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Già il c.c. aveva fatto emergere la proprietà edilizia come forma
notevole di proprietà, dedicandovi gli art. 869-872 c.c cui fanno seguito
le disposizioni sulle luci, le distanze e vedute e sullo stillicidio.
Questi articoli però non contengono una effettiva disciplina della
proprietà edilizia, ma si compongono di una serie di rinvii ad altre fonti
extracodicistiche;
Da ciò deriva l’ambiguità della terminologia fra la designazione della
materia urbanistica e la designazione della materia edilizia in senso
stretto, ossia “quella attinente alle regole da osservare nella costruzione
degli edifici”.
I rinvii contenuti nel c.c. indirizzano verso la disciplina della
pianificazione pubblica dell’uso del territorio, indicandone gli strumenti
allora in uso: piani regolatori, comparti, regolamenti edili e di ornato.
La disciplina edilizia è conformata dalla disciplina urbanistica vigente
che ormai concerne ogni rilevante trasformazione del territorio e non
solo la costruzione di edifici.
Rispetto all’attività edificatoria esiste un momento di controllo della
conformità di quanto progettato, o di quanto è stato realizzato, rispetto
all’ordine di piano.
In materia l’indagine + complessa però si rivolge all’emersione di forme
di soddisfacimento dei bisogni che si collegano al bene edilizio.
Si tratta da un lato di discipline che agevolano l’accesso al bene casa di
abitazione, e dall’altro di discipline che tutelano il godimento del bene
abitazione all’interno del rapporto col proprietario;
L’accesso al bene casa tramite il ricorso alla struttura cooperativa ha
poco in comune con l’eterointegrazione dei rapporti di locazione, o con
la tutela del conduttore nei casi di recesso.
Ecco perché è produttivo allora riservare all’espressione “proprietà
edilizia” il solo profilo connesso con la disciplina del territorio e
assegnare al dominio della proprietà immobiliare tutto ciò che attiene
all’appartenenza e al godimento degli edifici esistenti.
La proprietà edilizia è l’esempio + evidente di proprietà conformata, in
cui la conformazione è affidata a uno strumento specifico, cioè al piano
urbanistico. L’ordine di piano decide in tema di potenzialità edilizia
delle aree:
direttamente stabilendo la tipologia edilizia ammessa in ciascuna
- zona
Indirettamente, mediante i c.d. standard urbanistici che
- stabiliscono i coefficienti di edificabilità della zone e inoltre la
dotazione minima di servizi che ad essa spettano.
La circolazione delle aree destinate a parcheggio secondo la dotazione minima stabilita
negli standard in vigore non può avvenire separatamente dalla disponibilità dell’unità
abitativa cui sono collegate; nel caso in questione, non si tratta di un rapporto di
pertinenza in senso tecnico, ma di un vincolo di destinazione che attiene al modo di
essere della proprietà dell’area e che non può essere derogato mediante pattuizioni
private. Ma discende dalla stessa tecnica pianificatoria la perfetta legittimità dei c.d.
trasferimenti di volumetria, perché sono utili alla miglior realizzazione dell’ordine di
piano ridistribuendo tra i proprietari delle aree in modo efficiente le potenzialità
edificatorie stabilite dallo standard in vigore e poiché, cosi operando, i privati proprietari
sviluppano l’ordine di piano e i loro accordi non richiedono modifiche al regime
dominicale e quindi non è necessario ricorrere all’imposizione di servitù, pur restando
fermo che la proprietà cedente non ha + la volumetria della zona, ma quella ridotta
derivante dall’obbligo assunto.
Secondo gli atteggiamenti della giurisprudenza amministrativa la
proprietà è vista come strumento di partecipazione del privato
all’esercizio del potere pubblico, sicché anche nella fase giurisdizionale
potevano essere contemplati solo gli interessi pubblici.
La regola di principio per cui la proprietà privata e in particolare la
proprietà edilizia è conformata in base alle leggi e ai regolamenti vigenti
non implica che, ove insorga questione relativa alla legittimità di un
regolamento o di un atto amministrativo, l’interesse del singolo non
possa essere oggetto di considerazione.
La giurisprudenza amministrativa che ha costruito l’interesse
legittimo come interesse sostanziale.
Sino a quando l’interesse legittimo veniva mantenuto separato dal
diritto soggettivo, dall’assenza di tutela risarcitoria, il diritto di proprietà
continuava a partecipare ai programmi di pianificazione del territorio e
della propria conformazione, sprovvista del tipo di rimedio + consono
alla tutela degli interessi ad essa ricollegabili.
Tale impostazione è stata sconvolta dal riconoscimento degli interessi
legittimi come posizioni soggettive dotate di tutela risarcitoria;
di conseguenza, anche se configurato come interesse legittimo
l’interesse del proprietario è in grado di confrontarsi con l’interesse
pubblico e di far valere, ove ne ricorrano le condizioni, la sua prevalenza
anche al di là delle ipotesi di partecipazione del privato all’esercizio del
potere pianificatorio pubblico.
