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ANE
riforma della filiazione, Napoli, 2014, p. 183.
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novella del 1975 , che ha avuto il merito di aver inaugurato una lunga stagione di
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riforme con l’obiettivo della parificazione tra i figli, modificando la formula
“filiazione illegittima” con la meno denigratoria “filiazione naturale”. Inoltre tale
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legge riconosceva la possibilità di ricercare liberamente le proprie origini
biologiche, mediante l’eliminazione di quei divieti che, proteggendo
incondizionatamente la famiglia legittima, ostacolavano tale indagine. Nel 2006,
poi, con la legge sull’affido condiviso, si è riconosciuto, anche a livello normativo
e dopo la presa di posizione sociale e giurisprudenziale, che la famiglia legittima
non era più il solo modello di famiglia da tutelare, ma vi erano numerose coppie
che decidevano di non ufficializzare la propria unione mediante il rito
matrimoniale, ovvero persone che seppur coniugate decidevano di separarsi o di
divorziare, e si palesava, dunque, la necessità che il legislatore provvedesse alla
protezione di quei fenomeni che prendevano, tecnicamente, il nome di c.d.
“famiglia di fatto” . Nello specifico, le “Disposizioni in materia di separazione dei
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genitori e affidamento condiviso dei figli”, contenute nella l. 8 febbraio 2006, n.
54, hanno inserito il principio di bigenitorialità nel nostro ordinamento, per il quale
il minore ha un interesse legittimo a mantenere rapporti significativi con entrambi i
genitori, anche successivamente alla loro separazione.
Si è giunti, infine, alla riforma del 2012 che, ampliando la sfera di tutela attraverso
la parificazione tra figli “naturali” e “legittimi” ha stabilito l’unica categoria, quella
di figli, con la sola possibilità di differenziazione dettata dal loro concepimento in
costanza di matrimonio o al di fuori di esso.
Varie sono state le novità apportate dalla legge 219/2012 , tra cui, ad esempio,
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l’introduzione dell’art. 315-bis c.c., che attribuisce maggiore valore all’ascolto del
Attuata con l. 19 maggio 1975, n. 151.
5 Con la quale, fino ad allora, il legislatore aveva individuato i figli nati da genitori non coniugati, e che,
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quindi, non avevano ufficializzato la propria unione.
È vero che il legislatore deve tener conto del mutamento della società, ma la scelta di “tipizzare” la
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famiglia di fatto potrebbe sembrare una scelta affrettata e incoerente considerando che all’art. 29 Cost. è
sancito che “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul
matrimonio”.
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minore soprattutto nel corso dei procedimenti che lo riguardino; ha, inoltre,
ampliato la gamma di diritti dei figli nei confronti dei genitori, laddove,
precedentemente, risaltavano maggiormente i loro doveri . Si prevede che i
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genitori debbano decidere di comune accordo la residenza abituale del minore, e la
possibilità per i nonni, qualora esclusi dai rapporti affettivi con i nipoti, non ancora
maggiorenni, di agire in giudizio dinanzi al Tribunale per i minorenni. Queste sono
solo alcune delle novità, a vantaggio del minore, avviate dal moderno legislatore.
La legge 219/2012, all’art. 2, ha delegato al Governo la revisione delle disposizioni
vigenti in materia di filiazione. Questo, infatti, entro un anno dall’entrata in vigore
della legge doveva, mediante decreti legislativi, modificare diverse disposizioni
per eliminare ogni possibile discriminazione tra i figli, anche se adottivi, sulla base
dell’art 30 Cost.
2. La successione dei figli: modo di acquisto della proprietà e funzione sociale alla
luce del dettato costituzionale
Tra le modifiche oggetto di delega il legislatore riformista ha inteso introdurre
anche l’ambito successorio.
Nello specifico, all’art. 2, lett. l) della legge 10 dicembre 2012, n. 219, si delegava
il Governo, tra le altre cose, ad adeguare al nuovo status filiationis la disciplina
delle successioni e delle donazioni .
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La legge si compone di sei articoli. Il primo tratta di modifiche, da subito effettive, che incidono sul
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codice civile, mentre gli altri scandiscono i principi guida per l’esercizio della delega lasciata al Governo
– nello specifico all’art. 2 – e alle modifiche circa l’organizzazione processuale.
È inevitabile il riferimento all’art. 30 della Carta costituzionale, che già prevedeva, ai commi 1 e 3,
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“ogni tutela giuridica e sociale” sia per i figli nati in circostanza di matrimonio, sia per quelli nati al di
fuori di un legame ufficializzato.
Ciò con riguardo anche ai giudizi pendenti, prevedendo “una disciplina che assicuri la produzione di
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effetti successori riguardo ai parenti anche per gli aventi causa del figlio naturale premorto o deceduto
nelle more del riconoscimento e conseguentemente l’estensione delle azioni di petizione di cui gli articoli
533 e seguenti del codice civile”.
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Tradizionalmente, il termine successione indica “il subentrare di un soggetto nella
posizione di un altro soggetto. La successione mortis causa dà luogo a tale
fenomeno, il quale è giustificato dalla morte del precedente titolare” .
