Organizzazione aziendale delle PMI - Appunti
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no organi di staff: tutti sono pagati per produrre, nessuno per pensare o
• per raccogliere informazioni;
no strumenti manageriali avanzati.
•
• L’assetto innovativo ha 3 caratteristiche opposte:
molti livelli gerarchici, più di 3;
• organi di staff;
• strumenti manageriali avanzati.
•
• Il triangolo rappresenta l’assetto elementare (molta base produttiva,
molti operai) e quello innovativo (più compiti operativi). Nell’assetto
imprenditoriale abbiamo gli stessi elementi dell’assetto elementare più 3
che riguardano l’imprenditore. Le caratteristiche dell’assetto innovativo,
invece, sono le stesse dell’assetto diffuso, in cui però c’è una delega
maggiore.
•
• ASSETTO ORGANIZZATIVO DIFFUSO
• L’assetto organizzativo diffuso si trova nell’incrocio con profilo
professionale medio alto e situazione competitiva facile: la situazione
competitiva è facile per merito del profilo professionale medio alto, che fa
sì che l’azienda sia al riparo dalla concorrenza. L’assetto diffuso è valido
soprattutto per PMI di servizi, del terziario avanzato (esempio: società di
consulenza), non per quelle manifatturiere.
• Una delle differenze tra manifatturiero e servizio è il fatto che nel
secondo è facile identificare la bontà del servizio in capo a una singola o
poche persone, è chiaramente identificato il responsabile. Questo in un
prodotto di manifattura è molto più difficile perché intervengono molte
persone nella sua realizzazione.
• Quindi la situazione competitiva è facile per merito delle persone
che lavorano nell’azienda di servizi e che fanno la fortuna dell’azienda.
• Di conseguenza, è diffuso il potere decisionale, l’autonomia
decisionale, stabilita dalla percentuale sul totale di persone che
partecipano alla presa delle decisioni. Si può rappresentare come un
trapezio perché non c’è un vertice, ma persone (anche il 20-30% del
totale dei dipendenti) di pari grado che hanno molta delega, che hanno
molta voce in capitolo perché da loro dipende il risultato finale
dell’azienda.
•
• ASSETTO ORGANIZZATIVO IMPRENDITORIALE
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• Il quarto assetto è quello imprenditoriale che si trova all’incrocio con
il profilo professionale medio basso e situazione competitiva difficile.
Questa è la situazione più complessa in cui un’impresa si può trovare ad
operare. I 3 imprenditori deboli (terzista, inventore e imprenditore
commerciale) si trovano in questa situazione.
• Viene usato l’aggettivo “imprenditoriale” perché, anche se tutti e 4
gli assetti devono avere un imprenditore, solo in questo caso l’impresa è
totalmente sulle spalle dell’imprenditore, che ha compiti molto difficili.
L’unico che può garantire successo a questa impresa è l’imprenditore.
• Graficamente è rappresentato sempre da un triangolo ma il vertice
imprenditoriale è molto più importante rispetto all’assetto elementare.
• L’assetto imprenditoriale ha le stesse caratteristiche dell’organo
elementare, più altre 3 inerenti la persona dell’imprenditore:
1. Dimostra più anni di quelli che ha;
2. Situazioni familiari abbastanza difficili;
3. Successione generazionale complicata.
Il 70% delle PMI italiane ha un assetto organizzativo imprenditoriale.
Per ridurre l’onere di raggiungere l’obiettivo, si può scendere verso il
basso, andare verso destra o fare accordi interaziendali. Le prime 2 sono
strade difficili da realizzare e mantenere, quindi l’alternativa per fare
meno fatica è la terza.
Scendere verso il basso, passare a un assetto organizzativo elementare
significa creare qualcosa che differenzi dai concorrenti. È difficile trovare
qualcosa di diverso, ma anche se si riesce comunque gli altri potrebbero
copiarlo in qualunque momento. I concorrenti ti riportano così verso l’alto.
È una situazione positiva, valida, ma difficile da mantenere nel tempo.
Andare verso destra, verso l’assetto innovativo, significa chiudere
un’azienda e aprirne un’altra perché un prodotto maturo che fanno in tanti
non si può fare con un profilo professionale medio alto, essendo più
costoso. Questo porta ad alzare il prezzo del prodotto.
La vera alternativa per rendere l’operatività di quest’azienda parimenti
retributiva ma con meno sforzo dell’imprenditore è quella di realizzare
accordi con altre aziende, possibilmente diverse dalla sua, che portino in
sinergia le competenze che non ha. 26
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Un esempio esaustivo è quello che riguarda le bilance. Prima le bilance
erano meccaniche, erano un prodotto maturo, dove era difficile fare
innovazione. Una delle aziende del distretto poi conobbe un ingegnere che
aveva dato vita a un laboratorio di ricerca e che studiava l’applicazione di
nuove tecnologie a vecchi prodotti, tra cui anche le bilance. Questa
azienda collaborò con l’ingegnere e nacque la bilancia elettronica, che è
un’innovazione realizzata per merito di questo accordo interaziendale.
Solo dall’unione tra queste due storie è potuto nascere questo nuovo
prodotto, che originò addirittura un consorzio dove i bilanciai meccanici
insieme a quell’ingegnere si unirono per gestire questa innovazione di
prodotto.
In questi accordi ci sono 2 parti: la parte ad assetto imprenditoriale
matura e la parte esterna spesso ad assetto diffuso emergente. L’accordo
serve spesso ai primi a prolungare la propria vita, ma spesso significa
anche un prolungamento dell’agonia, perché sono i secondi ad avere un
orientamento al futuro più netto e che finiscono per vincere. Ben vengano
quindi gli accordi, ma negli accordi c’è sempre una parte più forte
dell’altra.
Questo è l’esproprio dell’imprenditorialità: le aziende ad assetto
imprenditoriale per diminuire la fatica dell’imprenditore fanno accordi, ma
il rischio è che queste imprese vengano espropriate dell’imprenditorialità,
dell’idea, a favore delle aziende con cui hanno realizzato l’accordo.
La pianura padana è conosciuta per le aziende che allevano animali, non
per la macellazione, ma per la produzione di latte. Fino a 25 anni fa
andava bene perché non c’erano le quote latte. Oggi, invece, ogni paese
può produrre un massimo di latte stabilito a Bruxelles e oltre quelle quote
i produttori vengono multati.
Il latte veniva trasformato nella grande maggioranza in formaggio e
questa trasformazione era fatta in maniera autonoma. Il problema era che
pochissimi andavano dai singoli produttori a comprare il formaggio e
quindi compravano in maniera indistinta. Questo fatto aggravato dalle
quote aziendali era un problema per le aziende ad assetto imprenditoriale.
Queste aziende in parte promossero e in parte aderirono alla proposta di
creare il consorzio Grana Padano. Il consorzio è un accordo interaziendale
che servì alle singole aziende a migliorare la loro vita. Queste aziende
consorziandosi ottengono 3 vantaggi, che da sole non avrebbero potuto
realizzare: 27
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1. un marchio: prima il prodotto era anonimo, mentre con il consorzio le
aziende hanno un marchio riconoscibile e riconosciuto. Questa
campagna pubblicitaria non potrebbe essere creata da una singola
azienda;
2. una rappresentanza politico-sindacale: il consorzio rappresenta i
consorziati a Bruxelles e a Roma, mentre un singolo imprenditore non
potrebbe avere voce in capitolo;
3. una certificazione di qualità: il consorzio può certificare, attestare la
qualità e il rispetto di specifiche caratteristiche.
Il problema creato dal consorzio è che nessuno ha più interesse a fare un
prodotto di qualità. Fanno un prodotto di qualità media, che è quella
richiesta dal consorzio, ma nessuno ha interesse tra i singoli consorziati a
fare un prodotto di vera qualità perché questi costi devono essere
sostenuti personalmente e sono costi inutili perché il marchio sarebbe
ottenuto lo stesso rispettando la qualità media del consorzio. Inoltre, a
parità di prodotti anonimi con prezzi diversi, il consumatore compra il
prodotto che costa meno, non conoscendo la singola azienda. Nessuno ha
quindi interesse ad andare oltre alla qualità media del consorzio.
