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PROLOGO
“I sentimento della profondità genera il silenzio, affoga gli oggetti nel silenzio” (Giacometti).
Tanto + il discorso va in profondità, tanto + evoca il silenzio; nel momento in cui si tocca l’essenza
del problema, si avverte che tutto ha senso solo quando ci intratteniamo con noi stessi.
La pedagogia, davvero, sembra non esistere, se non nei turbati sogni notturni dei pedagogisti =
esiste la coscienza pedagogica. La coscienza pedagogica non è pedagogia (ossia sistema codificato,
istituzionalizzato, con obiettività scientifica). La pedagogia non riesce a districarsi da questa
contraddizione (essere scienza, ossia descrittiva, senza alcuna intenzionalità formativa, o
prescrittiva e diventare quindi ideologia). Non vuole essere ideologica e neppure rinunciare
all’ambizione di essere scienza.
Da questa cultura non può nascere una pedagogia prescrittiva e moralistica, ma solo
smascheramento delle situazioni x metterne alla luce la problematicità: adottare una prospettiva
antipedagogica critica (se non è possibile fondare una teoria educativa).
Educazione come esperienza vissuta dell’uomo in quanto cultura = definizione che aderisce
all’intesa cielo e terra; tenere insieme l’inevitabile ovvietà delle cose che ci stanno attorno con le
cose che progettiamo e ci aspettiamo (orizzontalità e verticalità).
Infatti: cosa siamo, nel profilo atroce di ciò che dobbiamo diventare se non l’orbita vuota di quello
che avremmo sempre potuto essere e che non siamo stati capaci di diventare? = dobbiamo
realizzare noi stessi, xò il maturare in una direzione può porre il fine di noi stessi troppo lontano da
noi (rischio di non riconoscersi più o di sentire l’imperfezione, sentirsi mancanti).
Ma può esserci un rischio ulteriore: sottovalutare il sentimento di mancanza e cadere nel
narcisismo devastante (il sentimento di mancanza è fondamentale): nel momento in cui ci
domandiamo cosa siamo in relazione a ciò che dobbiamo diventare può sorgere un’ulteriore
contraddizione = la soddisfazione di ciò che siamo diventati ci spinge a non problematizzare.
Dobbiamo credere che ove viviamo veramente questa vita (con un’educazione che non smetta mai
di guardarsi allo specchio) sforzandoci di capirla e seguirla, essa stessa saprà darsi una forma che
alla fine apparirà ai nostri occhi come quella che cercavamo senza poter prevedere come sarebbe
stata.
Ecco: se la vita è vita, lì la vita, come critica della vita, diventa paradigma formale di una vita che
si dia davvero come vita (…) la vita educa solo se anche l’educazione si fa, anti pedagogicamente,
critica dell’educazione = attimo in cui la vita si riconosce come critica.
La vita è davvero vita nel momento in cui si riconosce come critica, una vita che voglia essere
autentica, cioè costruzione o orizzonte di un’educazione, è critica verso se stessa = un’operazione si
smascheramento problematico. Se non impariamo a vivere criticamente arriveremo a un punto in
cui la vita, che si dà a noi come critica della vita, ci conduce attraverso scenari imprevedibili in cui
troviamo senza cercare ciò che desideriamo (l’uomo, differenza dell’animale, non è solo essere di
bisogno, ma anche di desiderio).
Educazione = esistenza
Solo se la vita si riconosce nella dialettica e critica ci porta a una visione problematica e alla sua
essenziale democraticità (rispetto dell’altro).
“Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore” (Saba).
Prospettiva pedagogica = spirito non piegato dalla schiavitù dell’ordine del giorno, una pedagogia
allegra e festosa che nutre ancora amore x la vita.
L’EDUCAZIONE IN QUANTO ESISTENZA
“il nostro campo di lavoro per l’avvenire dell’uomo è là dove si trova ancora priva di forma”
(Nietzsche). La vita non è un argomento, necessità di stare senza argomentarci (respingere senza
tregua qualcosa che vuole morire, essere crudeli e spietati contro tutto ciò che sta diventando debole
e vecchio di noi = resistenza a ciò che muta di cui la nostra corporeità è considerata
manifestazione).
La nostra necessità di stare, ci fa sentire radicati, ci dà consistenza e peso (il peso pende perché
dipende).
Se la vita non è un argomento implica questa urgente necessità di stare e riconoscersi nella
dipendenza.
Carlo Michelstaedter: concezione di vita come mancanza di vita x ogni uomo:
“quando esso non mancasse + di niente, ma fosse finito, perfetto, possedesse se stesso, avrebbe
finito di esistere”.
“nessuna vita è mai sazia di vivere in alcun presente, chè tanto è vita quanto si continua, e si
continua nel futuro quanto manca del vivere” = non si è mai completi.
Nel momento della critica educazione ed esistenza coincidono (critica come strategia di non
appiattimento nell’inerzia esistenziale); se si aderisce ad una vita banale e in autentica, avverte il
disgusto x sua stessa vita + rischio di rintracciare la propria cosità e intramondanità (l’uomo si
riduce a essere cosa tra le cose, diventa nulla, non + quell’animale pensante, tra angelo e bestia).
