Anteprima
Vedrai una selezione di 4 pagine su 13
L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica Pag. 1 L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica Pag. 2
Anteprima di 4 pagg. su 13.
Scarica il documento per vederlo tutto.
L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica Pag. 6
Anteprima di 4 pagg. su 13.
Scarica il documento per vederlo tutto.
L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica Pag. 11
1 su 13
D/illustrazione/soddisfatti o rimborsati
Disdici quando
vuoi
Acquista con carta
o PayPal
Scarica i documenti
tutte le volte che vuoi
Estratto del documento

III.

Il “declino”, il “venir meno” dell’aura determinato dall’avvento dei mezzi di

riproduzione tecnica delle opere, sarebbe il sintomo, secondo Benjamin, di un più

vasto mutamento “nei modi e nei generi della percezione sensoriale”: a ogni periodo

storico corrispondono infatti determinate forme artistiche ed espressive correlate a

determinate modalità della percezione. Benjamin si rende conto di come nella

società a lui contemporanea, mediante la diffusione dell’informazione e delle

immagini, tenda ad affermarsi sempre più un’esigenza di avvicinamento, alle cose e

alle opere. Ciò che però viene meno, in un’epoca caratterizzata dal bisogno di

“rendere le cose più vicine” e in cui “si fa valere in modo sempre più incontestabile

l’esigenza di impossessarsi dell’oggetto da una distanza il più possibile ravvicinata

nell’immagine, o meglio nell’effigie, nella riproduzione”, è quel peculiare intreccio di

vicinanza e lontananza nel quale risiede, secondo Benjamin, l’essenza dell’aura.

Benjamin illustra il concetto di aura a proposito degli oggetti storici mediante quello

applicabile agli oggetti naturali. Quest’ultimi vengono definiti apparizioni uniche una

lontananza, per quanto questa possa essere vicina. Ad esempio, seguire con lo

sguardo una catena di monti all’orizzonte oppure un ramo che getta la sua ombra

sopra un uomo che si riposa - questo significa, sottolinea Benjamin, respirare l’aura

di quelle montagne, di quel ramo. Analogamente, l’opera d’arte può essere definita

tale in quanto manifesta la sua autenticità nel palesare la sua apparizione rispetto

allo spettatore (esattamente come il ramo di un albero, che è anch’esso dotato di

“aura” manifesta la sua esistenza unica a chi osserva il paesaggio). Fine dell’aura

significa dunque fine di quell’intreccio tra lontananza, irripetibilità e durata che

caratterizzava il nostro rapporto con le opere date tradizionali, e avvento di una

fruizione dell’arte basata sull’osservazione fugace e ripetibile di copie, di

riproduzioni.

IV.

Originariamente, la opere d’arte erano parte inscindibile di un contesto rituale, prima

magico e poi religioso; la loro autorità e autenticità, la loro aura, era determinata

proprio da questa appartenenza al mondo del culto. Prima che potessero essere

riprodotte tecnicamente, le opere d’arte avevano dunque come caratteristica

accomunante una sorta di alone mistico, che lui chiama aura. Quest’aura viene

definita da Benjamin, nella nota al testo, come un “singolare intreccio di spazio e di

tempo: l’apparizione unica di una lontananza per quanto possa essere vicina”.

Analizzando questa definizione si può dire che ogni opera d’arte (ad esempio un

quadro) richiama ad un evento naturale lontano nello spazio e nel tempo, rendendo

l’osservatore partecipe ad esso. In forme secolarizzate, l’atteggiamento rituale e

culturale nei confronti dell’arte sarebbe poi trapassato nelle forme profane del culto

della bellezza, che nasce nel Rinascimento e dura fino agli ultimi anni del

Romanticismo. L’avvento della riproducibilità tecnica e la sua diffusione mediante la

fotografia segnano per la prima volta la possibilità di emancipare l’arte rispetto

all’ambito rituale: venendo meno i valori dell’unicità e dell’autenticità, si apre la

possibilità di conferire all’arte una nuova valenza politica, al valore culturale

dell’opera di sostituisce progressivamente il valore espositivo. Nel caso delle opere

cinematografiche la riproducibilità tecnica del prodotto si fonda immediatamente

nella tecnica della loro produzione. Quest’ultima permette non soltanto la diffusione

in massa delle opere cinematografiche, ma piuttosto la impone in quanto, spiega I

migliori anni della nostra vita nella nota, la produzione di un film è così cara che un

individuo in grado di possedere un dipinto, non è in grado di possedere un film.

Benjamin fa notare anche come l’avvento del cinema sono, che aveva inizialmente

spiazzato in negativo gli spettatori, si sia avuto contemporaneamente all’avanzata

del fascismo. Questa contingenza tra i due fenomeni si basa sulla crisi economica.

Infatti, le stesse perturbazioni che hanno portato al tentativo di conservare con l’uso

della forza i rapporti di proprietà hanno anche indotto l’industria cinematografica ad

accelerare lo sviluppo dei film sonori.

V.

L’opera d’arte è pertanto caratterizzata da due componenti, peraltro opposte: la

dimensione culturale e l’esponibilità.

La dimensione culturale si ricollega ai riti che tendono a venerare l’opera d’arte: ad

esempio, certe statue di Madonne non vengono mai esposte durante l’anno, finché

non vengono portate in processione; infatti l’opera d’arte trae origine nel culto

dell’uomo primitivo, che disegna l’alce nella grotta per venerarlo. La componente

opposta è invece l’esponibilità dell’opera d’arte: tanto più un’opera d’arte è

esperibile, tanto maggiormente decade la dimensione del culto. Un mezzo busto,

che può essere trasportato, ha una dimensione meno sacra della statua di una

Madonna, che si trova all’interno di una chiesa. Allo stesso modo, l’esponibilità di un

dipinto è maggiore rispetto a quella di un mosaico o di un affresco.