Nel consorzio c’è un’assemblea che elegge ogni 3 anni un presidente, che
è un imprenditore e che assume il direttore. Quest’ultimo è un manager e
resta finché non viene licenziato o va in pensione. Anche questo è
esproprio dell’imprenditorialità perché nel consorzio comanda veramente
un direttore che non è un imprenditore.
Ben venga realizzare accordi, fare consorzi perché senza di questi molte
aziende non sarebbero sopravvissute.
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Fabbisogni organizzativi della PMI
•
• I fabbisogni organizzativi, non finanziari, tipici della PMI sono la
delega, l’integrazione e la gestione del personale.
•
• DELEGA
• Non è delega far fare ad altri ciò che fino a quel momento abbiamo
fatto noi. Non perché ciò non sia legittimo: se l’imprenditore ha l’autorità
può far fare ad altri ciò che fino a quel momento ha fatto lui, ma questo si
chiama comando, non delega. Nel comando è precisato cosa fare, come
farlo, quando farlo e anche perché, il motivo. Quindi chi è oggetto di un
comando deve solo eseguire.
• La delega, invece, è un processo di decentramento decisionale: far
decidere altri su attività che fino a quel momento decidevamo noi. La
decisione è una scelta fra alternative. Chi è delegato deve poter scegliere
fra diverse alternative possibili per ottenere un certo risultato. Non è chi
delega che decide quale alternativa scegliere, ma deve lasciare
autonomia decisionale al delegato, altrimenti si tratterebbe di comando e
non di delega.
• Sono le informazioni che permettono di decidere al meglio e allora
conviene delegare chi, tra i collaboratori che hanno le informazioni per
prendere quella particolare decisione, occupa il livello gerarchico più
basso. Questo perché a quel punto la decisione costa meno.
• Conviene delegare per 3 motivi:
1. La decisione costa meno, sia pure con la limitazione degli eventuali
costi maggiori nelle prime volte. Se si delega quello che sta in basso si
rischia, anche perché costa meno, di essere inefficienti, di perdere
tempo e che nel breve periodo la decisione costi di più. Questo è vero,
ma sbagliando si impara diventando più efficienti e se si accentrano
tutte le decisioni nell’imprenditore, questo non avrà tempo, energie,
voglia per concentrarsi sulle decisioni più importanti sulle quali solo lui
ha le informazioni.
2. La delega fa crescere le persone, è una buona scuola, se graduale e se
attuata bene. È vero che la prima volta la decisione delegata costa di
più, ma è altrettanto vero che c’è un effetto di apprendimento. Se
l’imprenditore non mette alla prova i collaboratori, questi non
cresceranno mai e sarà costretto ad accentrare perché non ha le
persone adatte da delegare. 29
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3. L’imprenditore libera energie per concentrarsi sulle decisioni più
importanti, sulle quali solo lui ha le informazioni.
A fronte di questi 3 vantaggi, il ricorso alla delega sembrerebbe logico e
razionale, ma ci sono ancora 3 resistenze molto forti, di cui le prime 2
sono personali dell’imprenditore, mentre la terza è strutturale
dell’azienda:
1. “Se delego perdo il controllo dell’azienda”. Se c’è una squadra, un
piccolo gruppo dirigente, ognuno è legittimato ad andare per la sua
strada e l’imprenditore perde il controllo dell’azienda. Il rischio c’è, la
delega porta a una perdita di controllo, ma è sbagliato resistervi perché
è la delega mal fatta che porta a perdere il controllo dell’azienda, non
la delega in quanto tale.
Buona delega allora vuol dire creare due argini solidi che impediscano
al fiume di esondare, anche quando fosse pieno. Più gli argini sono fatti
bene e meno il fiume rischia di fare danni fuori dall’alveo. Gli argini
della delega sono la definizione degli obiettivi e il controllo dei risultati,
compiti del delegante. Questo impedisce in qualunque momento al
delegato di esondare e al delegante di perdere il controllo dell’azienda.
Gli obiettivi devono essere misurabili, in modo da poter controllare i
risultati, precisi nell’assegnazione e raggiungibili/motivanti, quindi
credibili: è giusto che l’obiettivo sia sfidante, ma deve essere
raggiungibile perché se un obiettivo è troppo elevato ci si demotiva e
non si raggiunge neanche l’obiettivo più basso.
Per definire dei buoni obiettivi è opportuno avere un controllo di
gestione. A valle si controllano i risultati e se questi sono buoni si
possono dare premi/incentivi. Se è fatta così, la delega non fa perdere il
controllo dell’azienda. È solo la delega attuata male, senza dare
obiettivi, dando obiettivi non misurabili, non controllando i risultati, che
fa perdere il controllo. 30
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2. “Se delego cosa faccio?” È una resistenza tipicamente personale, non è
che l’imprenditore non sappia cosa fare, è che le cose su cui si sta
impegnando oggi e da molti anni sono le cose su cui decide più
volentieri. Il problema non è cosa sostituire alle decisioni delegate, ma
le cose da lasciare sono più simpatiche delle decisioni nuove su cui
concentrarsi. Questo perché l’imprenditore è un uomo abituato a
operare sul campo, a cui piace vendere e gestire il rapporto con il
cliente, mentre queste nuove attività risultano spesso essere meno
operative e più di coordinamento, più da scrivania, meno d’azione e più
di riflessione. Di fronte a questo ognuno deve decidere se delegare per
gestire lo sviluppo dell’azienda o meno.
3. “Voglio delegare ma non ho le persone”. L’imprenditore capisce il
vantaggio della delega, ma nessuno alle sue spalle accetta di essere
delegato perché è un’assunzione di responsabilità. La carriera porta in
posizioni con maggiore autonomia decisionale, ma non tutti cercano
nel lavoro la carriera e la responsabilità. Tuttavia, ciò è colpa
dell’imprenditore che ha gestito il rapporto con i collaboratori in
maniera passiva, non privilegiando le loro capacità individuali.
INTEGRAZIONE
Il fabbisogno dell’integrazione è successivo a quello della delega. Se c’è
un uomo solo al comando non ha bisogno di integrarsi, ma se c’è un
gruppo dirigente occorre fare gruppo, fare squadra. Integrazione significa
finalizzare allo stesso obiettivo l’azione di persone tra loro diverse.
Esistono diversi strumenti di integrazione: la riunione e la convention nella
sua forma particolare, il direttore generale e il mansionario.
Il mansionario è quel documento dato a una persona che entra in
un’azienda e che dice delle caratteristiche del lavoro di cui la persona
dovrà occuparsi. Il mansionario guarda la posizione e non la persona. Un
mansionario in una PMI deve essere sintetico e riportare 4 voci:
1. Obiettivo: perché quella posizione esiste in azienda.
2. Risultati attesi per l’anno in corso da chi ricopre quella posizione.
3. Competenze richieste per occupare al meglio quella posizione:
competenze tecnico-specialistiche (saper fare qualcosa), gestionali
(saper far fare qualcosa) e relazionali (sapersi relazionare). A mano a
mano che si fa carriera, che si viene delegati, si occupano posizioni in
cui diminuiscono competenze tecnico-specialistiche e aumentano
quelle gestionali e relazionali. 31
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4. Altre posizioni con cui quella in esame deve relazionarsi, coordinarsi:
questa è l’integrazione vera e propria.
Il direttore generale non si trova in tutte le PMI, ma sta aumentando la
presenza di questa figura. Colui che è proprietario o meno, imprenditore o
meno, coordina il lavoro di altri, coadiuvando l’imprenditore nella
realizzazione dell’idea imprenditoriale. È una figura di integrazione tipica
della media dimensione, ma che sta arrivando anche nelle PMI.