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La successione per causa di morte ha subito, nella sua evoluzione storica, diverse
modifiche in tema di tutela della filiazione: infatti, se nel codice del 1865
rappresentava semplicemente un modo di acquisto della proprietà e poche
disposizioni e stretti margini erano riconosciuti per la successione dei figli non
matrimoniali, il codice del 1942, specie alla luce della sua interpretazione secondo
i parametri costituzionali, fa emergere la portata “sociale della trasmissione
generazionale della ricchezza e per certi aspetti affettiva” di tale pratica, che viene
vista come un modo per affidare i propri averi, a specifici soggetti , ai quali si è
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legati da vincoli non soltanto familiari ma da sentimenti personali e relazioni di
affetto.
I figli c.d. naturali, nella visione precedente espressa nel nostro sistema dal codice
post-unitario, erano infatti esclusi dalla successione.
Nei casi in cui la filiazione fosse, invece, stata dichiarata, si prevedeva in favore di
questa una semplice porzione di eredità, pari solo alla metà, di quella prevista per i
figli matrimoniali.
Il figlio naturale era, inoltre, ammesso quale erede esclusivamente nelle ipotesi in
cui il genitore deceduto non avesse avuto altri discendenti legittimi, né ascendenti,
né coniuge .
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Neanche il codice successivo, sebbene avesse attenuato la rigidità con cui erano
trattati i figli non nati in circostanza di matrimonio, era tuttavia riuscito a superare
del tutto tale rigore, almeno fino all’entrata in vigore, nella Repubblica italiana,
della Carta costituzionale (1948).
Il virgolettato è di F. RUSCELLO, Istituzioni di diritto privato, vol. I, pag. 379.
11 Si può dire che si riscopre una sorta di “funzione sociale” del diritto ereditario. Tuttavia, questo è
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ancora basato “su un approccio formalistico e patrimonialistico”. Così A.P. DI FLUMERI, Nuovi scenari
e prospettive del diritto successorio alla luce della riforma della filiazione, cit., ove ulteriore bibliografia.
Art. 747 c.c. vecchia formulazione.
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Le discriminazioni in tema successorio potevano infatti essere superate per il
tramite di principi, quali quelli contenuti negli artt. 2 e 3 Cost., che letti in
relazione alle disposizioni dettate specificatamente in materia di proprietà e di
famiglia, consentivano di riconoscere non soltanto il dovere dello Stato di
proteggere ogni “formazione sociale” – e quindi anche la famiglia di fatto, la quale
rappresenta persone unite da un vincolo affettivo, anche se non ufficializzato – ma
anche il dovere dello stesso di eliminare ogni fonte di discriminazione, in qualsiasi
ambito del vivere sociale.
Nel settore ereditario, la disparità non era ravvisabile solamente nella
nomenclatura di figlio (naturale in contrapposizione a legittimo), ma anche nel
trattamento subito in sede di vocazione all’eredità.
3. La facoltà di commutazione: “termine di bilanciamento” o residuo di
diversificazione?
Istituto emblematico della disparità di trattamento tra i figli in ambito ereditario è
stato a lungo ritenuto la commutazione.
Diversi sono stati gli orientamenti in materia.
La facoltà di commutazione introdotta dal legislatore del 1865 al fine di evitare che
la proprietà familiare potesse drasticamente suddividersi perdendo l’originario
valore, è stata mantenuta dal codice del 1942 per tutelare la famiglia legittima dalle
possibili, quanto incombenti, richieste da parte dei figli naturali, di ottenere parti di
eredità.
Questa, ex art. 537, comma 3, c.c., attribuisce il diritto ai figli legittimi di liquidare
(o, appunto, commutare) in denaro o beni immobili le quote spettanti ai figli
naturali.
Nei casi di opposizione la decisione sarà adottata dal giudice, tenendo conto delle
condizioni personali e patrimoniali dei soggetti.
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Nel 2009, mentre veniva presentata alla Camera dei deputati la proposta di legge 14
mirata ad abrogare definitivamente tale istituto dall’ordinamento italiano,
considerato residuo di discriminazione tra figli naturali e figli legittimi, la casistica
giurisprudenziale, recependo le istanze provenienti dalla realtà sociale, aveva
accolto la necessità di vedere soppresso l’istituto della commutazione, sollevando
questione di legittimità costituzionale .
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Di posizione del tutto contrapposta è stata la Corte costituzionale che, dovendo
giudicare le motivazioni del Tribunale remittente, aveva ritenuto che tale istituto
“non contraddice la menzionata aspirazione alla tendenziale parificazione della
posizione dei figli naturali, giacché non irragionevolmente si pone ancor oggi
(quale opzione costituzionalmente non obbligata né vietata) dei diritti del figlio
naturale in rapporto con i figli membri della famiglia legittima ”, qualificando tale
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facoltà quale modo per ponderare le pretese dei figli naturali senza ledere i diritti
della famiglia legittima.
Tuttavia, la posizione maggioritaria già espressa nel sentire comune ha portato alla
necessità di abolire l’istituto della commutazione; ciò si è realizzato attraverso
l’art. 71, d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, che così ha modificato il comma 2
dell’art. 537 c.c. statuendo che “se i figli sono più, è loro riservata la quota dei due
terzi, da dividersi in parti uguali tra tutti i figli” .
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Il super