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JEREMY BENTHAM
Dunque, l’ambizione degli utilitaristi, e in particolare di Jeremy Bentham è quella di
creare una scienza morale analoga alle scienze naturali e dunque di strappare la
riflessione morale dall’ambito della metafisica e della religione.
Quali sono, quindi, secondo Bentham, gli assunti metafisici che hanno, fino a
quell’epoca, caratterizzato la riflessione morale? Sono assunti che riguardano sia la
natura delle persone che la natura del bene: se si assume che le persone sono dotate
di un’anima immortale, figlia dello spirito santo, e se si assume che il bene sia la
perfezione morale, questi sono assunti metafisici, cioè non possono essere in alcun
modo provati, sono oggetto di disaccordo.
Per poter fondare una scienza morale al di fuori di questi presupposti metafisici,
Bentham ritiene che il punto di partenza sia l’osservazione empirica relativa ai
moventi base dell’agire umano, cioè l’osservare il comportamento umano per giungere
alla conclusione che tutti gli esseri umani, gli esseri senzienti, cercano nel loro agire di
ottenere il massimo del piacere, dell’utilità e di fuggire il dolore. Questo è il movente
base dell’azione umana, aperto all’evidenza empirica di chiunque.
Da questo movente base possiamo ricavare la massima razionale, non morale,
secondo cui le persone razionali cercano di massimizzare la loro utilità e minimizzare
la loro disutilità. Nell’utilità sono comprese le nostre preferenze soggettive. Questa è la
massima della razionalità, la massima utilitarista, non quella morale.
Data questa premessa, aggiungendo la presunta capacità delle parti di essere morali,
ovvero tenere conto anche degli altri oltre che di noi stessi, la massima morale
dell’utilitarismo sarà la seguente: “agisci in modo che le tue azioni realizzino il saldo
più alto di conseguenze positive, quindi utili, per tutti coloro che sono coinvolti dalle
tue azioni”. In questo caso, diversamente dalla massima razionale di stampo
individualista, ogni agente morale deve massimizzare l’utilità di tutti coloro che sono
coinvolti nell’azione; e come si misura l’utilità dei coinvolti? Valutando le conseguenze
benefiche e sottraendo quelle disutili. Quindi, il saldo più alto di conseguenze
benefiche mi dice che quella è l’azione moralmente migliore. Ogni volta che agisco
devo chiedermi: la mia azione realizza il saldo più alto dell’utilità di tutte le persone
coinvolte dalla mia azione stessa?
Riflettiamo su questa massima:
1. C’è un salto dall’osservazione empirica dell’agire umano, con la conseguente
descrizione, a questa che invece è una massima prescrittiva. Non è immediato
che se gli esseri umani sono fatti in un certo modo allora si devono comportare
in un certo modo. Ovvero, la dimensione normativa, la prescrizione non è
intrinseca alla descrizione degli esseri umani. (Legge di Hume) Da descrizioni
non derivano necessariamente prescrizioni, se noi non aggiungiamo anche dei
principi o valori che la rendano cogente. La filosofia morale utilitaristica deriva
da una descrizione e cerca una prescrizione normativa.
2. Se nel mio agire devo tenere conto di tutte le persone coinvolte vuol dire che,
come persona morale, devo tener conto dei miei interessi tanto quanto di quelli
altrui. Io conto esattamente come tutti gli altri. L’atteggiamento morale
utilitaristico ci spinge a non avere più pretese o diritti rispetto a quelli altrui.
Non è un’etica del sacrificio, tuttavia è un’etica esigente.
3. Se la massima della morale utilitaristica è quella che abbiamo descritto
(massimizzazione del saldo per tutti gli agenti coinvolti) significa che
l’utilitarismo non fa una distinzione tra questioni morali e non, in partenza; non
c’è una classificazione delle questioni morali e quelle non morali, poiché ogni
azione ha delle conseguenze sulle altre persone e la bontà morale di un’azione
è valutato sulla base delle conseguenze benefiche che essa produce sugli altri.
A questo punto le conseguenze benefiche o, al contrario, dannose derivano da
ogni tipo di azione, in ogni ambito. Il motivo è che ogni azione banale ha un
riscontro. Ciò comporta il fatto che, qualunque azione, avendo delle
conseguenze, va considerata secondo la morale utilitaristica, alla luce delle
conseguenze benefiche.
La teoria utilitaristica è dunque teleologica (diverso da deontologico, ovvero che
procede da principi) e consequenzialista.
Teoria teleologica: la moralità, in quest’ottica, si realizza seguendo un certo fine
buono. Nel caso dell’utilitarismo, il fine è la massimizzazione dell’utilità.
Teoria consequenzialista: il bene è definito dalle conseguenze positive che
un’azione, una politica, una misura, una riforma produce. È il calcolo delle
conseguenze.
Se questa è la massima della morale utilitaristica riferita ai singoli, la stessa massima
si applica alle tesi utilitaristiche pubbliche: infatti le teorie di questo ramo sono
facilmente applicabili sia in ambito privato che pubblico. Le riforme, le politiche e le
scelte pubbliche dovranno essere formulate secondo il medesimo criterio: scegliere la
misura che potenzialmente massimizzerà l’utilità del maggior numero di persone.