La convention è una forma di riunione particolare che si fa una volta
all’anno intorno a natale, radunando tutti i collaboratori di un’azienda per
fare il punto sulla situazione aziendale. Non è obbligatoria, ma è un buono
strumento di integrazione per trovarsi tutti insieme, imprenditore e
collaboratori, per poter discutere con tutte le persone che a diverso titolo
lavorano in azienda sul presente e sul futuro, sulle evoluzioni attese. Ci si
forma un’immagine comune dell’azienda. Parla l’imprenditore che deve
essere adeguatamente preparato a questo intervento e, finita la relazione,
può accettare domande da tutti. È bene che ci sia la possibilità di fare
domande, di chiedere approfondimenti.
La riunione è il quarto strumento di integrazione, di cui il comitato di
direzione è l’emblema, l’esempio più importante. Anche qui l’imprenditore
ha molta resistenza perché crede di perdere tempo: questo è vero se
gestisce male le riunioni, quindi bisogna imparare a farle meglio. Le regole
per gestire bene una riunione sono le seguenti:
• Si devono trattare solo problemi inter-funzionali, quelli che si
manifestano in una funzione dell’azienda ma che si possono risolvere
solo in un’altra funzione. Chi si accorge del problema non ha le leve per
risolverlo e quindi lo porta all’attenzione delle persone che potranno
risolverlo.
• Alle riunioni devono sempre partecipare tutti i delegati anche quando
all’ordine del giorno non ci sono temi che li interessano direttamente.
La riunione serve a risolvere problemi e a creare linguaggio comune,
visione comune dell’azienda. Occorre quindi che ci sia un calendario
mese per mese delle riunioni per permettere a tutti la partecipazione,
conoscendo le date con grande margine di anticipo.
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• Il comitato all’inizio è meglio farlo ogni tanto, ma a regime meglio una
volta a settimana per un’ora, tante riunioni che durano poco e al
venerdì pomeriggio. È bene che le riunioni durino poco, che ci siano
pochi temi all’ordine del giorno perché dopo un po’ ci si stanca. Nelle
riunioni non si deve perdere tempo, si deve stare sui temi. È bene
arrivare alle riunioni preparati, quindi sapere di cosa si discute. Se si è
preparati, avendo fatto approfondimenti sull’ordine del giorno, ci si
impiega poco tempo perché è solo la preparazione che rende il tempo,
anche se ridotto, sufficiente.
• La relazione inizia con l’intervento di chi si è accorto del problema.
• La discussione deve restare sull’oggettività del problema: fatti
soprattutto, opinioni nel minor numero possibile.
• La riunione deve terminare con un verbale sintetico da cui devono
risultare il tema all’ordine del giorno, le decisioni prese, il responsabile
della loro realizzazione e i tempi. Ogni riunione successiva deve iniziare
con l’approvazione del verbale della riunione precedente per
controllare i risultati del lavoro. La riunione, infatti, serve per decidere,
ma anche per fare.
Ci sono due modi per mandare a monte la riunione: farla male o farla bene
ma non controllare la messa in pratica delle decisioni prese durante la
riunione precedente.
Così fatta la riunione è un ottimo strumento di integrazione. Nelle riunioni
partecipa anche l’imprenditore, quindi non si vota perché l’imprenditore
non può essere messo in minoranza.
GESTIONE DEL PERSONALE
La gestione del personale è il modo con cui l’azienda interagisce con il
proprio personale. L’obiettivo della gestione del personale è ridurre la
distanza tra gli obiettivi per cui l’azienda è stata creata e gli obiettivi per
cui le persone lavorano, quindi tra gli obiettivi dell’azienda (massimizzare
l’utile nel medio-lungo periodo) e gli obiettivi della persona (stipendio,
scambio, sicurezza del posto di lavoro).
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Chi gestisce il personale può essere un soggetto interno o esterno
all’azienda. I soggetti interni possono essere un soggetto specializzato
(esempio: direzione del personale) o un soggetto generico. Il soggetto
specializzato è una persona stipendiata, assunta dall’azienda, che si
occupa di gestire i suoi colleghi e funziona in aziende grandi. Nelle
aziende piccole, invece, è preferibile il soggetto generico, che è un capo
(capo reparto, capo ufficio) che gestisce gli uomini che lavorano in quel
reparto, benché il suo compito principale sia quello di dirigere la
produzione.
Ci possono essere anche soggetti esterni all’azienda, come le società di
consulenza esterna, soprattutto nel caso in cui l’azienda sia troppo piccola
per pagare soggetti specializzati e il capo reparto non riesca ad occuparsi
anche della gestione del personale.
Il personale si può gestire attraverso alcuni meccanismi operativi di
gestione del personale che sono 6 e sono in ordine temporale perché si
inizia con la selezione, si termina con l’uscita e tra le 2 c’è la permanenza
in azienda. Ci sono quindi 2 momenti di confine, la selezione e l’uscita, e
in mezzo ci sono 4 momenti di vita all’interno dell’azienda:
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1. Selezione: gestire bene il personale è più facile se si selezionano bene
le persone. Selezionare significa scegliere dal mercato del lavoro le
persone adatte per la propria azienda. La selezione avviene in 2
momenti: quello del reclutamento e quello dell’inserimento. Il
reclutamento è il periodo che va dal manifestarsi del bisogno al
momento in cui si identifica una persona. Le modalità di reclutamento
possono essere formali o informali. In maniera informale si fa girare la
voce: questo modo è privo di costi, si rivolge a persone conosciute e
funziona nelle piccole imprese locali che hanno poche risorse. Per tutte
le altre aziende, invece, valgono i modi formalizzati del reclutamento:
si scrive un annuncio che contiene le caratteristiche generali della
persona che si cerca in modo sintetico (uomo-donna, età, titolo di
studio) e le caratteristiche del lavoro (dimensioni, settore, luogo
dell’azienda). Arrivano nell’arco di un mese risposte e curriculum
attraverso una casella postale riportata sul giornale in cui è stato
pubblicato l’annuncio. Il curriculum deve essere scritto a macchina e si
può scrivere anche una lettera di presentazione sintetica e veritiera. Le
lettere servono per ridurre il numero di persone, selezionandole in base
alle caratteristiche che si cercano, in base al rispetto dei parametri o in
base alla distanza della residenza rispetto al posto di lavoro. Si scende
così a un 5% dei curriculum arrivati e quelle persone vengono chiamate
ad un primo colloquio che dura circa un’ora e che serve a conoscere la
persona: è la persona che deve parlare, che deve raccontare il proprio
curriculum. Dopo 10 giorni ci sarà un secondo colloquio, al 10% delle
persone passate al primo colloquio, che verte sull’azienda e su come la
persona intende iniziare l’attività in azienda. Questo secondo colloquio
termina con richieste economiche e la persona viene contattata.
Nel momento in cui si firma il contratto inizia la fase dell’inserimento,
che è il periodo di tempo che va dal momento in cui la persona inizia a
lavorare al momento in cui la persona è pronta a lavorare. Se la
persona, però, non accetta il posto di lavoro, bisogna ripartire con il
reclutamento delle persone selezionate nel primo colloquio.
2. Formazione: c’è differenza tra formazione e addestramento. Si forma a
decidere e si addestra a fare. La formazione ha un obiettivo di lungo
periodo: quando si fa formazione i risultati non si vedono subito, ma si
ha un orientamento al lungo periodo perché trasmette il saper fare. Si
forma per posizioni medio-alte e si addestra per posizioni medio-basse.
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3. Valutazione: la valutazione è di 3 tipi. La valutazione della posizione è
l’importanza che si dà all’attività svolta dalla persona, ha come oggetto
l’importanza della posizione che la persona occupa, non la persona
stessa. La valutazione della posizione si concretizza nello stipendio
base: se la posizione è più importante, lo stipendio sarà più elevato e
viceversa.
