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Carletti sfrutta molti neologismi spagnoli nei suoi scritti (patatas,
badanas), inoltre, sviluppa un’attenzione alle lingue riportando una
sommaria descrizione della scrittura giapponese e cinese.
Epistolografia: la maggior parte delle raccolte di lettere furono stampate
a Venezia. Il “secretario” di Sansovino è emblematica per il genere
epistolare moderno, ma anche perché si ricollega alle cancellerie
signorili.
Il mistilinguismo della commedia
La commedia si rivelò il genere ideale per la realizzazione del mistilinguismo.
Machiavelli mirò nel “Discorso o dialogo” al “parlato” cosi come Cecchi, che nei
suoi dialoghi inserì motti e proverbi (“non valete tre man di noccioli”). La
caratteristica più evidente della lingua della commedia è data dalla
compresenza di codici linguistici diversi in base alle classi protagoniste: agli
innamorati si addice il toscano, ai vecchi il veneziano, per i capitani lo spagnolo
e per i servi il milanese. Una figura presente in diverse commedie è il pedante,
caratterizzato da un linguaggio comico artificiale dove il latino è usato a scopo
ridicolo. Per quanto riguarda il dialetto esso è usato in concomitanza con altre
parlate. Per quanto riguarda la Commedia dell’arte sappiamo che il testo “orale
e fluttuante” è andato perduto.
Il linguaggio poetico
Ariosto modellò la propria lingua la modello delle Tre Corone eliminando i
settentrionalismi e accettando i tratti bembiani. Machiavelli criticò il suo
linguaggio giudicandolo innaturale. In sintesi l’esito finale del bembismo di
Ariosto è la concretizzazione della teoria linguistica: nell’Orlando furioso si ha
un linguaggio chiaro e elegante (complessivamente medio e alto)
Il petrarchismo
Consiste in una soluzione che si rifà al modello bembiano. Si ha una scelta di
un vocabolario lirico selezionato, appunto ispirato a Petrarca.
Torquato Tasso e le polemiche con la Crusca
Torquato Tasso non rifiutò il volgare toscano, ma non affermò mai il primato del
fiorentino. L’accademia della Crusca non lo criticò sul piano stilistico né su
quello lirico, ma sul piano dell’epica (lingua e stile). Lo stile di Tasso viene
giudicato difficile e innaturale, costringendo il pubblico ad una lettura visiva e
silenziosa. Il problema fondamentale risiedeva nella costruzione sintattica che
contrastava con la struttura ritmica dell’ottava. Tasso inoltre sul piano lessicale
faceva grande uso di latinismi che, contrastavano nettamente con il fiorentino.
Egli mirava ad un linguaggio sublime scaturito da lingue straniere e dalla lingua
latina. Questo era un modo per elevare i livelli dell’epica. Salviati era però
realmente ostile allo stile di Tasso, poiché, prediligendo un linguaggio diverso
dal fiorentino, in questo modo Firenze non possedeva più il primato sulla lingua.
L’autore inoltre proponeva una distinzione tra fiorentino antico e moderno
sostenendo che la lingua volgare era ormai colta non più legata al volgo
(fiorentino). Tasso inoltre afferma che Dante aveva utilizzato una lingua più
fiorentina rispetto a quella di Petrarca, ma più poetica. Mentre la Crusca
regolava sistematicamente la norma sulla lingua italiana, il mondo letterario
imboccava diverse strade.
Teoria poetica e stile di Tasso:
Tasso scrisse delle pagine dedicate alle tecniche stilistiche, per raggiungere
l’ideale di magnificenza. Per ottenere un linguaggio aulico e grave era
necessario:
Asprezza: allitterazioni e “concorso di vocali”
Versi spezzati: enjambement che permette di distanziare il verso dalla
monotonia metrica ed è la base per effetti di rallentamento e suspance.
Accumoli di elementi congiunti da “e” o per asindeto.
Riferimento all’indefinito e all’indeterminato che fa emergere il senso del
vago e del sublime.
Duplicazione delle parole.
La chiesa e il volgare
La lingua ufficiale della chiesa era il latino, ma il volgare, emerse nella
catechesi e nella predicazione. Durante il concilio di Trento si discusse la
legittimità delle traduzioni della Bibbia: questa scelta fu affidata ai vari
pontefici (il problema fondamentale era una errata interpretazione delle
scritture). Con la traduzione della Bibbia da parte di M. Lutero si ebbero delle
discussioni riguardo altre possibili traduzioni, ma anche ciò venne lasciato alla
scelta dei pontefici. Infine, per quanto riguarda il tema della messa, il latino era
riconosciuto come lingua omogenea universale, ma anche il volgare ottenne la
sua porzione di consensi.
