salverà il gruppo dai suoi stessi sentimenti di odio e distruzione. Si tratta, quindi, di
una speranza messianica, ma perché il gruppo sopravviva non si deve concretizzare.
Il senso di sicurezza risulta, infatti, attenuato dall’eventualità della nascita del capo;
2. assunto di dipendenza (abD/dependence) il gruppo ripone speranza e fiducia
illimitata ed irrazionale in un capo, investito della responsabilità della sopravvivenza
gruppale. Il sentimento di sicurezza si lega all’onnipotenza che gli viene attribuita e
che contrasta con l’impotenza dei singoli;
3. assunto di attacco-fuga (abAF/fight-flight) il gruppo esiste perché finalizzato a
lottare contro un altro gruppo o perché deve fuggire da un pericolo ed il capo è colui
che può guidarlo. Il senso di sicurezza viene pregiudicato dal fatto che al singolo sia
richiesto coraggio da parte del gruppo stesso.
L’autore ha definito “cultura di gruppo” quei comportamenti gruppali che sono il risultato del
conflitto tra la group mentality ed i desideri individuali.
Mentre Freud credeva che fosse la libido, Eros, ad mantenere unito il gruppo, con una sostituzione
da parte del singolo del proprio ideale dell’Io con l’ideale collettivo rappresentato dal capo, Bion ha
attribuito questo ruolo alla valenza (valency). Il termine deriva dalla Fisica, ove indica la capacità di
tutti gli atomi di combinarsi tra loro in modo immediato ed involontario: lo stesso concetto viene
applicato all’uomo, che ha una certa disposizione a sentirsi parte del gruppo. Nel gruppo di lavoro
la partecipazione è volontaria e l’attività ha luogo attraverso mezzi razionali; al contrario, nel
gruppo di base l’attività è regolata da un assunto di base e, come tale, non necessita di alcuna
collaborazione esplicita, bensì solo della presenza della forza della valenza nei membri. Tutti,
infatti, hanno una certa valenza, seppur con intensità variabile; essa non richiede il ricorso a
processi mentali ma funziona ad un livello proto-mentale, lo stesso in cui si collocano gli stati
emotivi dei due assunti di base che non risultano attivi nel gruppo in quel dato momento. Il sistema
proto-mentale (proto-mental system) è un livello in cui non vi è differenziazione tra lo psichico ed il
fisico, né tra le diverse emozioni e tra sé ed il gruppo: ne deriva che gli ab siano una funzione del
gruppo equiparabile a fenomeni primitivi e che l’individuo nel gruppo viva, quindi, uno stato di
regressione. Tale regressione conduce al timore di depersonalizzazione, il che attiva stati emotivi
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primitivi, soprattutto di panico: questa condizione va a strutturare gli ab. Bion si è dichiarato
d’accordo con Freud nel postulare l’impossibilità di differenziare le psicologie gruppale ed
individuale ed ha definito la persona un “animale di gruppo”, poiché per essa è fondamentale il
gruppo. Freud ha posto l’identificazione al capo come padre e la sua sostituzione all’Io ideale dei
singoli alla base di tutto, mentre Bion ha definito il capo un “prodotto dell’ab così come ogni altro
membro del gruppo”: non è, quindi, il leader a formare il gruppo, dal momento che egli ha solo il
“merito” di avere una personalità confacente alla leadership, la quale richiede una rinuncia
all’individualità per assumere il ruolo di guida. Il leader, inoltre, non è “l’ipnotizzatore” di Freud,
ma è solo in grado di combinarsi facilmente con gli altri membri; nel gruppo di lavoro, inoltre, è
colui che soddisfa i bisogni del gruppo di base. Mentre il leader del gruppo di lavoro ricava la sua
autorità dal contatto con la realtà esterna, quello del gruppo di base non deve adempiere a questa
funzione di contatto con il “fuori”, ma solo catalizzare gli stati emotivi del gruppo in toto.
Bion ha poi individuato un particolare gruppo di lavoro, che è il gruppo di lavoro specializzato, di
cui sono esempi la Chiesa e l’Esercito. Questi gruppi manipolano l’ab (abD ed abAF) per rimuovere
gli ostacoli alla realizzazione dei loro obiettivi e lo fanno traducendo la loro potenziale azione in
mentalità: di conseguenza, la Chiesa attribuisce a Dio ogni successo gruppale e l’Esercito idealizza
il ricorso alla forza senza, però, utilizzarla. Un altro gruppo di lavoro specializzato è dato
dall’Aristocrazia, il cui ab è quello dell’accoppiamento e che è l’unico ad esser tenuto insieme, in
accordo con Freud, dalla libido che caratterizza il legame capo-membri.
Bion ha poi introdotto la figura del mistico-genio, un’entità fuori dal comune avente un valore
messianico. Esso può essere rappresentato da scienziati ed individui a vario titolo geniali e Newton
ne è il massimo esempio. Non si tratta, per forza, di una persona, ma può essere anche un’idea,
purché in grado di aprire la strada ad una nuova visione. Il mistico, dal momento che porta
innovazione, ha una potenzialità distruttiva e viene osteggiato dai membri del gruppo per garantire
la tutela dei valori tradizionali. Ciò nonostante, il suo rapporto con il gruppo è interdipendente, dal
momento che egli necessita del gruppo per portare a termine la sua opera, così come il gruppo ha
bisogno di lui per evolversi. Il legame mistico-gruppo può essere di tre tipi:
1. conviviale mistico e gruppo coesistono in modo pacifico;
2. simbiotico vi è un punto di contrasto che porta alla crescita per ambo le entità;
3. parassitario si ha una progressiva e reciproca distruzione di mistico e gruppo per via di
una relazione caratterizzata da invidia.