La valutazione della prestazione misura quello che la persona ha fatto,
riferito al passato, a un’attività finita. Incide sulla parte variabile della
retribuzione, cioè sul premio, che è legato al singolo periodo, al singolo
esercizio, a differenza dello stipendio che è fisso.
La valutazione del potenziale, infine, significa cercare di capire cosa la
persona sarà in grado di fare, dove la persona potrà arrivare in futuro.
Non incide direttamente sulla retribuzione, ma sulla carriera della
persona: facendo carriera, la persona guadagnerà anche di più, ma lo
stipendio non è strettamente legato alla valutazione del potenziale.
4. Retribuzione: tutti lavorano per lo stipendio, per la retribuzione, chi più,
chi meno. Le curve retributive sono quelle che dicono, per ciascuna
posizione occupata in azienda, la quantità di soldi fissi guadagnati.
Ogni azienda deve costruire una curva retributiva perché a partire da
quella può paragonarsi alle aziende concorrenti del proprio settore. Il
confronto è esterno ma può essere anche interno, tra posizioni e
posizioni, più critiche, più strategiche, più importanti o meno. Si può
rivedere la curva retributiva se lo stipendio per una determinata
posizione è eccessivo.
5. Carriera: la carriera è il passaggio da una posizione meno importante a
una più importante, da una posizione con minori responsabilità a una
con maggiori responsabilità. La carriera può essere trasversale,
orizzontale o verticale. La carriera verticale è quella che va dal basso
verso l’alto, è specialistica. La carriera trasversale è quella che va dal
basso verso l’alto ma in una funzione diversa. La carriera orizzontale è
quella che va da una funzione meno importante a una più importante
ma allo stesso livello gerarchico.
Uscita: l’uscita è il termine finale del rapporto di lavoro tra la persona e
l’azienda. È un momento in cui il singolo è in una posizione di debolezza
da cui emerge la cultura organizzativa dell’azienda: un’azienda può
gestire l’uscita (out-placement) aiutando le persone. Dedicare all’uscita
parte delle risorse della gestione del personale è importante per garantire
una buona immagine dell’azienda. 36
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Successione generazionale
•
• Il tema della successione generazionale è importante perché le
aziende italiane sono di proprietà familiare e quindi l’azienda passa di
padre in figlio. Spesso all’inizio della vita di un’impresa proprietà,
imprenditorialità e managerialità coincidono in una stessa persona, ma poi
nella vita dell’azienda possono esserci spaccature.
• La successione generazionale è il processo di delega del ruolo
imprenditoriale. La successione è una delega specifica che ha come
oggetto il ruolo imprenditoriale, cioè di colui che resta imprenditore
dell’azienda e decide in futuro la strategia dell’azienda.
• Quella della successione è una problematica inter-disciplinare, che
riguarda diverse discipline: diritto, psicologia, economia aziendale. C’è
una problematica giuridica perché lo Stato tassa ogni passaggio di
proprietà in vita o post morte (tassa di successione). Negli USA la tassa di
successione è sempre più alta per le imprese, mentre in Italia è sempre
più bassa e in alcuni casi è assente. Questo è coerente con i modelli
economici dei due paesi: in Italia non si grava sulle piccole imprese in un
momento in cui queste imprese danno lavoro e fanno la fortuna del paese,
mentre negli USA, dove il modello di sviluppo è manageriale, borsistico, la
ricchezza bisogna conquistarla e viene ritenuto giusto che il figlio che
subentri alla ricchezza patrimoniale, aziendale del genitore paghi una
tassa per entrarne in possesso perché non è merito suo quella ricchezza.
• C’è poi anche una componente psicologica molto forte: il rapporto
tra padre e figli è un rapporto vitale ma anche difficile. Quando c’è una
forza che li porta in conflitto strutturale c’è una dinamica psicologica.
• La dinamica economica-aziendale spiega il motivo per cui questa
successione generazionale deve avvenire.
• Essendo un processo, la successione avviene in diverse fasi:
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1. La scelta del successore: occorre precisare che si parla di padre e figlio
ma non è detto che siano solo 2 persone e intendiamo una generazione
che esce e una che entra, si intendono persone legate da rapporti di
parentela ma non per forza padre e figlio. In questo senso la scelta del
successore significa che è bene con largo anticipo identificare chi tra i
possibili eredi realisticamente è portato per succedere al livello
imprenditoriale. Questo non implica che si escluda dall’ereditarietà
della proprietà dell’azienda gli altri figli (il padre decide) o dalla
possibilità di lavorare in azienda per gli altri figli (il figlio decide). Noi
parliamo esclusivamente dell’imprenditorialità e questo significa
scegliere tra i successori quello ritenuto adatto, quello a cui delegare il
ruolo imprenditoriale.
Bisogna stabilire criteri di successione per non creare un ingorgo
generazionale, cioè per far sì che non convergano tante teste a livello
imprenditoriale. Scegliendolo si esercita la valutazione del potenziale,
cioè cercare di capire chi domani potrebbe occuparsi del ruolo
imprenditoriale oggetto della successione. Nella scelta fino a 20 anni fa
valeva il principio per cui le figlie erano liquidate con gli immobili e
invece la successione imprenditoriale era decisa solo scegliendo tra i
maschi.
Bisogna scegliere in anticipo valutando dunque il potenziale e non la
prestazione perché come seconda fase c’è la formazione: se si aspetta
il problema si rischia di non riuscire a formare adeguatamente il
successore.
2. La formazione del successore: formazione è il binomio scuola-lavoro,
riuscire a tenere insieme per il futuro imprenditore, in sequenza o in
concomitanza, un processo per acquisire capacità teoriche e pratiche.
Studiare in funzione del lavoro invece porta svantaggi. Qualunque
lavoro va bene, ma se uno studia per il lavoro vuole lavorare solo per la
coerenza con ciò che ha studiato e questo non va bene.
La formazione scolastica non è detto che debba essere economia, se è
lavorativa non è detto che debba essere nel settore ed è bene che
studio e lavoro vadano di pari passo. Alcune aziende scrivono nel patto
di famiglia che nessuno dei figli potrà ambire alla successione se non
laureato, così come altre scrivono che non potranno mai entrare i
coniugi dei figli. Le eccezioni devono essere comunque scritte nel patto
di famiglia. 39
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3. L’ingresso in azienda e la coesistenza fra le due generazioni: qui la
regola è sempre una, cioè bisogna entrare in azienda secondo le
capacità oggettive, non secondo altre caratteristiche (cognome che
porta il successore, necessità dell’azienda, ecc.) perché sennò si perde
la fiducia delle persone che in quell’azienda lavorano da anni.
È meglio che l’ingresso avvenga dal basso e che la persona
gradualmente salga in ruoli più elevati, preparandosi a succedere
nell’imprenditorialità dell’azienda. Solo in funzione dei risultati
realizzati si può fare carriera.
C’è chi dice di entrare in azienda il più presto possibile in modo da
rubare l’esperienza del padre sul campo e c’è chi dice di fare
esperienza fuori dall’azienda di proprietà perché operare in un territorio
neutrale o ostile raggiungendo risultati positivi aumenta l’autostima del
successore e il riconoscimento degli altri che lavorano in azienda.
Essendo uno strumento, però, non ce n’è uno migliore dell’altro.
Inoltre, la generazione in entrata è conosciuta da tutti i collaboratori
dell’azienda (soprattutto se c’è un’anzianità aziendale elevata) tanto
che quando il figlio dell’imprenditore si presenta a lavorare in azienda i
collaboratori lo vedono ancora come quando era piccolo, quindi
bisogna schiodare questa immagine in modo positivo.
