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L’iperattività (o deficit di attenzione) è stato riconosciuto come un disturbo solo
recentemente. La diagnosi di questo disturbo avviene sulla base dell’osservazione dei
comportamenti del soggetto (deficit di attenzione, impulsività, iperattività). Per curarlo si ricorre
spesso all’uso di farmaci, ma a volte esso può essere curato attraverso un contatto empatico.
Elena, una bambina adottata, sembra essere affetta da iperattività.
Per lei è stato proposto un laboratorio di psicomotricità. Durante una seduta, Elena manifesta il
desiderio di costruire una casa. Prova a farlo usando cubi, materassini ed altri materiali, ma non
ci riesce ed abbandona subito l’idea.
Prende invece un materassino e dice che è la sua barca che la porterà alla casa dei malati
(Elena, prima dell’adozione, aveva passato un lungo periodo in un ospedale).
Alla fine, sollecitata dalla psicomotricista a trovare un posto dove riposare, Elena striscia sotto
un tavolo. Qui la bambina, per la prima volta, trova un posto sicuro.
Resterà ancora una bambina agitata e inquieta, ma l’esperienza di condivisione di senso con
un’altra persona l’aiuterà a mettere simbolicamente delle radici affettive.
3. “Costruzioni di identità e pedagogia di genere” di Silvia Leonelli
In questa parte del libro si indagano i nodi più significativi di 40 anni di pedagogia di genere.
Il punto di partenza è il libro di Elena Belotti “Dalle parte delle bambine” del 1973. L’autrice è
un’insegnante di una scuola di ispirazione montessoriana. Ella nota piccole angherie,
svalutazioni, limitazioni compiute dagli educatori nei confronti delle bambine.
Da questa osservazione, Elena Belotti prende le mosse per indagare l’influenza dei
condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile fin dai primi anni di vita.
L’epoca di stesura del saggio è caratterizzata dal dibattito sulla distinzione tra sesso (=
nascere in corpi sessuati) e genere (distinzione legata al fatto di vivere in contesti che
forniscono significati ai corpi sessuati).
In ambito genetico e psicologico, ci si occupa di studiare le caratteristiche genetiche che
determinano le differenze sessuali e si ipotizza che esse possano giustificare una diversa
visione del mondo e dell’esistenza tra maschi e femmine.
Ad esempio, la possibilità di partorire dei figli (geneticamente determinata dall’essere femmina)
sarebbe associata “automaticamente” ad alcune caratteristiche personali quali la dolcezza e la
capacità di cura.
In ambito sociocostruzionista, filosofico e sociologico, è il periodo in cui ci si occupa delle
differenze di genere. Gli studi compiuti indagano il processo che conduce il soggetto ad
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interpretare i dati biologici. Ad esempio, le donne sarebbero dolci e capaci di cura non per un
dato geneticamente determinato, ma per effetto dell’educazione ricevuta.
Elena Belotti si rifà a questa riflessione e afferma che, sebbene le differenze tra maschi e
femmine possano derivare da aspetti biologici, è importante concentrarsi sulle cause sociali e
culturali che possono essere modificate, ad esempio, da genitori ed educatori.
Quattro decenni di pedagogia di genere: snodi e passaggi
Nei quarant’anni che ci separano dalla pubblicazione del libro di Elena Belotti, l’educazione e la
pedagogia di genere hanno compiuto numerosi progressi.
L’educazione di genere riguarda le azioni e i comportamenti messi in atto, anche
inconsapevolmente, da chi ha responsabilità educative.
La pedagogia di genere è data dalla riflessione sull’educazione di genere condotta da
pedagogisti ed esperti della formazione.
Oggetti di interesse della pedagogia di genere sono:
● il rilevamento dei modelli impliciti dell’essere bambini e bambine a cui si riferiscono i
genitori e gli educatori;
● lo studio delle modalità con le quali questi modelli si traducono in pratiche.
Nella storia degli ultimi 40 anni della pedagogia di genere possiamo distinguere i seguenti
periodi:
1. dal 1970 al 1990: è il periodo in cui gli studi compiuti si concentrano sull’uguaglianza tra i
sessi in tema di diritti e possibilità (ad esempio, la possibilità di studiare);
2. verso la metà degli anni ‘80 si rafforza l’impressione che le donne tendano ad uniformarsi
agli uomini senza trovare una via originale per esprimere la propria femminilità;
3. dal 1990 al 2000: si focalizza lo studio sul modo in cui le donne conoscono partendo da sé. Si
cerca di aiutare le bambine a diventare soggetti che creano attivamente il sapere.
Il rischio è quello di tornare ad imputare a differenze biologiche le differenze tra maschi e
femmine.
4. dal 2000 a oggi: nei contesti ducativi si delinea un periodo preparatorio al superamento del
pensiero delle differenze. La categoria “genere” diventa complessa perché ci si oppone al
riduzionismo binario (maschi/femmine, natura/cultura, corpo,mente).
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Ricerche e dati tra stereotipi e trappole di genere dal 2000 a oggi
Nel 2003 Francesca Bellafronte nel libro “Bambine (mal)educate” riporta i dati di una ricerca
svolta tra gli alunni di alcune classi quarte e quinte elementari pugliesi.
Da essi emerge come i bambini, già a quest’età, facciano riferimento a stereotipi riguradanti sia
il loro presente (giochi, giocattoli, ecc.) sia il loro futuro (professioni).