Secondo periodo (1952-1962). Analisi degli schizofrenici
Bion ha studiato le psicosi partendo dall’idea di Freud, secondo cui deriverebbero da un deficit di
quelle funzioni deputate a garantire un predominio del principio di realtà. Ha, però, considerato le
psicosi dei disturbi del pensiero e, al contrario di Freud, non le ha considerate prive di legami con la
realtà, ma ha ipotizzato che la realtà venisse celata da una fantasia onnipotente e distruttiva: di
conseguenza, l’Io non si sottrae del tutto dal rapporto con il reale e nella personalità psicotica sono
riscontrabili dei tratti nevrotici; ne deriva una coesistenza di una personalità psicotica e di una
personalità non psicotica. Esiste, quindi, una fantasia di ritiro dalla realtà, che deriva
dall’identificazione proiettiva e che il paziente avverte come reale: questo fatto fa sì che egli avverta
il suo apparato percettivo come scisso in frammenti che vengono proiettati sugli oggetti percepiti.
La psicosi, quindi, si origina da due elementi, che sono l’ambiente esterno e la personalità psicotica,
la quale si caratterizza per:
- una forte presenza di impulsi distruttivi che trasformano la tendenza ad amare in sadismo;
- l’odio per la realtà sia interna sia esterna;
- un’angoscia di annientamento molto forte;
- la creazione di relazioni oggettuali precoci, che portano ad un transfert con l’analista di
dipendenza.
Il paziente psicotico usa l’identificazione proiettiva per spostare nell’analista dei frammenti della
sua personalità, il che crea uno stato confusionale per liberarsi del quale si rende necessario il ritiro
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dalla relazione: il percorso analitico, quindi, presenta una forte alternanza tra tentativi di
creare/sabotare il rapporto con il terapeuta.
La psicosi si instaura quando la personalità psicotica domina su quella non psicotica ed impedisce il
passaggio dalla posizione schizo-paranoide a quella depressiva. L’identificazione proiettiva è una
fisiologica difesa schizo-paranoide, ma assume, nella psicosi, una finalità distruttiva nei confronti
della coscienza, ovvero di quella parte della psiche che consente la consapevolezza della realtà.
Questo accade perché la personalità psicotica odia la realtà (interna ed esterna) e sente, quindi, il
bisogno di liberarsi di ciò che la mette in contatto con essa. La frammentazione della coscienza
sfocia in una proiezione all’esterno di parti di sé, le quali assumono, una volta “fuori”, una
connotazione negativa di “oggetti bizzarri” che circondano il paziente in modo minaccioso. Ogni
frammento viene percepito come un oggetto esterno inserito in un frammento di personalità e la
natura della particella dipende sia dalla parte dell’Io che è stata proiettata (per esempio, la vista) sia
dall’oggetto esterno che ha inglobato (nel caso, un qualsiasi oggetto che, come risultato, finisce per
assumere il ruolo di qualcosa che spia il paziente). Questo tipo di relazione tra frammento di
personalità ed oggetto è alla base dell’incapacità simbolica dello psicotico, che tratta le parole come
se fossero gli oggetti reali di cui costituiscono i simboli (equazione simbolica).
La personalità psicotica, comunque, è anche capace di introiezione: per recuperare i frammenti
proiettati, il paziente può mettere in atto un’identificazione proiettiva al contrario. Ciò nonostante,
l’identificazione proiettiva è sempre in atto, motivo per cui i frammenti non possono essere re-
integrati, ma solo raggruppati in agglomerati; se, quindi, ha luogo un’introiezione, essa viene
percepita come particolarmente violenta. L’incapacità di integrare gli oggetti scissi, il che
normalmente porta alla posizione depressiva, è determinata dalla frammentazione della coscienza.
Il fatto che la personalità psicotica si serva solo scissione ed identificazione proiettiva, fa sì che i
contenuti non possano essere rimossi ma solo spostati; tuttavia, mentre un’identificazione proiettiva
ha lo scopo di mettere ordine nel mondo fantasmatico del bambino, quando essa diventa patologica
si ha un ulteriore caos, dovuto alla rottura dei legami tra le diversi impressioni derivanti dai sensi.
Il linguaggio dello psicotico ha tre funzioni, che sono quelle di agire, di comunicare e di pensare. Il
paziente agisce attraverso la scissione degli oggetti interni, che poi cerca di controllare con
l’identificazione proiettiva. Egli, quindi, usa le parole come se fossero oggetti o parti di sé e lo fa
perché i due meccanismi a cui ricorre impediscono la simbolizzazione, la quale richiede la capacità
di relazionarsi con oggetti totali, ovvero il passaggio dalla posizione schizo-paranoide a quella
depressiva e l’integrazione delle parti scisse degli oggetti. L’integrazione degli oggetti scissi
permette al paziente di formare dei simboli che vengono utilizzati sul piano linguistico e questo lo
porta ad una migliore conoscenza del proprio mondo interno. Quando, però, si trova a dover far
fronte alle problematiche della posizione depressiva e si rende conto della loro associazione con il
pensiero verbale (ovvero nello stesso momento in cui comincia a prendere consapevolezza della
propria condizione, iniziando a differenziare tra fantasie, allucinazioni e deliri), vi rinuncia e
regredisce ad un linguaggio più vicino a quello utilizzato all’inizio dell’analisi. Il ritorno alla
posizione schizo-paranoide fa sì che si annulli la nuova capacità di pensiero verbale, il quale risulta
essere legato ad un nuovo tipo di dolore. Ciò nonostante, questo pensiero permette al paziente una
nuova consapevolezza che lo orienta verso la guarigione, intesa come la possibilità di creare un
contatto emotivo con la realtà. Nel corso di questa guarigione, il paziente dà un’importanza
crescente all’oggetto reale ed espelle quello interno con l’allucinazione, la quale, quindi, non è una
gratificazione allucinatoria di un desiderio, bensì un modo per evacuare gli oggetti frammentati.
L’allucinazione riguarda un senso e non un altro a seconda dell’organo attraverso il quale viene
espulso il frammento e diventa un modo per il paziente di liberarsi degli oggetti interni ostili senza
inserirli nell’analista con un’identificazione proiettiva. L’angoscia depressiva che il soggetto
avverte per via dell’integrazione oggettuale viene affrontata con la dissociazione, una scissione
“meno tumultuosa”. Anche l’attività onirica ha una finalità evacuativa e consente di eliminare tutto
quello che è stato accumulato nel corso della veglia: nel momento in cui il paziente parla di un
proprio sogno all’analista, allora c’è stato un cambiamento evolutivo; i sogni riferiti e le
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allucinazioni, infatti, sono indicativi del passaggio in corso alla posizione depressiva, anche se
persiste il rischio di una regressione schizo-paranoide o di suicidio per liberarsi della nuova
condizione.