Il volgare venne invece utilizzato durante il momento delle prediche. A seguito
del concilio di Trento venne stabilito che i parroci dovevano esprimersi in
volgare, durante le predicazione e durante la messa. Anche la chiesa dovette
affrontare una “questione della lingua”: doveva essere stabilito il codice
linguistico da utilizzare. Il bembismo influenzò la predicazione; un esempio ne è
il francescano Musso, allievo di Bembo. Il linguaggio delle predicazioni era
scarno e ricollegabile all’oratoria antica. Panigarola definisce “perniciosa
dulcedo” la pericolosa dolcezza delle arti oratorie dei pagani. La cultura
cristiana doveva attingere dall’arte retorica come strumento di diffusione e
predicazione. Nel 1609 venne pubblicato il ‘Predicatore’ di Panigarola, esempio
di prosa della predicazione. Lo scopo era quello di unire cultura e fede; infatti,
nell’opera è trattato il tema della lingua da utilizzare da un predicatore: ovvero
la lingua fiorentina e i principi bembiani. L’autore esorta i suoi colleghi a
soggiornare a Firenze per essere in possesso delle giuste abilità linguistiche, in
modo da elevare il livello della predicazione (le sue idee erano in armonia con
quelle del Cardinale Borromeo). Si veda come la Chiesa tenti di elevare il livello
delle predicazioni per un pubblico che aveva voglia di aggiornarsi, facendo
ricorso a effetti retorici. Nonostante ciò sopravvisse un tipo di predicazione più
popolare, ad esempio con San Filippo Neri, che aveva scopi più umili e meno
scenici. Vediamo, infine, come nel ‘600 le predicazioni, con l’aggiunta di tratti
gestuali e coreografi, divennero una sorta di monologhi teatrali.
10. IL SEICENTO
L’Accademia della Crusca: si occupò principalmente della ‘lingua italiana’.
Essa fu un associazione privata, nata a Firenze, che non aveva sostegno
pubblico ed economico. Nonostante ciò riuscì a restituire a Firenze il ‘magistero’
della lingua, ma fu, anche, protagonista di scontri e critiche da parte dei
letterati contemporanei. Il contributo più importante fu la stesura del
Vocabolario: gli accademici iniziarono a interessarsi alla lessicografia e
discussero sulla composizione dell’opera. Essi fecero tesoro delle teorie di
Salviati, allontanandosi dalle Prose di Bembo, ma dopo la morte
dell’accademico, non c’era più stata una figura di spicco in grado di prendere in
mano le redini dell’Accademia. Come fonti di ricerca vennero ‘spogliati’ i grandi
autori assieme ad autori ‘minori’ che erano modelli di ‘scrittura’ (a prescindere
dal contenuto). Il ‘dilettantismo’ di questi accademici fu un punto a favore,
poiché, organizzandosi in un équipe, condussero con metodo ed attenzione il
lavoro. Al momento della pubblicazione, non essendoci fondi, questi letterati
decisero di autofinanziarsi, sperando nella riuscita della loro opera. A causa
della frammentazione dell’Italia e del rischio delle edizioni-pirata, i testi
editoriali erano in pericolo; bisognava dunque tentare di ottenere un privilegio.
Bastiano de Rossi (‘Nferigno’) fu incaricato di sorvegliare la stampa del
Vocabolario a Venezia, nella tipografia di Alberti. Ogni settimana de Rossi
avrebbe dovuto inviare all’Accademia le bozze del Vocabolario, per un controllo
collettivo. Il ‘Vocabolario degli Accademici della Crusca’ venne pubblicato nel
1612 a Venezia (riportava l’immagine di un buratto con sopra il motto ‘Il più bel
fior ne coglie’ in riferimento alla farina e alla crusca). Uno dei problemi
fondamentali delle fonti fu la scelta delle auctoritates: gli schedatori avevano
cercato di evidenziare la continuità tra fiorentino antico e moderno, prendendo
spunto da testi e manoscritti inediti e sconosciuti a molti.
L’eccesso per il gusto e il lessico fiorentino fu negativo per un vocabolario che
ambiva a essere patrimonio lessicale a cui tutti avrebbero fatto riferimento. La
scelta della grafia fu un elemento di innovazione, distaccandosi da caratteri
latini (h etimologiche o –ct-). Il Vocabolario, acquisì comunque un prestigio
sovraregionale, consigliato, anche, da coloro che erano avverso all’Accademia,
come Tesauro.
L’opposizione alla Crusca:
Paolo Beni: professore a Padova, fu autore dell’Anticrusca (1612). Egli
contrapponeva Tasso a Salviati e sosteneva che il patrimonio comune
linguistico non si limitava a Firenze, ma si estendeva ad altre città (Roma,
Venezia, Padova). La maggior parte della sua attenzione si concentrava
sulla polemica contro lo stile di Boccaccio (irregolare e con elementi
plebei). Egli, in sintesi, sosteneva un giudizio negativo sugli autori
Trecenteschi.
Alessandro Tassoni: (opera ‘La secchia rapita’) egli elencò una serie di
osservazioni, sotto forma di postile, nelle quali criticata l’asistematicità e
il fatto che la Crusca riconoscesse come unica lingua quella fiorentina.
Secondo il pensiero di Tassoni anche altre lingue, così come quella di
Roma (esperienza personale) , avevano il diritto di emergere e di essere
al pari della fiorentina. Il letterato, essendo contrario all’arcaismo
linguistico, suggerì di contrassegnare e distinguere sul Vocabolario voci
antiche e parole da evitare. Egli era critico nei confronti di ciò che
ostacolasse la modernità e la semplicità della comunicazione.
Daniello Bartoli: era gesuita ed era noto per la sua elegante prosa. Egli,
riesaminando i testi degli autori trecenteschi, dimostrò che erano
presenti ‘oscillazioni’ che mettevano in discussione i principi sui quali si
fondava il Vocabolario. Nell’opera ‘Il torto e il diritto del Non si può’
critica ironicamente ogni forma di rigorismo grammaticale. Un
grammatico, secondo Bartoli, deve essere attento e misurato nel suo
operato.
Le edizioni del Vocabolario
Ci furono altre due edizioni del Vocabolario della Crusca:
1623: l’edizione fu molto simile alla prima.
1691: dopo trent’an