Quindi una volta ammesso che nei rapporti fra soggetto privato e P.A. la
lesione provocata alla sfera giuridica del privato dall’esercizio non jure
della p.a. può essere integralmente riparata non solo con la cessazione
degli effetti dell’atto lesivo, ma anche col ristoro dei danni provocati
dall’avvenuta lesione ove questa sia in contrasto con un interesse
legittimo, diviene irrilevante la distinzione col diritto soggettivo perché
l’elemento costitutivo è pur sempre una lesione contra jus.
Osservando il percorso della dottrina italiano nel XX sec.. il rilievo
essenziale è che si è finito col trascurare la conformazione della
proprietà mobiliare.
L’unica eccezione sembra essere costituita dalla proprietà dei beni
culturali.
Occorre distinguere:
le regole normative che si dirigono direttamente sulle cose
mobili e ne disciplinano direttamente la confezione:
quando una nuova cosa viene creata dall’attività
manifatturiera, ci sono ottime ragioni per disciplinare gli
standard di sicurezza che deve avere.
le regole che attengono alla loro circolazione
le regole che attengono alla conformazione della proprietà
mobiliare in generale.
In funzione della natura delle cose ci sono altre regolamentazioni della
proprietà mobiliare che meritano cenno.
Esistono beni negativi, nel senso che “non sono utili né a chi li
possiede né ad altri”: tali tipi di beni sono sempre esistiti, ma è stata la
civiltà industriale che ne ha moltiplicato il n° e creato il problema
giuridico del loro trattamento.
I rifiuti materiali ne sono l’esempio.
A riguardo:
la derelizione non è ammessa, anzi costituisce illecito
- il trasferimento convenzionale è spesso canalizzato, nel senso che
- certi beni negativi come ad es. i rifiuti tossici possono essere
ceduti solo a soggetti aventi determinati requisiti soggettivi.
L’alienazione è onerosa per il tradens e non per l’accipiens.
- ↓
Questa figura negoziale non è limitata alle cose materiali dannose, ma trova
applicazione a tutte le forme di proprietà che per una ragione o per l’altra hanno in un
determinato momento un valore economico negativo.
Si pensi al caso delle azioni di una società che gestisce un’azienda in perdita strutturale,
che quindi è dotata di un avviamento negativo.
La proprietà dei beni negativi è conformata in modo tale che il loro titolare si libera dei
costi connessi alla sua posizione solo pagando un prezzo e l’ordinamento interviene nel
disciplinare tale accordo solo per assicurarsi che il trasferimento non avvenga a favore
di un soggetto c.d. judgement proof, ossia esente per motivi di nullatenenza apparente o
di difficoltà di identificazione, o di acciuffo, da responsabilità di ogni sorta.
Di maggior spessore sono i problemi relativi alla conformazione della
proprietà mobiliare in generale.
Nel nostro sistema civilistico, venuto dalla Francia, la proprietà
mobiliare circola in base al principio consensualistico per cui la volontà
individuale può tutto, non solo nei rapporti fra le persone, ma anche
nelle relazioni che essi intrattengono con le cose.
Tuttavia, in caso di conflitto la proprietà cede al possesso: il possessore
di buona fede che abbia acquistato dal non proprietario in base a titolo
idoneo, diviene proprietario del bene mobile non registrato,
estinguendosi di conseguenza la proprietà dell’effettivo titolare.
Il c.c. del ’42 ha esteso e in parte trasformato la regola originaria, sicché
è divenuto irrilevante che il bene trasferito sia stato sottratto al
proprietario legittimo mediante furto o appropriazione indebita.
La velocità dello smercio dei beni ne accresce poi il valore, ma l’effettività del vantaggio
conferito ai proprietari legittimi dipende dalle circostanze momentanee, ossia dal
sistema di produzione momentaneamente + diffuso.
Diverso è il caso in cui la proprietà sia conformata in modo da cedere al
possesso o alla detenzione. Il nostro sistema ha ereditato dal modello
francese la regola del non cumulo fra possessorio e petitorio (a dire il
vero però tale divieto non è un’idea del diritto francese, ma di quello
canonico).
La nostra Corte Cost. si è già pronunciata 2 volte sul punto:
1. In una 1° occasione non ha visto il problema
2. Nella 2° ha collegato la previsione dell’art. 1153 c.c. con la
previsione dell’art. 705 cpc in base al quale il principio della non
cumulabilità del petitorio e del possessorio ha statuito
l’incostituzionalità parziale di quest’ultima norma: ossia quando
sia probabile che l’attore che agisce in possessorio, ottenuta la
reintegrazione nel possesso, possa alienarla ad un terzo di buona
fede che cosi la sottrarrebbe irrimediabilmente alla rivendica del
proprietario.
Il principio enunciato dalla Corte è da intendersi nel senso che la sola presenza
nel nostro ordinamento della regola dell’art. 1153 c.c. impone di non privare il
convenuto in giudizio possessorio della possibilità di sollevare l’eccezione basata
sul suo diritto dominicale, perché in caso contrario egli è esposto al rischio di
essere privato della proprietà senza un giusto processo.<