Un altro concetto importante è quello di legame, che ha come prototipo quelli di capezzolo-bocca e
pene-vagina. Lo psicotico non attacca gli oggetti ma il legame tra loro esistente e lo fa come
risultato di un cattivo rapporto con il seno, attaccato non in quanto oggetto ma modello di legame.
Nel contesto analitico, questo si esprime con uno svuotamento di significato delle parole
dell’analista ed ha luogo perché il legame che si crea tra analizzando e terapeuta riproduce quello
disturbato del neonato con il seno, ove questo ultimo è stato percepito o come cattivo e persecutorio
o come eccessivamente buono e, quindi, scatenante invidia. Gli attacchi al seno hanno luogo nella
posizione schizo-paranoide e la relazione disturbata è ascrivibile a due fattori: un’incapacità
materna a rispondere in modo adeguato ed una spiccata propensione all’invidia del bambino.
La malattia, quindi, inizia con la vita. Il bambino, esattamente come lo psicotico, si rapporta con i
primi oggetti, che sono parziali, attraverso l’identificazione proiettiva, che gli permette di espellere
le sensazioni dolorose. A questo punto, la madre può o meno accoglierle: se non lo fa, o se l’invidia
del figlio non le consente di farlo, si ha una distruzione del legame lattante-seno ed il bambino, per
annullare le emozioni troppo forti che prova, sopprime la sua vita emotiva, dirigendo odio verso
ogni oggetto od evento in grado di suscitare emozioni.
Bion ha elaborato una nuova teoria del pensiero, definendo “funzione pensiero” l’insieme dei fattori
che permettono di elaborare pensieri, e differenziando:
- idee (preconceptions) sono preesistenti e richiedono un’esperienza reale per essere
scoperte;
- nozioni (o pensieri o concezioni) ;
- concetti nozioni o pensieri definiti.
Le preconcezioni, unendosi ad una realizzazione, ovvero un’esperienza reale, determinano delle
concezioni, da cui possono avere origine i pensieri. Il bambino, alla nascita, ha una preconcezione
del seno, che diventa una nozione (o concezione) quando si incontra con il seno reale. Se l’idea si
congiunge con un’esperienza gratificante, si creano i pensieri, mentre se incontra una frustrazione si
origina il “pensiero”, la cui causa, quindi, è il non-seno, vale a dire un seno non disponibile. A
questo punto, diventa importante la capacità del lattante di sopportare la frustrazione e se questa è
scarsa le alternative sono due: o la fuga dalla frustrazione o la sua trasformazione. Se si mette in
atto la fuga, quello che sarebbe dovuto diventare un pensiero diventa un oggetto cattivo, fuso con
quello reale e di cui ci si deve liberare espellendolo: l’identificazione proiettiva, così, sostituisce
l’apparato per pensare, il cui sviluppo è stato arrestato. Se, invece, non si mette in atto la fuga,
allora può sorgere un senso di onnipotenza, che permette che si annullino gli effetti dell’incontro tra
l’idea e l’esperienza negativa e che ad un apprendimento dall’esperienza per mezzo del pensiero
subentri un’onniscienza. Questa ultima fa sì che i giudizi morali non si richiamino più ad una realtà
condivisa, ma rispondano solo a quanto stabilito dalla personalità psicotica.
Analizzando i disturbi del pensiero, Bion ha definito “funzione alfa” quella incaricata di convertire i
dati sensoriali grezzi in elementi alfa, che consentono la creazione dei pensieri del sogno. Questa
funzione, perciò, permette di differenziare gli elementi coscienti da quelli incoscienti e si sviluppa
se la madre è in grado di permettere al bambino un uso sano dell’identificazione proiettiva: ella,
cioè, deve accogliere i dati sensoriali proiettati su di lei dal figlio ed elaborarli in modo tale che il
piccolo possa utilizzarli come elementi alfa; questa è la facoltà di rêverie materna. Se ciò non ha
luogo, il bambino percepisce la propria sensazione come priva di senso e re-introietta un “terrore
senza nome”.
Per Bion, quindi, i pensieri sono sia le idee che vanno incontro ad una realizzazione positiva, sia
quelli derivanti da una frustrazione che vengono trasformati dalla funzione alfa. La facoltà di
pensare, pertanto, può sia creare pensieri nuovi sia trasformare quelli preesistenti. Il pensare
richiede un’attività simile a quella messa in atto dalla funzione alfa, ovvero una trasformazione che,
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in questo caso, non è di percezioni sensoriali in elementi alfa, ma di pensieri in atto, il che
comporta:
- esplicitazione permette di tramutare in coscienza pubblica una coscienza individuale;
- comunicazione raggiunge il suo massimo livello in quella verbale di concetti astratti.
Requisiti essenziali per una buona capacità “sociale” sono un’adeguata relazione con il seno,
la presenza della funzione alfa e la creazione di un “pensiero normale”;
- consenso è uno degli obiettivi principali della comunicazione e fa riferimento
all’integrazione di dati sensoriali di natura diversa che genera una sensazione di verità, che è
ciò che manca allo psicotico.
Terzo periodo (1962-1965)
a) Apprendere dall’esperienza Per Bion, le funzioni sono delle attività mentali che si creano
dall’interazione tra più fattori, i quali possono essere dedotti dalle funzioni stesse. La funzione
alfa è la più importante tra quelle della personalità ed “alfa” sta ad indicare un’incognita che può
assumere un certo valore a seconda dell’uso. La funzione alfa trasforma sia i dati sensoriali sia
le emozioni in elementi alfa, che vanno a comporre i pensieri del sogno, nei quali non vi è
distinzione tra attività onirica e pensiero della veglia. La funzione alfa permette la distinzione
conscio/inconscio e consente di sognare, trasformando dati sensoriali ed emozioni in sogni.