La riproduzione tecnica dunque incrementa l’esposizione dell’opera d’arte,

determinando quindi una diminuzione della componente culturale. Ed è proprio in

questa perdita della dimensione culturale che si verifica la perdita dell’aura (e

dunque la laicizzazione dell’opera d’arte).

VI.

Nella fotografia la dissoluzione del valore culturale in favore del valore di esponibilità

non è ancora completa, in quanto l’aura mantiene una sua ultima forma di

sopravvivenza nel “volto dell’uomo”.

Non è un caso che le prime fotografie siano state soprattuto dei ritratti che miravano

a fissare e a tramandare nel tempo l’identità e lo sguardo dei soggetti fotografati.

Nell’espressione fuggevole di un volto umano, dalle prime fotografia, emana per

l’ultima volta l’aura. Ed è proprio quest’aura che conferisce alle foto una sorta di

malinconia e bellezza incomparabile. Quando però l’uomo comincia a scomparire

dalle fotografie, il valore espositivo finisce con l’assumere un ruolo preponderante

sul valore culturale. Benjamin cita a questo proposito il fotografo Eugene Atget, il

quale verso il 1900 realizzò riprese fotografiche di vie parigine, privi di uomini, che

cominciarono a diventare documenti di prova nel processo storico e che esigevano

già la ricezione in un senso determinato.

VII.

La disputa, avvenuta nel corso dell’800, sul valore artistico da attribuire ai prodotti

della pittura e della fotografia era l’espressione di un profondo rivolgimento di portata

storica e mondiale. La riproducibilità tecnica, oltre a privare l’arte del suo fondamento

culturale, determinò anche la fine della sua autonomia apparente. Ma la

modificazione che avvenne nella funzione dell’arte sfuggì a lungo, anche nel ‘900,

mentre cominciava nel frattempo il grande sviluppo del cinema. La questione se la

fotografia andasse considerata un’arte fu ripresa dai teorici sul versante del cinema,

senza però mai porsi la domanda preliminare, e cioè se attraverso la scoperta della

fotografia e poi del cinema non si fosse modificato il carattere complessivo dell’arte.

A proposito dell’innovazione cinematografica, Benjamin sottolinea come diversi

teorici si siano sforzati di far rientrare di diritto il cinema nell’arte, attribuendogli

elementi culturali di cui invece non dispone affatto. Cita ad esempio il pensiero di

Abel Gance, il quale paragona il linguaggio dei film a quello dei geroglifici, e quello di

Séverin Mars per il quale il cinema rappresenterebbe un mezzo d’espressione

incomparabile, un momento quasi sovrannaturale.

VIII.

Il profondo legame tra l’immagine fotografica e l’unicità del soggetto rappresentato

nell’hic et nunc del suo essere rappresentato viene però meno con il cinema. La

rappresentazione cinematografica, a differenza di quella teatrale, è fatta di

mediazione, differimento, scomposizione: le azioni che ci vengono presentate nella

loro sequenzialità sono infatti girate in momenti diversi, e ciò che vediamo è il

risultato di una serie di scelte legate all’inquadratura e al montaggio. Allo stesso

modo, mentre la presentazione artistica dell’interprete teatrale viene presentata

attraverso un’apparecchiatura.

Quest’ultima viene manovrata dall’operatore e prende costantemente posizione nei

confronti della prestazione stessa. La serie di prese di posizione che l’autore del

montaggio compone sulla base del materiale a disposizione costituisce poi il film

definitivo, formato da un insieme di movimenti della cinepresa. Come prima

conseguenza, la prestazione dell’attore viene sottoposta a una serie di test ottici. La

seconda conseguenza dipende invece dal fatto che l’attore cinematografico, poiché

non presenta direttamente al pubblico la sua performance, diversamente dall’attore

teatrale, non ha la possibilità di adeguare la sua interpretazione al pubblico durante

lo spettacolo. Il pubblico è così chiamato a esprimere una valutazione senza essere

turbato dal contatto personale con l’interprete.

In una nota al testo Benjamin chiarisce a questo proposito come l’ampliamento che

l’apparecchiatura realizza nella persona dell’interprete cinematografico, corrisponda

all’ampliamento del campo del certificatile mediante test. Come risultato, si ha un

progressivo aumento di importanza delle prove volte a stabilire le attitudini

professionali, nelle quali si verificano frammenti della presentazione dell’individuo.

IX.

Al film interessa non tanto che l’interprete presenti al pubblico un’altra persona,

quanto soprattutto che egli presenti se stesso di fronte alla cinepresa. Benjamin cita

a questo proposito Pirandello, che nel romanzo “Si gira…”, osserva come gli attori

cinematografici finiscano col sentirsi in esilio non soltanto dal palcoscenico ma

anche da se stessi, in quanto la loro azione viva scompare nell’apparecchiatura che

li ha ripresi. Ad esserci c’è soltanto la loro immagine, colta in un determinato

momento o espressi

Dettagli
Publisher
A.A. 2019-2020
13 pagine
SSD Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-FIL/04 Estetica

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher erierika di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Estetica e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli studi L'Orientale di Napoli o del prof Tavani Elena.