I genitori e gli insegnanti tendono a riprendere le bambine che si comportano da “maschiacci” e i
bambini mammoni e piagnucolosi.
Nel 2007 Loredana Lipperini nel saggio “Ancora dalla parte delle bambine” evidenzia la
ripolarizzazione di genere proposta dal marketing di prodotti per l’infanzia (esempio: ovetti
Kinder per lei e per lui, Sapientino per maschi e per femmine).
Nel 2008 Irene Biemmi nel saggio “Sessi e sessismo nei libri scolastici” ha analizzato 10 volumi
adottati in alcune scuole primarie, evidenziando i pregiudizi sessisti in essi riscontrabili.
Ad esempio, le storie raccontate hanno come protagonisti dei maschi nel 51% dei casi, mentre
le protagoniste sono femmine solo nel 34% dei casi. Le attività svolte dalle donne considerate
nei testi sono: maestra, casalinga, principessa, ecc.
Biemmi è critica nei confronti degli insegnanti che adottano libri di testo senza preoccuparsi dei
contenuti sessisti.
Si nota che la disattenzione alle questioni di genere riguarda sia le insegnanti con una certa
anzianità di servizio, sia quelle più giovani.
4. “Quando l’infanzia incontra la malattia” di Silvia Demozzi
Nonostante le cure a cui normalmente sono sottoposti, anche i bambini possono contrarre
malattie serie.
I bambini malati richiedono una relazione di cura e di aiuto.
Alla malattia si associano il dolore fisico, la sofferenza psicologica, il senso di colpa (il bambino
può associare l’insorgere della malattia ai suoi capricci e alle sue disobbedienze) e la paura di
essere abbandonato.
Nella reazione del bambino di fronte alla malattia possiamo individuare alcune fasi:
1. “chiusura”: inappetenza, non voglia di giocare;
2. “regressione”: bisogno di coccole e di consolazione;
3. le due fasi si riducono gradualmente man mano che la cura produce i suoi effetti.
Nei bambini che devono essere ospedalizzati, la paura più grande non è quella del dolore fisico,
ma quella di perdere la madre e le altre figure rappresentative.
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Tutti i bambini tranne il mio: il crollo dell’onnipotenza
I genitori, di fronte alla possibilità che il proprio figlio si ammali, tendono ad autoconvincersi che
ciò non sia possibile. Ciò deriva principalmente da tre motivi:
1. per un meccanismo psicologico di negazione del solo pensiero della malattia, nella
convinzione che ciò basti a scongiurarla;
2. a causa della cornice culturale tipica delle società occidentali, entro la quale non è
contemplata per “l’infanzia curata” la dimensione della malattia;
3. perché, in una società dove domina la tecnica e l’uomo crede di avere potere assoluto sulla
natura, la malattia, qualora si presentasse, non è ammissibile non possa essere sconfitta.
La conseguenza è che le società occidentali non sono agevolate nell’accettazione del dolore
dalle loro stesse cornici culturali, mentre le società orientali considerano il dolore una
caratteristica intrinseca alla stessa esistenza umana.
Nei casi i cui concretamente un bambino si ammala, gli adulti che lo accompagnano
attraversano 5 fasi:
1. ansia acuta, tanto maggiore quanto più la diagnosi li coglie di sorpresa;
2. sentimenti di negazione e difficoltà a costituirsi come effettiva risorsa d’aiuto nella relazione
col bambino;
3. disperazione, rabbia, aggressività;
4. apertura all’ambiente attraverso la formulazione di una richiesta di aiuto;
5. fase di “chiusura”: i genitori riescono a sintonizzarsi con la malattia del figlio e con i suoi
bisogni di cura e di assistenza.
Non chiedermi come sta, ma dimmi cosa c’è fuori
In fisica, la resilenza è la capacità di un metallo di riprendere la propria forma dopo aver ricevuto
un colpo non abbastanza forte da provocarne la rottura.
Metaforicamente, la resilenza indica la possibilità per un soggetto colpito da una grave malattia,
di “ritornare alla vita”.
Non sarà più la vita di prima, perchè il colpo subito lascia il suo segno almeno nella memoria del
soggetto, ma potrà essere comunque una vita appassionante.
Per ragionare secondo l’ottica della resilenza, si devono abbandonare gli schemi concettuali
della causalità lineare: colpito da un grave evento = spacciato.
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Quando un soggetto sottoposto ad un evento traumatico riprende a vivere, non è corretto
ricercare il motivo solo nella biologia (“Ha un fisico forte”) o solo nei tratti della personalità (“E’ un
soggetto con una personalità ben strutturata”).
Numerose testimonianze, anche letterarie, ci mostrano bambini che hanno saputo reagire alla
malattia trasmettendo forza vitale anche agli altri.
Questo coraggio andrebbe denunciato come qualcosa di terribile, perché è inquietante e non
rientra in ciò che per noi significa essere bambini.
Davanti a bambini che dimostrano straordinarie capacità di reazione è necessario sempre
chiedersi cosa si nasconda dietro questa evidenza.
La sofferenza potrebbe essere stata effettivamente rielaborata grazie a un solido sostegno
esterno, ma potrebbe anche essersi annidata in qualche meandro sconosciuto e quindi potrebbe
fuoriuscire in modo inaspettato.
Gli adulti dovrebbero ed