Problemi a carico di questa funzione non consentono una trasformazione degli “inputs”, che
restano elementi beta; questi si differenziano dagli alfa perché non sono avvertiti come
fenomeni ma come oggetti, non sono adatti ai pensieri onirici e non vengono immagazzinati
come ricordi utilizzabili dai pensieri del sogno e dal pensiero conscio, bensì come eventi non
digeriti (infatti formano aggregati, non si amalgamano tra di loro); sono, però, adeguati per
l’identificazione proiettiva.
Lo psicotico, quindi, presenta a livello mentale una serie di elementi beta che impediscono il
contatto con la realtà. La distruzione della funzione alfa fa sì che il seno appaia come privo di
vita e determina colpa e paura nel bambino, oltre che una frustrazione dei suoi bisogni di amore
che si tradurrà in avidità insaziabile ed accumulo di beni materiali.
La funzione alfa permette il pensiero onirico, una condizione mentale fondamentale per il buon
funzionamento dell’apparato psichico: il sogno (inteso come quel qualcosa che permette alla
persona di restare “addormentata”, ovvero non consapevole di alcuni fatti ed elementi del reale
per consentirle di stare “sveglia” relativamente a ciò in cui è concentrata in quel dato momento)
separa conscio ed inconscio e permette lo sviluppo del pensiero ordinato; la capacità di sognare,
quindi, evita di cadere in uno stato psicotico. Tra l’inconscio ed il conscio vi è una barriera di
contatto costituita di elementi alfa, la quale li unisce e separa e filtra il passaggio di elementi da
un livello all’altro attraverso delle funzioni di membrana. Nelle personalità psicotiche, questa
membrana si compone per lo più di elementi beta: lo schermo beta è ciò che fa sì che il paziente
manipoli, in una certa misura, l’analista, inducendolo a dare le risposte desiderate. Una risposta
tipica dello psicotico è l’inversione di senso della funzione alfa, con la quale egli sottrae agli
elementi alfa (trasmessigli dall’analista, che cerca di dare un significato alle sue esperienze
sensoriali ed emotive) il loro valore, rendendoli simili agli elementi beta e, quindi, evacuandoli
entrambi. Questo fa sì che non si formino elementi alfa e che, pertanto, non si creino pensieri,
oltre al fatto che si rende impossibile la costruzione della barriera di contatto.
Gli elementi beta sono cronologicamente precedenti rispetto a quelli alfa. Il lattante, infatti, non
avverte il bisogno di un seno buono che dia soddisfazione, bensì quello dell’eliminazione del
seno cattivo, che è dato dall’assenza del seno: mentre il seno buono è legato all’oggetto reale,
quello cattivo esiste nel momento in cui il bambino desidera il seno; inizialmente, quindi,
succhiare il latte equivale ad eliminare il seno cattivo, ovvero la condizione di mancanza del
seno. Col tempo, le due situazioni vengono differenziate ed il seno cattivo viene riconosciuto
come l’idea di un seno che non è più disponibile: ne deriva che il pensiero si origini dalla
mancanza del seno e che, quindi, il seno cattivo si configuri come idea prima di quello buono. In
caso di incapacità di tollerare la frustrazione, c’è una subitanea ed eccessiva espulsione di
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elementi beta. Bion ha creato, quindi, un parallelismo tra il funzionamento dell’apparato
digestivo e ciò che avviene a livello psichico nella genesi del pensiero, attribuendo un ruolo
importante alla rêverie materna, che soddisfa il bisogno di amore del bambino e che costituisce
un aspetto della funzione alfa della madre consistente nell’accettazione delle identificazioni
proiettive. Un deficit della rêverie impedisce alla madre di supportare il figlio, così come un
eccessivo livello di frustrazione conduce ad un’identificazione proiettiva patologica, che
preclude la possibilità di usufruire della rêverie. Un bambino che sia, invece, capace di tollerare
la frustrazione, può accettare il principio di realtà, fondamentale per la funzione alfa.
Un altro modello che Bion ha utilizzato per spiegare l’origine del pensiero è il modello
contenitore-contenuto ♀ ♂, ove la mente della madre è il contenitore ♀, mentre gli elementi
psichici grezzi del bambino sono il contenuto ♂. Anche la relazione esistente tra preconcezione
e realizzazione può essere rappresentata con questo modello, ove la prima è il contenitore e la
seconda il contenuto; lo stesso dicasi per le relazioni pensieri-parole, singolo-gruppo e paziente-
analista. Gli originali psichici di questi legami sono quelli bocca-seno e vagina-pene. La rêverie
ha lo scopo di insegnare al bambino a contenere nella propria mente. Il rapporto madre-bambino
può determinare un legame ♀ ♂:
- conviviale interdipendenza con reciproco beneficio e nessun danno;
- simbiotico reciproco vantaggio ma dipendenza unilaterale;
- parassitario dipendenza unilaterale che produce un terzo dannoso per entrambi.
Alla base del pensiero vi è il sistema ♀ ♂, associato al meccanismo dinamico tra le posizioni
schizo-paranoide e depressiva PS D, il quale, portando ad un’integrazione degli oggetti
scissi, permette il pensiero come capacità di creare collegamenti e significati.
b) I legami K, L, H Bion ha cercato di costruire un sistema di annotazione in grado di
rappresentare l’esperienza emotiva ed utile sia per registrare i problemi analitici sia per fornire
delle indicazioni su come svolgere il lavoro. Ogni esperienza emotiva si rifà ad un legame
emotivo, di cui tre sono fondamentali, che l’analista può scrivere come segue:
1. – X ama Y L (love) x L y;
2. – X odia Y H (hate) x H y;
3. – X conosce Y K (know) x K y.