La coesistenza può durare anche parecchio tempo, è un periodo
difficile su cui un ruolo fondamentale è esercitato dai collaboratori
dell’azienda, quelli che sono tra padre e figlio e che possono favorire
l’incontro tra padre e figlio. È importante che nel periodo della
coesistenza i collaboratori sviluppino un atteggiamento positivo che
coincide sempre con il porsi come terreno di confronto tra le due
generazioni: chi dà sempre ragione al padre e non crede al figlio
sbaglia a priori anche quando ha ragione perché non è che
continuando a dare ragione al padre si migliorano le caratteristiche del
figlio. I collaboratori devono allora giudicare neutralmente ciò che viene
detto, fare da arbitro super partes.
4. La successione vera e propria con una generazione in uscita e l’altra
che la sostituisce: in questo momento la coesistenza finisce. Ci può
essere un processo in cui questa fase avviene per decisione delle parti
coinvolte e un processo in cui questa fase avviene per destino. In
quest’ultimo caso si può avere una successione traumatica perché non
è stata pianificata. La successione traumatica conferma la necessità di
pianificare la successione perché così si arriva preparati all’evento.
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Gli attori protagonisti della successione sono padre e figlio, ma ci sono
anche attori indiretti non protagonisti, che possono essere interni
all’azienda o esterni all’azienda. Quelli esterni all’azienda a loro volta
possono essere interni alla famiglia o esterni alla famiglia.
Quelli interni all’azienda sono tutti coloro che si pongono nell’azione
quotidiana in azienda tra padre e figlio, cioè i collaboratori dell’azienda
che sono a metà tra padre e figlio.
Gli attori esterni all’azienda ma interni alla famiglia sono tutti i parenti
che, anche se non agiscono direttamente nell’azienda, riescono a tenere
insieme, riducendo i conflitti, la generazione in uscita e quella in entrata.
Gli attori esterni all’azienda ed esterni alla famiglia sono banche, PA e
consulenti. Le banche sono interessate a supportare dall’esterno lo
svolgimento del processo di successione imprenditoriale, per esempio se
hanno concesso un affidamento al padre che scadrà nel momento in cui
subentrerà il figlio in azienda.
Laddove il terreno di confronto tra padre e figlio non riescono a garantirlo i
collaboratori, devono garantirlo i consulenti esterni adeguatamente
selezionati. Non ha ragione a priori il padre né il figlio, ma deve avere
ragione l’azienda e tutto ciò che aiuta ad aver ragione l’azienda,
stabilendo un punto di confronto, è fondamentale per il processo di
successione.
Per esempio, in Ambrosoli difficilmente succederà qualcosa che cambi il
futuro dell’azienda, quindi in questo scenario deve avere ragione il padre
perché portatore di quelle competenze che rimarranno strategiche quindi
deve essere il figlio che impara dal padre perché Ambrosoli non va
cambiata, non essendo necessario. In Hanorah è esattamente il contrario
perché è un’azienda molto più dinamica, il suo futuro sarà molto diverso
da come è oggi ed è bene che il padre ceda l’azienda al figlio.
È quindi il futuro dell’azienda a determinare chi tra le due generazioni (in
uscita o in entrata) deve prevalere, a parità di competenze.
• Infrastrutture manageriali
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• Le infrastrutture sono tutto ciò che collega da una città all’altra per
favorire la mobilità delle persone. Per infrastrutture manageriali
intendiamo quelle che dall’esterno dell’azienda aiutano l’azienda a
operare meglio. È un tema fondamentale perché la nostra economia è
retta da PMI e quindi c’è bisogno di avere all’esterno realtà che aiutino
queste PMI. Essendo piccoli, all’interno dell’azienda facciamo fatica ad
avere tutte le competenze che aiutano a operare meglio. Si tratta di
infrastrutture che aiutano non a fondare l’impresa (non sono
imprenditoriali), ma a fare, a gestire l’impresa (per questo sono
manageriali).
• Queste infrastrutture manageriali sono:
1. i mass media inerenti l’economia (case editrici): è importante
l’interessamento dei mass media all’economia perché soprattutto in
tempi di crisi è fondamentale l’interpretazione, il giudizio che ogni
persona dà della propria vita, di quella realtà. Nell’incertezza si vede il
giudizio che la persona dà che in moltissimi casi è influenzato da quello
che legge, vede, sente e allora avere mass media che non fanno
vedere solo le imprese che chiudono è fondamentale. Avere mass
media che danno una visione realistica è fondamentale per le PMI che
possono trovare strumenti di aiuto.
2. le scuole di business: sono fondamentali perché generano concetti e li
diffondono, non all’opinione pubblica come attraverso i mass media,
ma agli operatori. Avere business school o facoltà di economia è
importante, ma ancora più importante è sapere che in un modello
originale di sviluppo dovremmo avere business school che parlano di
PMI e che fanno formazione alle PMI.
3. le società di consulenza: i consulenti possono essere un attore non
protagonista esterno all’impresa e alla famiglia ma devono essere
consulenti mirati alle dimensioni medie delle nostre imprese.
4. le associazioni imprenditoriali: sono associazioni che radunano gli
imprenditori, come per esempio Confindustria. Riconosciamo
associazioni territoriali (Valle d’Aosta) e di categoria (Federchimici,
Feder legno arredo, cioè gli imprenditori di un certo settore
merceologico). Ci sono poi le associazioni degli industriali
(Confindustria) e le associazioni degli artigiani (Confartigianato). Di
solito, le PMI si iscrivono a Confindustria e le MPMI a Confartigianato.
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All’interno delle associazioni abbiamo una diversificazione che
distingue i giovani (gruppo giovani Confindustria fino a 40 anni) dai
senior e in alcuni casi gli uomini dalle donne, come in Confartigianato.
Lo scopo di queste ultime era quello di garantire un percorso autonomo
alle imprenditrici, ma nessuna donna è mai diventata presidente
nazionale, mentre laddove non esiste il gruppo donne ci sono
presidenti nazionali (Marcegaglia in Confindustria).
In più, in Confindustria la stragrande maggioranza (95%) degli iscritti è
PMI, ma il presidente è un medio-grande (Squinzi). Per ovviare a questa
contraddizione in Confindustria c’è un vicepresidente con delega alla
piccola impresa. Neanche Confindustria che dovrebbe garantire gli
interessi dei propri associati, delle PMI, di fatto non lo fa.
•
Casi
PICCOLA E MEDIA DIMENSIONE (pag. 43-45) E PUNTO 7: TRATTARE LA
DIMENSIONE AZIENDALE COME UNA VARIABILE GESTIONALE (pag.
110-112)
Anche se sono PMI, le imprese possono durare nel tempo, anche oltre il
secolo. La durata nel tempo è dell’impresa, non necessariamente della
proprietà familiare: nel caso Mattei (settore della pasticceria), infatti, la
famiglia cambia.
Nella continuità dell’impresa deve esserci la stessa idea imprenditoriale, la
stessa strategia: nel caso Dorigati, la tecnologia si evolve nel tempo ma
si tratta sempre di vino. C’è continuità nella formula d’impresa, che
significa similarità nell’evoluzione.
Entrambe queste aziende hanno sede in piccoli centri: Prato e
Mezzocorona. Si può quindi capire che le PMI hanno sede nei centri di
periferia.
Non tutte le PMI devono durare più di un secolo, ma possono durare anche
un secolo, non essendo questa una caratteristica intrinseca del modello
originale di sviluppo.
• Della dimensione aziendale non dobbiamo farne un problema
ideologico, per cui agli oppositori del piccolo opponiamo la denigrazione
del grande. È un tema di variabile gestionale: la dimensione ideale, giusta
è quella che serve alle aziende a realizzare l’obiettivo (massimizzare l’utile
nel medio-lungo periodo), è quella coerente con la strategia
(prodotto-mercato-tecnologia). 43
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• La Dell’Orto opera nel settore dei carburatori, in cui prevalgono le
economie di scala. I suoi clienti (case motociclistiche) sono imprese di
grandi dimensioni, internazionalizzate e se vuole operare con questi clienti
deve porsi l’obiettivo di crescere dimensionalmente. Pur essendo PMI,
deve essere in grado di crescere nel tempo con i suoi clienti perché sennò
li perde. La dimensione dell’azienda Dell’Orto è quella dei clienti di
riferimento.
