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Fondamentale, infine, saper ascoltare ed essere
ascoltati sulla base di una relazione. È un tipo particolare di ascolto che si chiama ascolto attivo che
significa comprendere e valutare i messaggi, le idee e i punti di vista per entrare empaticamente in
contatto con l’altro. Un ascolto empatico sa rimanere fedele a ciò che ha sentito per andare avanti
nel colloquio. L’empatia se usata bene è un elemento a disposizione dello psicologo per facilitare lo
significa entrare nei panni dell’altro per capire cosa sta provando
scambio comunicativo. Empatia
senza però cadere nella simmetria e nella collusione. L’ascolto dunque è sia un ascolto cognitivo
l’abilità di
che emotivo, riguarda cioè sia i contenuti sia le emozioni e i vissuti. Ascoltare è
assumere immaginariamente la posizione del parlante (concetto immaginifico, di rappresentazione
dell’altro) per comprenderne l’esperienza e le emozioni dell’altro senza giudicarlo per poi tornare
momento imprescindibile dell’osservazione
nel proprio ruolo. La relazione empatica è un durante
o meno, perché osservare è partecipare, vivere insieme all’altro ciò che
un colloquio, sia essa clinica
l’altro è e fa. Il livello di relazione empatica fra osservatore e soggetto osservato, e la
delle corrispondenze, permettono all’individuo e
consapevolezza alla relazione di essere
L’empatia è sperimentata da entrambi. La si può rimuovere,
maggiormente conosciuti e vissuti.
negare, ma non è possibile evitarla. Perché questo avvenga bisogna che lo psicologo osservi, con
l’interlocutore
una partecipazione silenziosa e attiva, che non cerchi di riportare i dati che fornisce a
conoscenze già note, ad esperienze già concettualmente assimilate. Lo psicologo può sentirsi a
disagio per questo e non reggere la tensione che prova quando non si sente adeguato al suo ruolo,
quando, più che intervenire, deve ascoltare e anche "dubitare". Se decidiamo di rimanere in contatto
con la realtà senza definirla, proviamo generalmente una sensazione di disorientamento. Sospendere
l’atteggiamento concettuale significa vivere il momento di disorientamento per accedere a nuove
possibilità di riorganizzazione dell’esperienza. Durante il colloquio per lo psicologo è necessario
distaccarsi dalle proprie emozioni e vedere il proprio coinvolgimento emotivo come qualcosa che
produce conoscenza di sé e dell’altro in un processo di distinzione di sé dall’altro. Lo psicologo è
chiamato ad accettare di vedere se stesso e il proprio filtro di lettura, non identificandosi né con sé
né con l’altro, per trovare la comprensione in una posizione di massima ricettività. L’interlocutore
può essere fastidioso o mostrare aspetti che vanno a urtare con i parametri di giudizio
dell’intervistatore, con le sue categorie morali o concettuali, e con le sue aspettative. E viceversa,
l’interlocutore ha dei concetti dello psicologo che possono portarlo a essere giudicante e a proiettare
L’ascolto prevede lo
sul professionista svalutazioni o valorizzazioni arbitrarie, non obiettive.
dell’atteggiamento giudicante che
sviluppo della capacità di contenimento ostacola la possibilità di
comprensione di sé. Esistono inoltre delle risposte non empatiche che dovrebbero essere evitate
durante un colloquio. Già Rogers individuò almeno quattro tipi di risposte che devono essere evitate
attentamente dallo psicologo se si vuole stabilire un rapporto di fiducia:
1) Risposte banalizzanti: sono le risposte che rendono comune il problema e che fanno apparire lo
psicologo come colui che ha la soluzione che, in pochi minuti, farà scomparire tutte le difficoltà.
Bisogna ricordare sempre che esiste un rapporto speciale e unico tra il paziente e il suo problema.
La persona non accetta che ciò che l’ha fatta così tanto soffrire o arrabbiare possa essere umiliata e
banalizzata dalle parole dello psicologo. Ognuno considera il proprio caso come unico e deve essere
trattato come tale. Non si può affermare di aver visto tanti casi e tutti uguali. Questa è la
manifestazione di una forte carenza nella capacità empatica del professionista che alimenta il senso
dell’interlocutore di non poter essere capito.
2) Risposte tecnicistiche: rappresentano tutte le risposte da esperto psicologo, tutte quelle che fanno
uso di un linguaggio tecnico di cui il paziente può non conoscere il significato. Sono due i grandi
svantaggi di questa abitudine. Prima di tutto si annulla qualsiasi possibilità di instaurare un rapporto
di fiducia in quanto il paziente non si sente accettato e capito ma anzi avverte il disagio di trovarsi
Secondariamente l’uso di un
in un relazione non paritaria in cui lui occupa la parte subordinata.
linguaggio poco comprensibile rende difficile per il soggetto poter cogliere prospettive diverse dalla
propria. Per questi motivi l’uso di risposte tecnicistiche impedisce di seguire un percorso di
negoziazione della definizione di problema e obiettivi ma porta alla negazione delle definizioni
dell’interlocutore con tutti i danni che ne conseguono per il rapporto interpersonale tra lui e lo
psicologo.