Questi legami possono, poi, assumere un valore negativo anteponendo il segno - ad L, H e K. Il
segno + o – indica l’atteggiamento amichevole od ostile del paziente, mentre le lettere L, H e K
danno informazioni circa il modo in cui l’analista percepisce il transfert. Importante è il legame
K, che esprime appieno la natura della relazione analitica e che comprende gli altri due, che gli
sono subordinati: x K y, significa che x sta cercando di conoscere y, il quale sta cercando di
essere conosciuto da x. Il legame – K sta ad indicare una non comprensione e non una mancanza
di conoscenza, così come – L non sta per H e – H per L. Il legame K rappresenta una relazione
♀ ♂ di tipo conviviale, mentre il legame – K di tipo parassitario: nel primo caso, il seno rende
tollerabile la paura di morire proiettata dal bambino, che può, così, re-introiettarla, mentre in –
K il seno invidioso sottrae ai proietti gli elementi positivi della paura di morire e rimanda al
bambino un residuo privo di significato, che genera angoscia; nel caso di – K, quindi, il
bambino re-introietta un oggetto invidioso, rappresentato dalla formula –(♀ ♂). Di
conseguenza, una psiche che funzioni secondo – K (una personalità psicotica) non fa che privare
tutto di significato, comprese le interpretazioni del terapeuta. Pertanto, –(♀ ♂) non permette la
conoscenza e blocca lo sviluppo, attribuendo potere all’ignoranza
L’apprendimento dall’esperienza ha luogo attraverso un processo di astrazione, la quale è parte
della funzione alfa e fa sì che il soggetto possa estrapolare da una certa esperienza degli
elementi tra loro associati: questa capacità deriva da un fattore unificante, che è il fatto scelto
(selected fact), ovvero ciò che rende coerenti tra loro i fatti dell’insieme.
Bion riteneva che la Psicoanalisi, come la Matematica, dovesse avere a che fare con degli
oggetti ed è quindi arrivato all’elaborazione della formula 61
{ (+/- Y) Ψ (μ) (ξ) }
ove Ψ (psi) è una costante incognita e rappresenta una preconcezione, ξ (csi) è una realizzazione
(la presenza o meno del seno reale): quindi, l’unione della preconcezione con una realizzazione
determina un pensiero Ψ (ξ). La lettera μ è indicativa di un tratto di personalità, quale la
tolleranza alla frustrazione. L’oggetto psicoanalitico è Ψ (μ) (ξ), che può avere uno sviluppo
positivo o negativo indicato con +/- Y. Questa formula, pertanto, descrive l’incontro tra una
preconcezione ed una realizzazione e, quindi, la natura dinamica dell’oggetto psicoanalitico.
c) Gli elementi della Psicoanalisi Bion ha poi spostato la sua attenzione dalla psicosi alla
Psicoanalisi, sostenendo che questa avesse un difetto pari a quello di un ideogramma che, al
contrario dell’insieme delle lettere, può formare una sola parola. Si è posto l’obiettivo di
individuare pochi elementi in grado di dare un supporto teorico unico utile all’analista, che ha
trattato come delle variabili matematiche e come dei fenomeni osservabili. Ha indicato, quindi,
dei criteri da soddisfare per essere elementi percepibili in Psicoanalisi:
- estensione nel campo del senso l’oggetto deve essere colto dai sensi, ovvero
l’interpretazione si deve riferire a qualcosa di percepibile attraverso la vista, l’udito ed il
tatto;
- estensione nel campo del mito le interpretazioni prodotte sono il risultato di un
combinazione di elementi che appaiono tra loro associati in modo causale, ovvero sono
“espressioni di un mito personale”;
- estensione nel campo della passione la passione è intesa come un legame tra menti e,
come tale, non è percepibile con i sensi. Essa fa riferimento ai legami L, H e K.
Queste tre estensioni sono i “sensi” dell’analista. Bion ha individuato i seguenti elementi della
Psicoanalisi rispondenti ai tre criteri di estensione:
1. rapporto dinamico ♀ ♂ , identificato al concetto di identificazione proiettiva;
2. PS D
, che rappresenta, anche, il fatto scelto;
3. legami L, H e K tra gli oggetti psicoanalitici;
4. I , ovvero la “idea”, costituita dagli elementi alfa;
5. R , cioè la “ragione”, che è una funzione al servizio delle passioni, ovvero di tutto
ciò che si ritrova nei legami L, H e K. Fa in modo il vuoto che dovrà essere
colmato dalla rappresentazione per mezzo di I non venga riempito per fini diversi
dalla modificazione della frustrazione;
6. interpretazione ;
7. transfert ;
8. inversione (o rovesciamento) della prospettiva ;
9. dolore ;
10. miti ;
11. premonizione , che è la controparte emotiva della preconcezione.
Dal momento che lo scopo dell’analisi è quello di evitare il dolore al paziente, l’analista deve saper
riconoscere i precursori delle emozioni del paziente, ovvero deve avvalersi della premonizione (11).
Il dolore psichico (9), invece, si manifesta quando il paziente comincia ad opporsi all’analisi,
ovvero a K. In questi casi ha luogo l’inversione della prospettiva (8), finalizzata a rendere statica
una situazione che è dinamica e che consiste nel rifiuto delle interpretazioni dell’analista da parte
del paziente: tra i due si crea una barriera di contatto, ma lo schermo di elementi beta contribuisce
alla manipolazione dell’analista, che risponde con il controtransfert; il paziente sembra accogliere
l’interpretazione, ma la svuota di significato. Lo scopo dell’analista è quello di restituire dinamismo
alla situazione, per agevolare lo sviluppo del paziente.
d) Trasformazioni la Psicoanalisi conduce alla trasformazione dei pensieri e delle emozioni e,
quindi, un’interpretazione altro non è che una trasformazione, ovvero una ridescrizione
dell’esperienza del paziente ad opera dell’analista, il quale si serve di una tecnica. Bion ha indicato:
- O (origine) esperienza originaria; 62
- T (trasformazione) comprende sia il processo di trasformazione (Tα) sia il suo risultato
finale (Tβ).
O viene quindi trasformata in una rappresentazione, ma alcuni suoi elementi, gli invarianti, non
subiscono alcun mutamento e permettono di riconoscere O in Tβ. I fatti che hanno luogo nel corso
della seduta analitica sono indicati con O, mentre T rappresenta l’analista, Tα il suo processo di
elaborazione e Tβ l’interpretazione a cui giunge. Dal momento che le interpretazioni non sono
univoche, Bion ha parlato di gruppi di trasformazioni, per far riferimento alla teorie psicoanalitiche
facenti parte di uno stesso modello.