• La Sportiva è il caso opposto: crea scarpe da arrampicata,
calzature da montagna. Riuscì con la terza generazione ad inventarsi
quasi un settore, una nicchia, che cresce ogni anno ma rimane comunque
di piccole dimensioni. La Sportiva non andrà mai oltre un certo numero di
scarpe vendute. Questa azienda deve restare piccola e per allargarsi deve
ampliare la gamma.
• I proprietari, consci di essere in Trentino e di essere un’impresa
familiare di piccolissima dimensione, non possono ambire ad operazioni di
marketing, di sostegno del prodotto, di pubblicità, tipiche della grande
dimensione. Accettano quindi la proposta di un grande gruppo (The North
Face) che vuole entrare nella proprietà della Sportiva al 30%. La accettano
perché sperano che la grande multinazionale aiuti la piccolissima impresa
ad essere ancora più conosciuta a livello mondiale. L’accordo è che si
provi questa partecipazione per 5 anni e se le cose funzionano La Sportiva
vende il 21% rimanente, diventando The North Face la maggioranza della
proprietà. 3 anni dopo La Sportiva, con un grande sforzo finanziario,
ricompra dagli americani l’intera proprietà e oggi è ancora più conosciuta
del 2007, estremamente dinamica e apprezzata per i suoi prodotti.
• Questo è successo perché quel manager di The North Face nel 2007
aveva promesso di riservare spazi privilegiati nei punti vendita alla
Sportiva, ma il nuovo manager non apprezza l’operazione e La Sportiva
subisce quasi un danneggiamento. Con il supporto della BCC locale, riesce
a comprarsi il 30% e a ripartire.
• Quando non è necessario crescere ma ci si pone l’obiettivo di
migliorare la presenza sui mercati, si realizza un accordo con una grande
multinazionale.
• Certo l’Italia è il paese delle PMI, ma non facciamo della dimensione
un valore ideologico, bensì strumentale: la dimensione è uno dei tanti
strumenti organizzativi e quando si parla di strumenti non esiste quello
ideale. Qualsiasi dimensione è valida purché permetta alle aziende di
realizzare l’obiettivo attraverso le loro strategie.
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QUALITÀ NEL PICCOLO (pag. 48-50-147) E PUNTO 5: PASSARE DA UNA
STRATEGIA FONDATA SUI COSTI A UNA FONDATA SU QUALITÀ E SERVIZIO
(pag. 107)
Le imprese che fanno veramente un prodotto di qualità sono piccole
piuttosto che grandi (esempio: Fiat vs. Ferrari o Barilla vs. Gragnano).
Questo perché nel grande si fanno prodotti standard (catena di
montaggio, grande impianto), si persegue una politica di quantità e
occorre avere un mercato di sbocco a cui si arriva con il marketing, con
campagne pubblicitarie che costano molto. La qualità della materia prima
ne esce quindi ridimensionata perché occorre investire in tecnologia e
marketing.
Gli impianti della piccola impresa, al contrario, sono personalizzati,
producono piccole quantità e non occorre investire in tecnologia né in
marketing perché i prodotti arrivano al consumatore per passaparola. Il
capitale viene assorbito dalla qualità, non dalla quantità, non ci sono
economie di scala ma economie di specializzazione. Le risorse delle
piccole imprese sono quindi volte alla ricerca del miglioramento continuo
delle materie prime, della tecnologia, delle lavorazioni, del packaging
(esempio: Amedei ha migliorato la qualità delle materie prime, ricercando
un cacao unico e scegliendo i pistacchi siciliani e le nocciole del Piemonte;
della lavorazione del cioccolato, attraverso apprendistati per diventare
maitre chocolatier; delle confezioni con design originali e colori che
rappresentano ormai un marchio di fabbrica). Il packaging, il
confezionamento rappresenta un’esigenza di immediata riconoscibilità del
prodotto e la necessità di coerenza qualitativa con il contenuto.
La qualità è del prodotto finale ma anche della gamma del prodotto. Un
esempio è il panettone di Loison di piccola misura nelle camere degli
alberghi o il panettone da 5-10kg per gli eventi. Il panettone è lo stesso
ma di diversi formati per soddisfare diverse esigenze.
La qualità è riconosciuta con certificazioni, partecipazioni alle gare.
Questa qualità che si addice al piccolo genera nuove modalità distributive;
c’è coerenza tra PMI – qualità – economie di specializzazione – nuovi canali
distributivi: passaparola (non grande distribuzione) e internet per
abbattere la stagionalità dei prodotti cercando di venderli tutto l’anno.
Torna sempre la localizzazione nei piccoli centri della provincia.
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Oltre che centenarie quindi, le PMI fanno qualità, anche se il modello
originale di sviluppo non implica questo.
• Un altro caso di impresa che fa un prodotto di qualità è Nuncas che
opera in un settore tipico della grande dimensione straniera: detersivi per
la casa. Decide di operare in questo settore arrivando da un settore
limitrofo che è una nicchia di detersivi di alta qualità. Per questa azienda
l’unica alternativa è quella di differenziarsi dai concorrenti facendo qualità,
creando negozi monomarca in centro nelle grandi città, essendo
alternativi.
Un ultimo esempio di PMI che fa qualità è quello di Patrizia Pepe, che
rinuncia alle economie di scala, abbandona la propria strategia fondata sui
costi per abbracciare servizio e qualità, dovuta alla personalizzazione del
prodotto. Fa piccoli lotti per percepire l’evoluzione del gusto del
consumatore da una settimana all’altra e per rispondere immediatamente.
Questo è servizio soprattutto al dettagliante ma anche indirettamente al
consumatore finale.
Patrizia Pepe ha più di 100 negozi monomarca, andando verso la direzione
del flagship store. Questa scelta testimonia che non segue più il costo
come strategia, essendo i negozi monomarca molto costosi.
INNOVAZIONE (pag. 60-62-147-151) E PUNTO 4: SAPER FARE
INNOVAZIONE ANCHE IN SETTORI MATURI (pag. 96-98-99)
Molti pensano che la scarsa capacità innovativa delle nostre imprese sia
da attribuire alla ridotta dimensione media di queste: ciò è giusto se per
innovazione intendiamo quella di base, quella che ha mandato l’uomo
sulla luna e fa vincere premi Nobel per la chimica o la fisica. Tuttavia,
anche nel piccolo si può fare innovazione vera.
L’innovazione incrementale, fatta per piccoli passi in avanti, è quella più
alla portata delle PMI (esempio: panettone con piccoli cambiamenti, come
quello aromatizzato). Le PMI non sono in grado di fare l’innovazione di
base (esempio: goretex), che nasce invece nei paesi dove gli investimenti
militari sono alti. Non è però a priori escludibile la possibilità che anche
una PMI faccia innovazioni di base. 46
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Spesso l’innovazione, incrementale e di base, origina brevetti. I parametri
che misurano la ricerca e lo sviluppo, però, sono delle grandi imprese e
spesso sfuggono alle piccole; l’innovazione incrementale delle PMI sfugge
alle ricerche perché non si concretizza necessariamente in impianti,
laboratori, funzioni e addetti alla ricerca e allo sviluppo.
In fatto di numero di brevetti depositati, l’Italia si pone tra i primi 10 paesi
al mondo. Bisogna quindi stare attenti a come viene valutata la ricerca e
lo sviluppo, se in numero di dipendenti (allora le PMI non fanno ricerca e
sviluppo) o se in risultati (allora anche le PMI fanno ricerca e sviluppo).
Inoltre, le imprese forti ci testimoniano che anche in un settore maturo è
possibile fare innovazione (esempio: università con formazione online). Il
vino è un settore maturo ma si può fare innovazione: Nonino fa la grappa
monovitigno e ci fa capire che si può fare innovazione anche distillando la
frutta.