Non è dunque una teoria distributiva, ma piuttosto aggregativa: vuole tenere conto
delle preferenze dei singoli, delle utilità, e metterle insieme attraverso una somma
algebrica che dia un esito in cui il saldo sia più alto possibile.
Le problematiche legate a questa prospettiva sono le seguenti:
1. Sul piano teorico, il passaggio dall’osservazione dei comportamenti alla
prescrizione di un certo tipo di atteggiamento di scelta.
2. Sul piano pratico, la complessità dell’onerosità di questo calcolo: è impossibile
compierlo prima di ogni tipo di azione, non sempre siamo in grado di farlo.
3. Sul piano normativo, la valenza pubblica dell’utilitarismo: per realizzare il
calcolo della felicità del maggior numero di agenti, il legislatore pubblico deve
calcolare le preferenze degli individui singoli, le funzioni di utilità dei coinvolti.
Ciascuna persona ha una propria utilità, ma allo stesso tempo perde il suo
essere persona concreta per trasformarsi in una lista anonima di preferenze.
Dopo la somma algebrica delle preferenze, la scelta sociale che ne favorirà
alcune a discapito di altre, massimizzerà le preferenze che soddisfano il maggior
numero di persone. Quindi alcuni vedranno le proprie preferenze non
soddisfatte, rientrando in un terzo insieme svantaggiato. La critica in questione
vede l’utilitarismo definirsi come la società dei 2/3, nel senso che la
maggioranza delle persone sarà soddisfatta, mentre una minoranza non riuscirà
a far sentire la propria voce. Nel calcolo utilitaristico entrano le liste di
preferenze ma esso funziona considerando la società come un macro individuo:
alcune preferenze saranno soddisfatte, altre frustrate. Questo bilanciamento è
plausibile, razionale e accettabile a livello individuale, tuttavia diventa
problematico se posto sul macro piano sociale. Questa è la dimensione
aggregativa, anziché distributiva, che vuole mettere insieme le preferenze a
massimizzare un’utilità generale, pur rischiando di escludere degli individui.
L’utilitarismo non prende sul serio la separatezza delle persone, secondo il
punto di vista critico di teorici come Nozyck o Rawls. Il calderone della lista di
preferenze annulla queste differenze tra individui.
JOHN STUART MILL
Interpreta l’utilitarismo in maniera diversa rispetto a Bentham: è più attento al lato
distributivo, cioè si rende conto che ogni individuo ha degli interessi fondamentali che
devono essere difesi da dei diritti, che altro non sono se non una blindatura degli
stessi. In una simile visione, il riconoscimento degli interessi fondamentali prevede un
occhio di riguardo per la separatezza degli individui poiché gli interessi sono
soggettivi, non possono essere accantonati a favore di una maggiore utilità pubblica.
Introduce dunque una dimensione limitativa del consequenzialismo: ci sono dei diritti
inviolabili, anche per maggiore benessere sociale.
Inoltre, questi diritti sono ritenuti blindati ma solo in prima battuta: non c’è
dell’assolutismo, se ci fossero due diritti in conflitto uno dei due dovrebbe avere la
precedenza. Il ragionamento con cui si sceglie la priorità di uno sull’altro è di tipo
consequenzialista. Il diritto è valido, non va violato ma solamente in prima battuta,
“prima face”.
Un altro elemento è quello della complicazione del calcolo felicifico: secondo Mill è
impossibile calcolare ogni volta le conseguenze di ogni azione. Egli propone una
soluzione diversa rispetto a Bentham, che sceglie un utilitarismo detto dell’atto (che si
applica ogni volta a ogni atto): Mill sceglie un utilitarismo delle regole. In quest’ottica,
è importante che la società, per massimizzare l’utilità collettiva, sia dotata di regole
che, sul lungo periodo, massimizzano l’utilità, nonostante all’apparenza e a breve
termine non sembri così (esempio: regola del semaforo). La presenza di regole in una
società su cui fare affidamento, semplifica la vita collettiva, perché ci permette di
sapere cosa aspettarci dagli altri, indipendentemente dal contenuto della regola
stessa. Per Mill l’utilità pubblica si implementa grazie a un sistema di regola basato sul
riconoscimento dei diritti che mirano alla coordinazione sociale, evitando scontri e
favorendo le possibilità di cooperazione. Egli dunque si preoccupa di regole e diritti,
anche in termini distributivi.
Ciò nonostante l’impianto della sua filosofia è pur sempre utilitaristico, nel senso che
egli vuole massimizzare l’utilità pubblica (attraverso strumenti diversi da quelli di
Bentham). Egli sostiene la libertà individuale, che è uno strumento socialmente utile
come possibilità di sperimentazione e di scoperte nuove. Se le persone sono libere
sarà più facile che trovino modalità di vita comune migliori; anche l’errore è un modo
per migliorare. La libertà è un valore non assoluto, ma è un valore perché produce
socialmente ai singoli delle conseguenze buone. Tutti disponiamo di libertà e grazie
ad essa possiamo sviluppare la ragione, la capacità di giudizio autonomo: tuttavia,
nonostante tutti disponiamo di questa potenzialità, non è detto che tutti raggi