L’autore ha anche mutuato, dalla Geometria proiettiva, due tipi di trasformazione delle figure
geometriche, ovvero quelle proiettiva (proiezione di un solido su un piano) e rigida (rotazione di
una figura), e le ha applicate alla Psicoanalisi. Ad esse ne ha, poi, aggiunta una terza, ottenendo:
1. trasformazione proiettiva O subisce un grande stravolgimento e nessuno dei suoi
elementi può essere riconosciuto in Tβ. La trasformazione proiettiva ricorre nelle psicosi ed
un suo esempio emblematico consiste nella “insalata di parole”. Il mezzo che rende possibile
questo genere di trasformazione è l’identificazione proiettiva;
2. trasformazione rigida un esempio è quello del trasfert, che è una riattualizzazione nella
situazione analitica di modelli relazionali precoci, ove O è facile da riconoscere per via
dell’intensità emotiva. La trasformazione rigida è tipica della nevrosi. Questo genere di
trasformazione avviene mediante il mezzo della rimozione;
3. trasformazione in allucinosi Tβ consiste in un’allucinazione. Questo tipo di
trasformazione è caratterizzata da invidia ed aggressività ed O vi rappresenta una catastrofe
primitiva, responsabile di un danno alla funzione alfa e, quindi, all’apparato per pensare.
L’evento catastrofico ha compromesso il contenitore, lasciando il soggetto nella condizione
di dover gestire da solo elementi beta e residui di elementi alfa. Manca la capacità di
simbolizzazione e la realtà è priva di significato. Anche la trasformazione in allucinosi è
tipicamente psicotica.
Nei fenomeni trasformativi, l’oggetto di interesse non è O, ma la sua trasformazione. O
resta, comunque, la realtà ultima verso cui la conoscenza deve tendere ed il compito
dell’analista è coadiuvare l’analizzando nella trasformazione dell’esperienza emotiva in
un’esperienza di consapevolezza. Il terapeuta, andando ad agire su Tβ, si rende responsabile
di altre trasformazioni (T analista α), che vanno a costituire un’interpretazione (Taβ), volta a
garantire una maggiore conoscenza di O: egli compie, perciò, delle trasformazioni in K.
Affinché si realizzi la conoscenza di O ci deve essere una “trasformazione in O” K O, in
cui “conoscere O” lascia il posto a “diventare O”, uno stato psichico in cui paziente ed
analista entrano “all’unisono”: la differenza tra “conoscere” ed “essere” è la stessa esistente
tra chi conosce la Psicoanalisi e chi viene analizzato. Le trasformazioni in O portano
cambiamento e, perciò, angoscia, che spinge il paziente a mettere in atto delle resistenze
contro un’evoluzione in O, la quale può essere sia positiva (se caratterizzata da K), sia
negativa (se avviene in – K), in questo ultimo caso mettendo a rischio il sistema ♀ ♂.
Quarto periodo (1966-1970)
a) Il cambiamento catastrofico in questa fase, l’aggettivo “catastrofico” assume un significato
positivo, alludendo ad un evento fautore di crescita mentale e che determina, anche, un
cambiamento della personalità psicotica. Questo cambiamento avviene al di fuori del tempo e dello
spazio e non ha nulla a che vedere con un lavoro atto a riportare a livello cosciente dei ricordi
rimossi, dal momento che la rimozione, nella psicosi, non è possibile (perché la parte psicotica
distrugge l’apparato per pensare che permette questo meccanismo di difesa); non si associa, quindi,
nemmeno al processo secondario. Per Bion, il cambiamento deve essere favorito dall’analista in
prima persona, a cui egli ha suggerito di astenersi dalla memoria e dai desideri, per consentire a
nuovi pensieri, idee ed intuizioni di venire a galla: il cambiamento catastrofico può accadere solo
quando nella relazione analitica fa irruzione un significato ed è facilitato soltanto se vengono meno
le resistenze del paziente e del terapeuta. 63
b) “Attenzione e interpretazione” è l’opera che completa il pensiero di Bion e si occupa di:
- il modo in cui l’analista arriva all’insight (cambiamento catastrofico collocato in uno
sviluppo continuo) ed all’essere all’unisono (at one) con l’analizzando;
- una rivalutazione delle prime esperienze circa lo studio della dimensione gruppale.
L’insight è una funzione fondamentale dell’analista ed è il punto di partenza dell’interpretazione.
Lo si può raggiungere solamente astenendosi sia dal ricordo che dal desiderio, lasciando fluire gli
elementi beta affinché si mescolino con i “pensieri veri”, ovvero abbassando il confine che divide
dalla personalità psicotica: in questa condizione, è possibile un incontro con il paziente psicotico.
L’analista deve, cioè, farsi O per arrivare a comprendere lo sviluppo di O, ovvero il paziente stesso.
Centrale diventa l’esperienza condivisa, facilitata dall’utilizzo del linguaggio dell’effettività, che
consente di pensare e comunicare diversi e nuovi stati mentali. Essere at one vuol dire aver costruito
una dimensione emotiva entro cui relazionarsi in modo tale da abbattere le resistenze attivate
dall’angoscia o dal sentimento di catastrofe derivante dal cambiamento, così da trasformare questi
vissuti in un’evoluzione in O. Il processo intuitivo è condizione per quello che Bion ha definito
“atto di fede” (the act of faith), il quale non appartiene a K ma ad O ed ha a che fare con qualcosa di
inconscio non accaduto. L’opacizzazione di memoria e desiderio fa sì che l’analista possa vivere lo
stato di allucinosi in cui versa il paziente, così come gli atti di fede (che precedono l’insight) gli
consentono di essere at one con le sue allucinazioni e, quindi, di innescare delle trasformazioni O
K. Tutto ciò può verificarsi solo con l’abbandono del linguaggio dei sensi, che non lascia libertà di
espressione alla personalità psicotica, a vantaggio di un linguaggio che preluda all’azione. Ciò che
si deve evitare è un rapporto parassitario, che non ne permette uno at one con O: da qui la necessità
di svincolare il pensiero da un pensatore e di accettare il dolore dell’incoerenza, senza cedere ad una
falsa coerenza. In conclusione, l’insight a cui arriva il terapeuta attraverso un’opacizzazione della
memoria e del desiderio rende possibile un’interpretazione, la quale consiste in un’elaborazione di
un vissuto emotivo che viene vissuto at one con il paziente, lasciando spazio alla propria personalità
psicotica, ed a cui vengono attribuiti un nome ed un senso.
