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6.1 Dal paesaggio naturale al paesaggio umanizzato
Agli inizi dell’800 Hommeyer definisce il paesaggio come un’unità spaziale derivante
dall’impressione che le forme producono sul sentimento.
Humboldt osserva come il paesaggio sia individuabile in due momenti distinti: il momento
goethiano, nel senso dell’immagine, dell’intuizione e il momento kantiano, basato invece
sull’esame oggettivo della realtà. Intuizione e ragione insieme costituiscono il processo cognitivo
attraverso il quale la natura viene interiorizzata, realizzando l’unità del soggetto e dell’oggetto il
paesaggio visto prima nella sua valenza estetica viene successivamente analizzato in modo
razionale suddividendolo in parti.
Successivamente in un clima influenzato dal positivismo il paesaggio diventa un fenomeno
conoscibile solo grazie alle intuizioni sensibili, è sintesi degli elementi visibili. Il paesaggio viene
inteso come insieme delle fattezze sensibili del territorio che si sono delineate e stratificate nel
corso del tempo per effetto dell’intro tra cultura/tecnologia e substrati fisici. Seguendo tale visione
si cessa di considerare il paesaggio come semplice espressione di forme fisiche, in quanto al
concetto di paesaggio naturale si aggiunge quello di paesaggio umanizzato.
Sotto l’influenza del pensiero determinista, anche la geografia “italiana” si è interessata allo studio
del paesaggio. Bisutti osserva come il paesaggio nelle caratteristiche sia la condizione di cui
servirsi per effettuare una regionalizzazione dell’intera superficie terrestre. Distingue il paesaggio
sensibile (percettibile con i sensi) da un paesaggio geografico che è la sintesi astratta dei paesaggi
sensibili. La Zerbi osserva come ci possa servire degli
elementi finiti di un paesaggio per evidenziarne diverse tipologie attraverso la selezione di clima,
idro e orografia e vegetazione. A sua vota Sestini introduce una visione temporale del paesaggio,
che avviene attraverso un’interpretazione evolutiva dello stesso.
Il paesaggio non deve considerato soltanto come oggetto di contemplazione estetica, in quanto
nella realtà delle cose ospita pratiche sociali, e può essere interpretato servendosi di spiegazioni
storiche. Il paesaggio è ciò che non si vede.
6.2 Fonti, strumenti e tecniche nell’analisi del paesaggio
La lettura di un paesaggio non è mai immediata, in quanto anche se è vero che il paesaggio
costituisce una fonte, dall’altro è anche vero che la lettura di tale fonte obbliga ad un’opera di
decifrazione impostata sull’uso di strumenti e di tecniche analitiche sempre più raffinate. Si
utilizzano fonti scritte, carte, fotografie, materiali archeologici, inchieste e così via. Le fonti di cui il
geografo si serve per indagare il territorio si differenziano in:
- Documentary evidence, fonti scritte ed orali che creano un primo schema di informazioni
semplici che vanno comparate con la realtà
- Field evidence, prove derivanti dalla ricerca sul campo. Informazioni che derivano da
ricerche effettuate direttamente sul territorio e su eventuali reperti.
Le fonti scritte e orali vengono quasi sempre interamente sostituite dalla ricerca sul campo,
preceduta e preparata sulla base di letture e interpretazione di carte geografiche, immagini, mappe
e fotografie; e attuata a diversi livelli di proceduta che vanno dalla semplice ricognizione sul
terreno, allo scavo archeologico. Alla base del field-work si colloca l’assioma secondo cui la
geografia contiene la sua storia, ossia lo spazio contiene il suo tempo. Alle dimensioni di latitudine,
longitudine e altitudine se ne aggiunge una quarta: il tempo.
Le parti che compongono un paesaggio hanno contemporaneamente età diverse, esso diventa
accumulazione di tempo, offrendo diversi piani di lettura. Il paesaggio è il risultato generale di una
duplice tensione della società umana che da una parte induce trasformazioni continue, ma
dall’altra cerca di preservare gli ordini raggiunti.