Princi fa pane e ha rivoluzionato le regole del gioco: prima la panetteria
era familiare, ora ha tanti negozi, aperti 24h, di cui uno a Londra. Si tratta
di un’innovazione non da ricerca di base, ma innovazione come
cambiamento incrementale.
Deltacalor, infine, ha saputo innovare con materiali sperimentati
nell’aerospaziale applicati al riscaldamento. Così assieme al design
dell’arredobagno (non solo cose utili ma anche belle), c’è l’innovazione:
applicare materiali nuovi a settori antichi.
Anche Cecchini, macellaio che ha aperto un ristorante, ha saputo
innovare in un settore maturo mediante integrazione verticale e
completamento della gamma, trasformando i limiti in opportunità.
Ulteriori due esempi sono rappresentati da Nuncas e Angelantoni. Nuncas
è un’azienda che opera in un settore tipico della grande dimensione
straniera: detersivi per la casa. Decide di operare in questo settore
arrivando da un settore limitrofo che è una nicchia di detersivi di alta
qualità.
Angelantoni opera con una tecnologia estremamente avanzata sul
freddo, in particolare nel settore aerospaziale. L’azienda è più grande di
Nuncas ma è comunque un’azienda del modello originale di sviluppo.
Quella in cui opera non è una nicchia ma un settore.
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Secondo il modello, è tipico che l’azienda operi in una nicchia ma non è un
vincolo, un obbligo, bensì un’opportunità in più. È possibile restare con
quelle caratteristiche ma, avendo una tecnologia avanzata, operare in un
mercato aperto.
Entrambe le aziende hanno un forte orientamento al lungo periodo perché
entrambe sono alla terza generazione e fanno della ricerca e
dell’innovazione un loro punto di forza, un vantaggio competitivo. Questo
anche per contrastare l’affermazione che le PMI non fanno ricerca.
L’azienda dei detersivi opera, però, in un settore maturo e questo si
capisce dal fatto che l’innovazione dei prodotti e la pubblicità sono di
secondaria importanza, non sono innovazioni sostanziali. Non c’è più
possibilità di grande innovazione, se non nella costruzione dello
stabilimento, che è in grado di produrre più energia rispetto a quanta ne
consumi e ciò attraverso l’utilizzo di fonti rinnovabili e strumenti per il
risparmio energetico.
NEL PICCOLO SI COLLABORA ANCHE FRA CAPITALE E LAVORO (pag.
72-151-168-173) E PUNTO 9: RIMANERE RADICATI NEL TERRITORIO DI
APPARTENENZA (pag. 122-124)
Il caso della Ridart serve a far capire che il conflitto tra capitale e lavoro
non esiste o esiste in forma assolutamente ridotta rispetto a una grande
impresa, dove la divergenza di interessi diventa conflittuale.
L’imprenditore non è più visto come il padrone.
Nella piccola impresa le persone mantengono una loro specifica identità e
possono dialogare direttamente, mentre nella grande impresa tendono ad
essere dei numeri, l’imprenditore non conosce i nomi, i problemi, i bisogni
dei suoi dipendenti. Allo stesso modo i collaboratori difficilmente vedono il
loro datore di lavoro. Nella piccola, invece, tutto è personale e si può
imparare il lavoro dalla persona dell’imprenditore.
Perdere un collaboratore nella piccola impresa significa in tantissimi casi
privarsi delle competenze maturate in anni di relazione.
Inoltre, in momenti di grande immigrazione, la PMI permette
un’integrazione (lavoro, vita sociale) molto più facile perché integra la vita
degli immigrati nella società del posto, nel territorio. Non si creano in
questo modo ghetti e rivolte. 48
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C’è sempre la presenza del territorio: la Ridart non ha sede a Varese ma
nella provincia di Varese. Le persone (imprenditori e collaboratori) vivono
tutte nello stesso posto, i loro figli vanno a scuola insieme, è facile vedersi
casualmente, la vita sociale è più ricca (fuori e dentro l’azienda). In una
città questo non è possibile: si abita in quartieri diversi da dove si lavora,
le scuole sono diverse, non ci si incontra. L’80% della popolazione italiana,
a conferma di questo, vive in comuni con meno di 10.000 abitanti. L’Italia
è un paese decentrato ed è anche questo un motivo della piccola e media
dimensione.
Nessuno fa impresa per questi motivi (identità, integrazione e presenza
del territorio), ma indirettamente si ottengono questi 3 aspetti
fondamentali nell’ambito della vita civile.
Il richiamo al territorio è sempre molto spiccato nelle PMI. Spesso già nella
ragione sociale si trova il richiamo al territorio di origine (esempio: Wolf
Sauris). Wolf ci permette poi di sottolineare che l’imprenditore, quando
c’è, riesce a superare, pur di restare attaccato al territorio di origine, per
via della fiducia le difficoltà (logistiche) rappresentate dallo stesso
territorio (localizzazione in zone impervie delle montagne). Ciononostante
è un caso di successo.
ODE, al contrario, sposta lo stabilimento produttivo, ma mette a
disposizione pulmini per trasportare i collaboratori dal paese di origine al
nuovo luogo di lavoro.
Il radicamento non è solo scelta sentimentale, ma anche e soprattutto
razionale. La fiducia c’è dove sei conosciuto e dove conosci. Questo
permette il consolidarsi di rapporti, la conoscenza diretta tra le persone e
questo ha senso anche in un’epoca in cui le PMI si globalizzano: testa in
giro per il mondo, ma piedi ben radicati nel territorio di appartenenza.
Un esempio a quest’ultimo riguardo è quello di Angelantoni, azienda
operante nel settore aerospaziale, che è ubicata a Massa Martana, un
piccolo centro dell’Umbria, anche se è molto internazionalizzata. Questa
sede è stata scelta perché da lì partì il padre del protagonista per andare a
Milano in cerca di lavoro, ma appena ebbe l’opportunità tornò per dare
lavoro ai suoi concittadini. Questo spiega appunto il forte legame con il
territorio, con la storia, pur essendo un’azienda che opera con tutto il
mondo. 49
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L’osmosi con il territorio è molto visibile, infine, nelle varie BCC locali, in
3 diversi aspetti: già nella ragione sociale spesso queste banche
richiamano il nome del territorio (esempio: BCC valdostana e cassa
rurale di Mezzocorona). Inoltre, il legame tra territorio e governance
della banca fa sì che la banca abbia rappresentanti delle imprese. Il terzo
aspetto è il fatto che tutti i risultati economici di queste banche restano
sul territorio, sia come affidi alle famiglie che vi abitano sia come
sponsorizzazioni o interventi di beneficenza per la gente della zona.
ORGANIZZAZIONE DELLE PMI E FABBISOGNI ORGANIZZATIVI (pag. 66)
Siamo portati a pensare che la PMI corrisponda alla disorganizzazione, alla
flessibilità, al rapporto personale più che al rapporto organizzato. In realtà,
non c’è alcun rapporto tra la dimensione di un’azienda e il suo livello di
organizzazione, la sua complessità organizzativa: possiamo avere PMI
molto organizzate come Gefran (anche se la maggioranza è poco
organizzata) e grandi imprese poco organizzate.
Pur facendo parte delle PMI, Gefran rappresenta un’eccezione: è
un’azienda quotata in borsa da parecchi anni. Anche se il modello prevede
la proprietà familiare, ciò non esclude che si possa anche ricorrere alla
borsa per acquisire capitali di investimento, sia pure per una quota
minoritaria. La Borsa italiana ha dei segmenti specifici per le PMI (Star e
AIM) che incentivano l’entrata in borsa delle PMI con minori vincoli
burocratici e minori costi. Si è anche lanciato un progetto, élite, che serve
a selezionare le eccellenze delle imprese italiane e ad accompagnarle alla
borsa.
