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Nella parte detta Κατάλεπτον, opere sparse, si capisce che si tratta di un’opera redazionale, l’ultimo
poema è chiaramente tardoantico. Era interessantissimo per gli studiosi ottocenteschi vedere come il giovane
poeta si comportava, ma bisognava anzitutto scovare i testi sicuramente autentici: fino a pochi decenni fa i
filologi si occupavano esclusivamente dell’autenticità delle opere, con alcuni che la sostenevano (Svetonio
riteneva tutte le opere del catalogo di Murbach autentiche, Stazio e Lucano il Culex, altri il secondo poema del
Κατάλεπτον), altri no. Negli ultimi decenni si è diffusa invece la tendenza a cercare falsificati intenzionali e
parodie delle opere virgiliane, in coincidenza col post-modernismo e lo strutturalismo, che prediligevano la
“letteratura al secondo grado”, quella del citazionismo. Occorre rassegnarsi al fatto che non avremo mai prove
definitive della paternità virgiliana.
È invece forse più interessante figurarsi l’immagine di Virgilio che avevano i redattori del testo edito da
Scaligero. Già nel codice di Murbach c’erano testi che non potevano essere virgiliani, e perché non ne parlava
Svetonio, e perché non coincidevano con la vita del poeta (l’elegia funebre per Mecenate non può essere di
Virgilio, che muore 11 anni prima). È più interessante cercare di figurarsi il ritratto dell’artista da giovane,
nonché capire perché Lucano e Stazio consideravano autentico il Culex, opera completamente anticlassicista.
Il testo 8 del Κατάλεπτον parte dalla IX egloga, che si riferiscono alle confische della transpadana dopo la
battaglia di Filippi del 42 a.C.: dopo queste Virgilio sarebbe venuto in possesso della casa dell’epicureo
napoletano Sirone (sappiamo da alcuni papiri ercolanesi regalati nel 1802 da Ferdinando di Napoli a
Napoleone, pubblicati nel 1989, che il poeta era in contatto con l’epicureo Filodemo e con altri, tra cui gli
editori dell’Eneide). Non è chiaro se si tratti di un esercizio scolastico di Virgilio o meno: il testo sarebbe così
una perfetta appendice delle Bucoliche, che hanno parecchi tratti epicurei; la villa di Sirone rappresenta una
variazione sul tema del Titiro.
Il testo 5, riconosciuto autentico anche da Buchner, in coliambi scazonti, ha una stupenda corrispondenza
con Georg. II, dove Virgilio si scaglia contro il materialismo scientifico di Lucrezio parlando di dulces Musae.
Il giovane Virgilio è ancora vicino all’epicureismo, ma usa la stessa formula per descrivere il suo rapporto
ambivalente con le muse: l’addio alla retorica è un topos, ma qui si riferisce ad un preciso tipo, all’asianesimo
(non Achaico verba), la retorica ellenistica di moda, descritta e osteggiata da Cicerone. Narducci descrive
l’asianesimo come manierista, l’atticismo come classicista. Questo testo immagina uno sviluppo del giovane
Virgilio parallelo a quello di Cicerone, che passa da asianesimo ad atticismo; altro grande parallelo tra i due è la
lontananza tra retorica asiana e filosofia (Cicerone dedica postumamente all’asiano Ortensio Ortalo l’opera
filosofica Hortensius; Sant’Agostino afferma di essere stato spinto a studiare la filosofia, da retore qual’era,
proprio da questa opera): entrambi passano alla filosofia dopo aver abbandonato le “Sirene”, le Muse asiane;
anche Boezio si ricorda dell’immagine delle sirene tentatrici e consolatrici.
Il testo 2, citato anche da Quintiliano, tratta di un personaggio noto, Annio Cimbro, che ha ucciso il
fratello avvelenandolo (ne parla anche Cicerone nelle Filippiche): si insinua però con giochi di parole che ciò
che l’ha ucciso non è il veleno ma le parole arcaiche, come se Cimbro fosse un antiquario. Ciò è reso più forte
dalla scrittura del coliambo. Si ricorda anche Tucidide, che aveva una tendenza arcaizzante e viene perciò
chiamato “tiranno della febbre atticista” (gioco di parole sulla descrizione della peste). Μιν e σφιν sono forme
ὐ ῖ
arcaiche di α τόν e σφ σιν , il τ gallico allude ad una certa pronuncia. Quindi, se da una parte il giovane Virgilio
respinge l’asianesimo, qui respinge l’atticismo arcaizzante ed ampolloso. Annio Cimbro è ricordato anche da
Svetonio.