Si deve riconoscere che “la vita o la si vive o la si scrive” (Pirandello). O la si gode come ciò che
appartenendoci ci fa essere quel che si è o si vive con il necessario distacco x descriverla, cosciente
di non viverla appieno.
La nostra vita, ovvero la nostra tentazione di esistere, altro non è se non quel pensare contro di noi
stessi attraverso cui la morte medesima ci si rivela come eccedenza di vita. In quanto è fine di
un’esistenza banale e inizio del riscatto esistenziale, si verifica la cessazione dell’ex-sistere.
Che cos’è la vita?
Ciò che vogliamo (espressione attiva e concreta del nostro desiderio di essere)
- Praesentia in absentia, qualcosa che non ci appartiene (ciò che ci riduce ad essere cosa tra le
- cose)
Che cosa posso diventare in relazione a ciò che già sono? Rendersi conto che attraverso la
coscienza critica della situazione in cui si vive e dei propri limiti.
È la vita solamente vita? Oppure dissolve se stessa nell’altro ineffabile che detta segretamente le
regole dell’esperienza esistenziale? E che se ne potranno mai fare pedagogisti e pedagoghi di
questa indecisa certificazione di senso proprio quando l’urgenza che li muove sembra invocare,
semmai, la provvidente garanzia di un cielo a portata di mano?
È troppo facile cercare un cielo provvedente alla nostra garanzia, basta essere consapevoli che
“sapere è soffrire” (Eschilo). Non esiste conoscenza senza sofferenza, occorre imparare attraverso
la sofferenza.
È troppo facile cercare un cielo a portata di mano, quando hai l’inferno (coscienza della
conoscenza).
La vita non è mai solamente vita. Se la vita fosse vita e basta, non sarebbe. Laddove, infine, la vita
x aderire esclusivamente a se stessa, non potrebbe che indicibilmente proporsi come nientificazione.
La vita è vita quando è critica della vita, altrimenti è lasciarsi vivere: se tu vivi criticamente, ti lasci
condurre dalla vita in quella dimensione di felicità di cui non ti puoi prefigurare neppure gli scenari.
Silenzioso consenso al suo non potersi dire né ora né mai, quasi che il mondo imbrigliato nelle sue
stesse tranne ordinatrici, non fosse che il residuo vertiginoso di un’orbita vuota, di un dio mancato,
di un non senso muto.
Amare la vita sembrerebbe ricordarci contro ogni sanguinosa grandezza, che il paese della nostra
nostalgia è proprio la normalità, il decoro, la grazia, insomma la furtiva e struggente passione x
l’incanto delle cose comuni.
Amare non è sempre conoscere. Mentre tu ami, vuoi tanto bene che non sempre hai la conoscenza
(la conoscenza si raggiunge col t, accompagnata dalla sofferenza).
La vita non è mai solamente vita, essa è sempre molto di + anche se talvolta è terribilmente di
meno. La vita è sempre è di quanto riusciamo a respirare, ma a volte se ne respira una infinitesima
parte di quanto ci aspettiamo o vorremmo.
La vita è qualcosa di impalpabile che ci appare solo nel momento in cui ci chiediamo cosa essa sia :
attraverso la critica la vita diventa una vita che s’insinua nelle pieghe segrete della nostra intimità.
Morte: istante straordinariamente educativo (nel momento del dolore c’è insegnamento e ti rendi
conto dei tuoi lim); momento in cui si può ascoltare nel silenzio del mondo l’autenticità della
propria vita, proprio quando la vita dice che noi, malgrado tutto, viviamo. Stiamo piantati come
peso che pende, gancio agganciato alle cose del mondo.
La vita non è mai solamente vita xchè essa x essere se stessa, non può propriamente non
riconoscersi come altro da sé, cioè come critica della vita.
Ci permette di intraprendere l’avventura di uscire da ciò che ci è familiare, s’intraprende la nostra
odissea che ci riporterà a ritornare alla nostra intimità.
La vita come critica è figlia del dolore.
La vita, nel parlare dell’altro da sé, figurandosi come critica della vita, acquista una dimensione >
della semplice vita e di questa dimensione arricchita raggiunge anche la forma (la vita acquista
forma nel suo realizzarsi). Tutto ciò che comprendiamo attraverso la critica della vita rende la vita +
che vita, ci dona un orizzonte di senso all’int del nostro viaggio avventuroso che si muove alla
conoscenza del mondo traghettandosi verso il ritorno = chiarire a se stessi l’orizzonte della propria
vita (spazio in cui ognuno decide x sé).
La vita educa xchè c’è quella coscienza che, prendendo distanze dall’immediatezza del mondo,
introduce un ordine delle cose, un loro plausibile orizzonte di senso, un motivo x non morire.
SCIACCA: commento su Musil = la stupidità non consiste nel non vedere o non comprendere o
vedere/comprendere poco o male, ma nel negare che non possiamo vedere o comprendere tutto,
negare quel che non si vede o comprende; non riconoscere i lim della condizione umana. Solo
l’uomo è stupido, xchè solo l’uomo (intelligente) corre il rischio dell’oscuramento dell’intelligenza.
La stupidità saccheggia i cuori dei poveri servi fanatici della vita in cui lo spirito non parla.
Critica della vita = momento in cui ciascuno decide x sé, nell’avvertimento che intanto la vita ceca
in tutti i m