William R. D. Fairbairn. Le relazioni con gli altri
Fairbairn viene considerato membro del Middle Group, anche se, per l’originalità del suo pensiero,
è più corretto considerarlo “intellettualmente isolato”. Egli ha proposto un nuovo modo di vedere
l’uomo e si è allontano dal modello pulsionale freudiano e dal mondo oggettuale interno kleiniano,
descrivendo un bambino non più alle prese con impulsi od oggetti interni, bensì collocato in
relazione con un oggetto esterno che è la madre; ha affermato, quindi, la centralità della relazione.
Il suo contributo non ha goduto di grande diffusione, per tre motivi:
- l’isolamento geografico (viveva in Scozia);
- le modifiche che il suo allievo Guntrip ha apportato alle sue teorie ;
- il carattere non unitario del suo pensiero .
Per Freud, le pulsioni sono le principali forze motivazionali e creano delle tensioni da cui si
originano degli impulsi, i quali danno all’apparato psichico l’energia di cui ha bisogno per riportare
l’accumulo di tensioni a livello basale: di conseguenza, gli impulsi sono finalizzati alla riduzione
delle tensioni pulsionali e sono privi di una direzione, dal momento che si orientano verso oggetti
esterni solo per adempiere la loro funzione. Per Klein, invece, gli oggetti e le pulsioni sono tra loro
collegati, dal momento che ogni pulsione è associata ad uno specifico oggetto. Fairbairn ha
abbandonato questo background teorico, sostenendo la necessità di sostituire alla teoria della libido
una teoria dello sviluppo fondata sulle relazioni oggettuali e caratterizzata da una ricerca
dell’oggetto da parte dell’individuo, ovvero da direzionalità. Secondo l’autore, il bambino non
ricerca il piacere, né la sua tensione libidica può essere smorzata usufruendo di oggetti: al contrario,
egli è impegnato nella ricerca dell’oggetto che diventa obiettivo verso cui tende l’energia libidica,
mentre il mezzo per raggiungerlo è costituito dal piacere. Gli oggetti sono presenti fin da subito e
non sono, come per Klein, interni, bensì esterni: con essi il bambino è motivato a costruire delle
relazioni oggettuali ed è in particolare il primo oggetto esterno con cui egli si relaziona, ovvero la
madre, ad assumere un ruolo importante per quel che riguarda il suo sviluppo. Le esperienze
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negative vissute nell’ambito di questa relazione oggettuale, infatti, portano il bambino a creare degli
oggetti interni compensatori delle mancanze del reale e che sono sostitutivi degli oggetti esterni. Per
cui, mentre Freud ha descritto un bambino “pulsionale” e mosso dal bisogno di scaricare la tensione
per mezzo della stimolazione delle sue zone erogene, Fairbairn ha spiegato come il comportamento
umano sia, in vero, sempre motivato alla creazione ed al mantenimento di legami con gli altri: il
bambino, non possedendo schemi comportamentali precostituiti, è inesperto ed è solo questa sua
caratteristica a dar l’impressione che egli agisca secondo il principio di piacere. Il primato genitale,
inoltre, non è più inteso in senso freudiano, ma viene considerato una conseguenza del
raggiungimento di una dipendenza adulta e si esplica nell’interesse a riprodursi ed a garantire la
continuità della specie.
Fairbairn ha quindi descritto uno sviluppo stadiale, che si fonda sulla maturazione delle modalità
relazionali del bambino con gli oggetti:
- dipendenza infantile il bambino vive una relazione con la madre che rimanda al
primordiale stadio di fusione, il che è dovuto all’identificazione primaria, che fa sì che
l’investimento riguardi un oggetto non ancora differenziato. Egli è del tutto dipendente dal
seno e lo è in modo orale, dal momento che è con la bocca che mette in atto
l’incorporazione. Una caratteristica della dipendenza infantile è data dal narcisismo, che è
primario quando si ha un’identificazione con l’oggetto e secondario quando l’identificazione
ha luogo con un oggetto interiorizzato. La fase orale si divide, quindi, in due sottofasi: la
fase orale precoce, ove l’oggetto di dipendenza è il seno materno, a cui segue la fase orale
tardiva, che comincia con la dentizione ed in cui l’oggetto di dipendenza è la madre con il
suo seno. Le modalità relazionali del lattante consistono nel succhiare e nell’incorporare
prima, a cui si aggiunge il mordere poi: nella prima sottofase orale, quindi, l’oggetto buono
viene succhiato ed incorporato e quello cattivo rifiutato, mentre nella seconda sottofase orale
l’oggetto cattivo viene morso, il che fa sì che il periodo successivo all’inizio della dentizione
sia caratterizzato da ambivalenza;
- periodo di transizione comprende la fase sadico-anale nella sua interezza e quella genitale
precoce, ovvero la fallica. Si assiste, in questo periodo, ad un graduale venire meno della
dipendenza ed ad una dicotomia dell’oggetto, il che vuol dire che l’oggetto originario, verso
cui il bambino nutriva, prima, ambivalenza, viene ora diviso in un oggetto accettato, a cui
egli rivolge amore, ed in un oggetto rifiutato, per cui prova odio. Uno sviluppo normale è
caratterizzato, in questa fase, da una progressiva differenziazione dall’oggetto, con una
diminuzione dell’identificazione ad esso. Per far fronte alle difficoltà che sorgono nella
relazione oggettuale, il bambino può mettere in atto una serie di tecniche, la cui scelta
dipende dal tipo di relazione che ha vissuto nello stadio precedente. Queste tecniche sono:
1) tecnica fobica il conflitto sta tra la paura legata all’impulso alla separazione e quella
associata all’attrazione regressiva all’identificazione, ove la prima fa sorgere angosce di
isolamento e la seconda di intrappolamento;
2) tecnica ossessiva il conflitto riguarda l’impulso ad espellere e quello a trattenere,
rispettivamente associati all’angoscia di svuotamento ed a quella di esplodere come
conseguenza dell’eccessiva ritenzione. La situazione conflittuale, quindi, riguarda la perdita
e la conservazione dell’oggetto;
3) tecnica isterica il conflitto risiede nella polarità accettazione-rifiuto dell’oggetto e,
quindi, si ha un’accettazione dell’oggetto esterno ed un rifiuto di quello interno o viceversa;
4) tecnica paranoide al contrario dell’isterico che sopravvaluta gli oggetti esterni, il
paranoide li teme in quanto persecutori, mentre accetta quelli interni.