10 novembre: L’Appendix Vergiliana
Esiste una leggenda di un condiscipulatus di Augusto e di Ottavio presso un certo Elpidio: essa emerge dal
Catalepton. Questa opera può essere esaminata come punto di partenza del classicismo latino. Già Svetonio
conosce una lista delle opere minori di Virgilio. Tuttavia, alcune opere “minori” attribuite a Virgilio non sono
conosciute dallo scrittore adrianeo: del Maecenas si ha traccia soltanto a partire dal medioevo e Svetonio,
naturalmente, non ne parla mai in nessun passo. Secondo le fonti, Mecenate si mostrava in pubblico in tunica
sciolta: è segno di un carattere dissoluto e dell’amore che ha per lo stile asiano. L’autore dell’elegia Maecenas
lo difende, però. La spiegazione che viene proposta è l’amicizia di Mecenate con Augusto. Queste critiche
rivolte alla retorica di Mecenate emergono anche nella Vita Vergilii di Svetonio-Donato (44). Si passa ora al
Culex: un pastore addormentato è svegliato da una zanzara che, tuttavia, mordendolo, lo salva dal morso di un
serpente velenoso. Il pastore uccide la zanzara e, vista questa in sogno, esegue gli ordini che essa gli dà:
seppellirla e costituire un tumulo per lei. Al tumulo il pastore appone anche un’epigrafe sepolcrale. Nel corso
dell’opera, molto ci si sofferma sulla vita del pastore, fattore che rassomiglia molto alle laudes vitae agricolae
nelle Bucoliche virgiliane; si presenta un catalogo di molti alberi intorno al tumulo della zanzara che ricordano
molte metamorfosi narrate da Ovidio (pochi, però, sono i riscontri evidenti rispetto alle metamorfosi raccontate
da Virgilio).Il problema che i moderni hanno con questa opera è nel giudizio. Secondo Augusto Rostagni – il
cui giudizio è piuttosto ingenuo – solo Virgilio avrebbe potuto svolgere in modo così pacato, non ridicolo e
delicato le esequie di un insetto. Opposto è il giudizio di Jachmann, che lo reputa uno sgorbio di misera
credibilità. Nel 1749 François Oudin pensa a una soluzione particolare: secondo lui sarebbe esistito un Culex
virgiliano perduto, di cui quello che noi abbiamo è una ripresa fatta da un Vandalo del nord Africa (l’ipotesi
vandala deriva dal fatto che in Africa si costituisce l’Anthologia Latina del Salmasius, oggi forse datata al 541,
che contiene tutta una serie di componimenti costruiti a partire da testi di Virgilio); pertanto, quest’opera
sarebbe una lamentazione per la perdita del Culex e una dimostrazione di tratti barbarici tipici del nord Africa (a
partire dalla spiccata cacofonia dei suoi versi). Nell’ottica di Glenn Most, invece, questo Culex è una sorta di
Virgilio in nuce: prende avvio dalle lodi della vita dei pastori e si conclude con una catabasi sostitutiva di quella
di Enea e, infine, con un epicedio sostitutivo dell’epitaffio per Marcello. Ax, poi, parla di un poeta
schizofrenico, in cui si nasconde lo psicopatico e il falsario. Questo è il motivo per cui si parla di una
schizofrenia del poeta di questo poemetto: non ci sono riprese di Virgilio, e quindi è opportuno preservare la
purezza virgiliana, quasi utilizzando una sorta di insetticida nei confronti di questo poemetto. Filologi come lo
Scaligero, però, ritenevano che il Culex fosse opera virgiliana. Secondo autori come Stazio, poi, è fuori
discussione tutto: il poemetto è senza dubbio virgiliano. La prima testimonianza in favore dell’autenticità di
quest’opera è quella di Lucano tramandata da Svetonio (si confronti la Vita Lucani p. 50 Reifferscheid, dove si
racconta un fatto avvenuto fra il 60 e il 65, anno della morte di Lucano). Secondo Lucano Virgilio compone
questo poemetto tra i 20 e i 25 anni. Dopo la testimonianza di Lucano c’è quella di Stazio: Stazio si riferisce a
Polla – moglie di Lucano – facendo un augurio post mortem all’autore elencandone le opere. Nell’augurio si
parla anche del Culex senza alcun giudizio negativo: anzi, è un modello fondamentale per sino per l’Achilleide.
Sia Lucano sia Stazio sono convinti che egli abbia scritto il poemetto tra i 21 e i 26 anni; 26 anni è la data più
probabile, perché inaugurerebbe la carriera di uno Stazio giovane (in età molto precoce compone questo
Genetliaco). Anche Donato parla di questo poemetto e lo affida a un Virgilio sedicenne, però (anche se alcuni
vorrebbero emendare). Sedici anni, però, è un’età completamente impossibile: il poeta del poemetto, infatti,
conosce molto bene Lucrezio. Si ha poi anche la testimonianza di Marziale: il Culex circola come regalo
scherzoso nel mondo latino. Poi ancora la prefazione delle Silvae staziane: si conosce il Culex così come la
Batracomiomachia, ed è evidente che nella letteratura c’è sempre un recupero del classico stilo remissiore.
Marincic ipotizza di vedere nella Culix una ripresa parodica dell’Iliade: il pastore è Achille, perché una zanzara
(Patroclo) si fa uccidere per lui per salvarlo dal morso di un serpente (Ettore). Dopo la morte, la zanzara si
presenta in sogno al pastore (cf. Hom. Il. 23,62–74.80–81) per ottenere degna sepoltura. Il frammento
preservatoci dell’Achilleide racconta di Achille a Sciro. L’Achille staziano è molto romano e, rispetto a quello
greco, è degradato: il frammento – almeno così come possiamo leggerlo – sembra un recupero elegiaco,
giocoso, più basso dell’Achille tradizionale. Mariancic, però, non concorda affatto con questa visione: la reputa
inaccettabile. Koster, poi, parla di influssi comici: si tratterebbe quasi di un nuovo genere basato su
contraddizioni interne: sarebbe una sorta di epos erotico composto da una serie epilli e di esametri, quasi come
se fossero componimenti gli uni indipendenti dagli altri. In quest’ottica, è come se ci fosse un avvenimento
portante che ne regge una serie di piccoli altri. Quasi tutti i commentatori osservano che Stazio non insiste sugli
acta di Achille, ma sulla sua vita: aderisce in questo modo all’epica che Aristotele però critica nella sua opera.
Stazio insiste sull’amore e sul fatto che accompagna il suo lettore quasi in modo educativo: questo è
sottolineato nell’espressione tota iuvenem deducere Troia, con un ablativo prosecutivo. A questo punto, quindi,
occorre rinvenire Achille in ognuna delle scene della guerra di Troia di cui