Non c’è quindi contrapposizione, alternatività tra proprietà familiare e
ingresso in borsa, ma la tipicità italiana è quella delle imprese familiari e
Gefran ne è un’eccezione.
Nell’ambito della maggiore organizzazione di Gefran, rientrano alcuni
aspetti detti fabbisogni organizzativi: la delega, l’integrazione e la
gestione del personale. Gefran ha un livello di delega molto elevato (per
incentivare una diffusa assunzione di responsabilità), c’è molta
integrazione (riunioni di breve durata che permettono ai diversi livelli
gerarchici di maturare una conoscenza omogenea delle problematiche
aziendali) e c’è una gestione del personale managerializzata. Questa
elevata organizzazione, possibile se necessaria anche in una piccola
impresa, si manifesta in fabbisogni organizzativi.
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L’organizzazione è quindi uno strumento: se è necessario organizzarsi,
anche una PMI può e deve farlo, se non è necessario invece è meglio non
farlo, essendo un costo.
VOCAZIONE IMPRENDITORIALE (pag. 114-129-117-126-123-137-168-173)
Charrère trasforma un problema in opportunità: il clima sta cambiando, si
alzano le temperature, le vigne possono essere portate anche più in alto.
È conosciuto in tutta Italia ma anche nel mondo.
Charrère e Farinetti sono entrambi imprenditori, ma il primo produce, il
secondo distribuisce. La piccola impresa che fa qualità non ha i mezzi per
sostenersi con la pubblicità: queste imprese produttrici hanno quindi
bisogno di distribuzione. È fondamentale che ci sia qualche imprenditore
che identifichi come idea imprenditoriale la distribuzione dei prodotti
italiani di qualità. Da questo punto di vista l’iniziativa di Eataly è
fondamentale perché segnala uno dei problemi del futuro: va bene fare
qualità nel piccolo ma senza distribuzione il prodotto non arriva da
nessuna parte.
Di Bianchi è importante soprattutto la storia personale, anche per le
conseguenze sulla famiglia. Cambia completamente abitudini di vita in
funzione dell’azienda: dalla Toscana si trasferisce a Marsala. Cerca sempre
nuove alternative: commercia vino, poi lo produce, poi passa alla grappa,
prima produce e vende grandi quantità, poi produce e vende qualità.
Cerca sempre di trovare nuove strade, ma comunque restando sempre
nello stesso settore: la materia prima è sempre l’uva, sia che si tratti di
vino sia che si tratti di grappa. Questa è una caratteristica tipica dei bravi
imprenditori.
Moretti, al contrario di Bianchi, è un costruttore edile, ma oggi è più
conosciuto per il Bellavista che per i prodotti edili che realizza e vende.
Non si tratta però di una diversificazione produttiva perché in realtà
Moretti resta produttore nell’edilizia solo che con il suo guadagno
nell’edilizia, invece di investirlo in azioni, in macchinari, lo investe in
terreni in Franciacorta per produrre vino. Non è imprenditore, ma
proprietario di Bellavista perché sono altri a coltivare. Moretti è invece
proprietario, imprenditore e manager dell’edilizia. Il proprietario Moretti
del Bellavista è più conosciuto dell’imprenditore Moretti nell’edilizia.
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La zona di Franciacorta corrisponde alla zona dello Champagne francese,
da cui i prodotti hanno poi preso i loro nomi. Queste zone prendono
talmente tanta importanza da dare il loro nome ai prodotti. Stanno
emergendo i nomi dei maggiori tre produttori di Franciacorta: Bellavista,
Berlucchi e Ca’ del Bosco. Il vino italiano rappresenta il settore più in
crescita.
Charrère, Bianchi e Moretti lavorano nello stesso settore ma con modalità
diverse: Charrère solo vino, Bianchi vino e grappe e Moretti solo vino ma
non imprenditore, bensì proprietario.
Cecchini riesce a far parlare di sé da un piccolo paesino (non Milano) non
con un’innovazione particolare, non abbandonando la sua attività, ma
mediante integrazione verticale e completamento della gamma. Vuole
cercare di lavorare il prodotto e venderlo come prodotto finito, quindi apre
un ristorante. Oggi è stato seguito da molti macellai con ristorante
annesso.
Cecchini ha saputo innovare in un settore maturo, modificando la formula
imprenditoriale, trasformando i limiti in opportunità (esempio: vincoli
architettonici). Non è stata un’idea, ma è stata la risposta a un limite. Ha
aperto il ristorante per integrarsi verticalmente.
L’imprenditore italiano è quindi un uomo capace di grande creatività
anche in settori maturi dove sembra impossibile innovare ed è un uomo
capace di gestire i soldi creati in un business creandone un altro.
L’imprenditore non è solo un singolo, un nome, ma può essere anche un
gruppo ampio di persone, non legate da vincoli di parentela, che dà vita a
cooperative con spirito imprenditoriale.
Il caso della cooperativa elettrica di Gignod fa capire che anche una
cooperativa può avere spirito imprenditoriale e nasce per rispondere ad
un bisogno. È un esempio storico, c’è anche in giro per il mondo, è uno
spirito imprenditoriale quello che muove, un’idea, soprattutto un bisogno,
la risposta al quale nasce dal basso. Mentre gli imprenditori persone
fisiche partono da un’idea che risponde ad un bisogno di terzi, gli
imprenditori persone collettive partono da un bisogno anche proprio a cui
danno risposta con successo senza demandare al pubblico la soluzione.
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Abbiamo gli stessi fenomeni anche nella grande distribuzione e nel credito
con le casse rurali. Si può crescere con i servizi purché questi siano a
supporto del modello originale di sviluppo: le banche fanno parte dei
servizi e sono a servizio delle PMI. Nella storia di moltissime PMI,
soprattutto manifatturiere, la banca ha un ruolo fondamentale: non è una
banca qualsiasi ma la banca di credito cooperativo (BCC), la vecchia cassa
rurale. Senza nulla togliere alle imprese di credito più grandi, quelle di
dimensione europea, sono queste le banche che spesso si ritrovano al
fianco delle nostre aziende e che sono caratterizzate dalla mutualità e
dalla partecipazione dei soci. Queste banche svolgono un ruolo di primo
piano nel processo di mantenimento e di sviluppo della ricchezza di tante
zone del paese.
Nella loro diversità, la cassa rurale di Mezzocorona e la BCC
valdostana hanno molti dati in comune: sono al servizio del territorio,
una porta il nome della regione (valdostana), l’altra del comune
(Mezzocorona) in cui opera. Già nella ragione sociale richiamano il nome
del territorio. Inoltre, all’interno del CDA di queste due banche siedono
molti imprenditori del territorio (Dorigati nella BCC di Mezzocorona).
Ci sono però anche delle differenze tra le due banche per dinamica
organizzativa: la BCC valdostana è l’unica BCC presente nella regione di
appartenenza, mentre la cassa rurale di Mezzocorona sorge più di cento
anni fa in quel piccolo comune e tuttora opera lì con un unico sportello. Il
Trentino è la patria delle banche di credito cooperativo, nate più di un
secolo fa, e questo perché vicino alla Germania, dove sono nate per
prime.
In questi 5 anni di crisi si parla spesso di credit crunch, di ristrettezza
dell’affidamento alle imprese. Le banche che hanno mantenuto gli
affidamenti agli stessi livelli precedenti alla crisi e quindi che sono state
vicine agli imprenditori sono state le banche di credito cooperativo.
SPECIALIZZAZIONE SÌ, DIVERSIFICAZIONE NO (pag. 156-158) E PUNTO 3:
FARE MEGLIO CIÒ CHE SI È SEMPRE FATTO RENDENDOLO VISIBILE (pag.
90-91-93-94) 53
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I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Ladyfranky di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Organizzazione aziendale delle PMI e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Valle d'Aosta - Univda o del prof Preti Paolo.
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