3) Risposte moralistiche: costituiscono tutte quelle risposte tese a incolpare il soggetto per un
comportamento che travalica i limiti della moralità del professionista. Se una persona si comporta in
modo sbagliato secondo i canoni dello psicologo e giunge da lui portando un problema, questi deve
occuparsi del problema e non giudicare il suo comportamento, giusto o sbagliato che sia.
4) Risposte interpretative: sono risposte in cui lo psicologo dà una spiegazione alle emozioni,
sentimenti e comportamenti del soggetto che ha di fronte basandosi sulla propria intuizione più che
sulla connessione con i dati reali ricevuti dalla comunicazione. Implicano quindi l’introduzione di
un argomento che al momento non è dato dal colloquio psicologico. Queste intuizioni dovrebbero
rimanere tali e non essere subito trasmesse al soggetto, solo al momento opportuno potrebbero
essere usate come fonte di insight. Dal sintomo alla domanda
Dunque possiamo intendere il colloquio come uno spazio di narrazione intenzionale garantito da
regole codificate (setting) che da un lato costituiscono la cornice delimitante la trama, dall’altro
permettono la costruzione di un pensiero sull’accadente che consente di dare senso alla relazione
(Montesarchio, 2002). Per trama si intende sia il complesso di fili che si intrecciano dando vita alla
tela, sulla quale si stendono i colori emozionali, sia lo svolgimento del racconto, il canovaccio,
l’intreccio tipico di un’opera narrativa. Il colloquio clinico si differenzia dalle interviste o da altre
tipologie di colloquio perché attiene ad uno specifico vertice di osservazione ed a una modalità
specifica di intervento. Il termine clinico si riferisce: ad un particolare approccio alla realtà, basato
sul rapporto interpersonale; ad un modo di sistematizzare la conoscenza di un dato fenomeno,
attraverso l’osservazione sistematica e diretta di vari individui, al fine di coglierne gli elementi
tipici come pure quelli differenziali. In questo senso, la stessa differenza per esempio tra setting
clinico e setting formativo non attiene all’oggetto, né al processo, piuttosto agli obiettivi; obiettivi,
la cui definizione non può prescindere da un’attenzione e da una riflessione sul contesto. Si
“l’insieme delle relazioni, e della loro struttura organizzata, entro il quale ciascun
definisce contesto
individuo vive la propria esperienza” (Carli, 1993). Laddove è proprio il concetto di contesto in
relazione ad obiettivi che allarga l’analisi del colloquio a campi anche altri da quelli clinici
tradizionalmente intesi, quello psicosociale, scolastico, di riabilitazione, di orientamento, di
formazione, di marketing, ecc. Si tratta in tutti i casi di riuscire ad organizzare uno spazio in cui sia
possibile capire quale domanda ci viene posta da quello specifico rapporto in quello specifico
contesto. Definire e strutturare questo spazio che indichiamo nella parola setting ci consente di
delimitare un campo mentale in cui si svolge il lavoro psicologico. La mancata considerazione del
campo relazionale può essere ricondotta alla mimesi, propria di molta psicologia, di un modello
medico, per cui l’esperto è colui cha valuta e decide e l’utente colui che esegue e si attiene alle
casi c’è’ una tecnica,
prescrizioni. In entrambi i ovvero un comportamento competente, posseduta
da un tecnico che ha determinato la richiesta e l’instaurarsi di un rapporto col profano; una
competenza che a sua volta, in quanto orientata a uno scopo, rimanderà ad un corpus teorico che la
fonda e alla sua legittimazione sociale. Nel caso del medico parliamo però di tecniche senza teoria,
nel caso dello psicologo di teorie della tecnica, dove le prime indicano relazioni professionali in cui
il rapporto tecnico-profano non diviene mai oggetto di analisi, le seconde relazioni professionali in
cui quel rapporto è lo strumento di analisi. Il medico ad esempio non è chiamato ad analizzare il
senso della relazione e della domanda che gli viene proposta: il sintomo, rimandando ad una
specifica malattia, giustifica la relazione. La legittimazione della tecnica è sancita non solo da un
modello di cura coerentemente orientato da un modello eziologico, che consente di individuare le
cause, ma anche da un mandato sociale che prescrive il diritto/dovere alla guarigione, al benessere
fisico, alla salute sollecitando una relazione di dipendenza coerentemente sancita dal diverso
gradiente di competenza. Niente di strano se il paziente affida totalmente al medico il suo problema
e la sua cura. Il medico inoltre può compiere la sua diagnosi sia che si trovi in strada sia che si trovi
in uno studio; sia che sia amico del suo paziente, sia che sia estraneo. Relazione e contesto stanno
alla sua diagnosi come la cornice sta ad un quadro. Questo non significa negare il modello medico e
l’opportunità di un modello medico competente, del significato emotivo e relazionale del rapporto
l’uomo nella sua unità di mente e corpo.
con il paziente, che consideri È importante però riflettere
sul pericolo di alcuni modelli psicologici che mimando e adottando un modello diagnostico di tipo
medico, si configurano come tecniche senza teorie. Mi riferisco a quei modelli in cui si pongono
obiettivi tesi a modificare in una direzione predefinita il comportamento dell’altro, ricorrendo a
schemi psicopatologici, sindromici per leggere la malattia mentale, là dove non si dispone di un
modello eziologico che illuminando s