Le forme fobica, ossessiva, isterica e paranoide, perciò, non sono per Fairbairn delle
psicopatologie dovute ad una fissazione, ma delle tecniche che l’Io adotta per regolamentare
le relazioni oggettuali. Fairbairn, infatti, considerava solo due psicopatologie come tali: la
schizofrenia, in cui queste tecniche mirano alla salvaguardia dell’Io, e la depressione, ove
sono finalizzate alla conservazione dell’oggetto. 65
Il bambino, per raggiungere la maturità, deve riuscire a svincolarsi sia dalle sue condotte di
dipendenza dagli oggetti esterni sia dal suo attaccamento a quelli interni, che sono nati per
supplire alle mancanze delle relazioni con i primi. In questo stadio è fondamentale che egli
faccia delle esperienze positive che gli permettano di sviluppare una buona fiducia, poiché
se ciò non avviene il rischio è che si stabilizzi la fase di transizione e che permangano il
bisogno di attaccamento, l’angoscia della separazione ed il conflitto tra questa e la
regressione;
- dipendenza adulta è caratterizzata da un atteggiamento oblativo, in cui non vi è
indipendenza ma interdipendenza. La differenza sta nel fatto che mentre la dipendenza
infantile era totale, illimitata ed unicamente rivolta ai genitori, la dipendenza matura è
reciproca, risente di alcune condizioni e si rivolge ad una pluralità di oggetti; l’oggetto
biologico appropriato, inoltre, non è più il seno della madre, bensì gli organi sessuali
dell’altro genere. La dipendenza, quindi, resta necessaria, dal momento che non può
mancare in una qualsiasi relazione oggettuale.
Per quel che riguarda, invece, l’organizzazione psichica, Fairbairn, al contrario di Freud, non ha
concepito un Io come privo di energia, bensì ha descritto l’energia pulsionale come inseparabile
dalla struttura, dal momento che sono proprio le strutture dell’Io ad entrare in relazione con gli
oggetti; le pulsioni, quindi, non possono esistere senza le strutture, di cui costituiscono l’aspetto
dinamico. L’Io non si forma in un secondo tempo, ma è presente fin da subito ed allo stesso modo è
legato agli oggetti. Fairbairn, pertanto, ha rifiutato la visione di un Io senza energia e di un Es con
energia ma senza struttura: ha incluso, infatti, l’Es nell’Io ed è proprio questo a garantire un
funzionamento basato sul principio di realtà e su un investimento del reale da parte delle pulsioni;
l’Io, infatti, funziona secondo il principio di piacere solo in casi di fallimento e solo come mezzo
per organizzarsi strutturalmente. L’Io di Fairbairn, quindi, è unitario e costituisce il Sé in toto e
questa concezione pone due problemi, che riguardano:
- l’unitarietà dell’Io Fairbairn non ha descritto lo stato originario dell’Io, né la sua
integrazione che sarebbe fin da subito presente;
- la rimozione dato che la pulsione è legata all’Io, la rimozione non può più essere intesa
come una funzione di questa struttura adibita ad un controllo pulsionale. Ad essere rimossi,
quindi, non sono più i derivati pulsionali inaccettabili a livello di coscienza, ma gli oggetti
interiorizzati e le parti dell’Io che con essi si relazionano. La rimozione è finalizzata alla
difesa dagli oggetti interni cattivi, che nascono sempre da relazioni non gratificanti. Il
bambino, infatti, sperimenta la relazione con una madre che è al tempo stesso gratificante e
frustrante: scinde, quindi, l’oggetto in una componente appagante ed in una non appagante,
la quale a sua volta si scinde creando un terzo oggetto. Le “tre madri” con di cui il bambino
fa esperienza sono quelle appagante, allettante (ovvero che fa sperare ma poi non mantiene)
e deprivante ed a questo punto si ha un’internalizzazione se la relazione reale viene vissuta
come frustrante: tale internalizzazione consiste nella creazione di tre oggetti interni, ognuno
dei quali corrisponde ad una delle visioni della madre e con ciascuno dei quali si relaziona
una parte dell’Io, che si scinde perdendo la sua unità:
1) madre gratificante oggetto ideale Io centrale (si occupa, anche, di creare le relazioni
con gli oggetti esterni);
2) madre allettante oggetto eccitante Io libidico ;
3) madre deprivante oggetto rifiutante Io anti-libidico .
L’Io libidico e l’Io anti-libidico sono “Io sussidiari”, che non entrano nel merito delle
relazioni con gli oggetti esterni: mentre il primo esprime la speranza del bambino e crede
alle promesse dell’oggetto eccitante, il secondo rappresenta il dolore ed il disinganno ed
attacca sia l’Io libidico sia l’oggetto eccitante; sono proprio gli attacchi dell’Io anti-libidico,
secondo l’autore, a rappresentare la patologia nei suoi aspetti più brutali.
L’Io muove, quindi, un processo primario di rifiuto, che porta alla rimozione dell’oggetto
eccitante e di quello rifiutante, associato ad un processo secondario di rimozione, che
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DESCRIZIONE APPUNTO
Riassunto per l'esame di Psicologia Dinamica, basato su appunti personali e studio autonomo del testo Modelli Evolutivi in Psicologia Dinamica: Dal Modello Pulsionale alle Relazioni Oggettuali, Quaglia, Longobardi consigliato dal docente Nespoli. Tra gli argomenti trattati vi sono: Sigmund Freud, libido, inconscio, topica, Anna Freud, psicologia dell'Io, Scuola ungherese, Ferenczi, Balint, Grunberger, modello relazionale, modello misto, Jung.
I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher JennyJenny di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Psicologia dinamica e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Torino - Unito o del prof Nespoli Giorgio.
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