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Le immagini digitali
Def. Sono delle matrici di numeri su cui si possono fare conti con algoritmi ottenendo
moltissimi risultati; dunque l’immagine digitale è la rappresentazione numerica di
quella fisica. Possono essere vettoriali o di matrici di punti detti pixel.
L’immagine in bianco e nero è diversa che quella in scala di grigi in quanto la prima
prevede solo i due colori denominati; molte digitalizzazioni degli anni 90 sono in
bianco e nero: pesano pochi byte ma non rappresentano la scena nella sua immagine
reale. Quelle in scala di grigi rappresentano meglio la scena in quanto si vedono le
ombre ecc. dunque danno una resa della realtà più dettagliata. Infine ci sono le
immagini a colori: le prime erano fatte con “palette” di un numero finito di colori
rispetto ad un numero finito, per l’occhio umano, ma infinito di sfumature. L’occhio
umano vede solo una sezione di questa palette. Questo è un problema che ha
allontanato le immagini digitali dall’arte.
Una buona macchina digitale deve avere la propria palette di colore e quella CIE
(internazionale); tra gli scanner ce n’è solo uno che ne ha una propria ed è
complicatissimo. Uno dei metadati amministrativi dovrebbe essere il modello di colore;
Gimp e Photoshop permettono di scegliere la palette di colore con la quale aprire il file.
La palette di colori del web è di 256: è limitatissima. Più complicato ancora è dal
digitale alla stampa dove i colori dell’inchiostro sono limitatissimi. Di un oggetto fisico
si seleziona una parte o delle cose da far vedere o meno. Sul digitale i difetti di vedono
molto di più che sull’analogico in quanto il primo è numerico e dunque limitato. La
Vaticana, che punta alla preservazione e non alla fruizione, realizza digitalizzazioni più
attente e veritiere più vicine alla realtà, ma con la consapevolezza che non sarà mai
uguale.
I formati di file possono essere: chiusi proprietari, non proprietari, aperti non
proprietari. Le prime macchine fotografiche avevano solo i formati chiusi proprietari. I
proprietari aperti sono quelli che in caso di obsolescenza di tale formato ne
permettono la conversione. L’unico formato aperto per le immagini è della NASA e che
è stato adottato anche dalla Vaticana ma privo di colori: è il fits. Dunque avviene un
salvataggio in fits ed in tifs (dell’Adobe: è senza compressione) che ha il colore. I
soggetti normali si affidano ai formati più usati che in caso di obsolescenza avranno un
qualcosa per convertirli nei nuovi formati in uso.
Uno dei problemi delle biblioteche digitali è il dimensionamento (che spazio occupa,
quanto costa mantenere tale spazio sempre in crescita ecc.). Ci si basa dunque sul
“metodo Montecarlo” con un range di minimo e massimo.
Conservazione a lungo termine
I sistemi vivono circa per 5 anni, ma i file di più anche se necessitano una conversione
che non è sempre possibile. La Library of Congress pone i formati standard; nell’ultimo
periodo allarga il conetto della digital preservation alla “digital curation”: si tratta della
creazione del lavoro di preservation tenendo conto del futuro. La coerenza non è solo
nella catalogazione ma anche nella gestione: di fatti si parla di “persistant identify”,
ovvero i dati dei file delle banche dati.
La “disaster recovery” sono sistemi tecnologici pensati per recuperare i dati in seguito
ad un eventuale incidente.
L’ OAIS (Open Archival Information System) ha un’infrastruttura organizzativa, una
tecnologica ed un framework delle risorse: si tratta di un’organizzazione solida
informatica e non impiantata su accordi organizzativi per una continuità del sistema di
almeno 5 anni imponendo così regole e responsabilità organizzative. L’infrastruttura
organizzativa comprende una sostenibilità economica, un’idoneità tecnologica e la
sicurezza del sistema. #1 La scelta della collezione
Si tratta di cosa e come digitalizzare, il tutto basato su scelte attaccate al modello
organizzativo #2 L’infrastruttura tecnologica
Si tratta della scelta dei formati, delle piattaforme open source con formati standard
validi, disporre un repository secondo il modello OAIS ed ISO sull’affidabilità di un
archivio di conservazione digitale.
#3 L’infrastruttura organizzativa
Dei fattori che ne fanno parte, importante è la verificabilità delle procedure che viene
fatta raramente. #4 Le risorse
La tecnologia è un aspetto importante delle risorse.
La legislazione
Il Codice dei Beni Culturali del 2008 prevede, secondo l’articolo 108, che la
riproduzione delle immagini e la loro gratuita distribuzione è permesso, ma prevede
comunque un pagamento a chi fornisce l’immagine delle opere. L’articolo 109, invece,
parla di fotocolor e non di digitale (dovrebbe esser aggiornato); prevede inoltre che
l’ente conservatore conservi l’immagine digitale originale (la fotografia originale fatta
all’opera): interpretandolo, si tratta di un obbligo sulla digital preservation.
I Sistemi Informativi
Database relazionali = def. Si tratta di un archivio per trattare una serie
d’informazioni/dati organizzati per titolo disposti su schede; possono essere
riorganizzati per autore, anno, soggetto, alfabeticamente ecc. In origine vi erano
libroni ed in seguito varie scatole per l’organizzazione degli stessi dati, ma in diversa
maniera. Col computer si trattava di tabelle excel, ma prevedevano la scrittura degli
stessi dati più volte. La soluzione sono stati i database relazionali, scritti in un
linguaggio di base detto SQL, inventati negli anni Settanta, che evitavano la
ricopiatura degli stessi dati più volte e permettevano un’organizzazione diversa. In
seguito sono stati sviluppati i “database in xml nativi”. Si chiamano DBMS e RDBMS
(se relazionali).
Il modello concettuale d’organizzazione è dettato dagli esperti di dominio, con
conoscenza di beni culturali, e dev’essere rispettato dagli informatici.
Nel campo dei database il metadato si chiama “campo”; quando vengono selezionati
bisogna stare attenti che non si ripetano. Il primo tentativo è quello di creare
un’enorme tabella con tutti i metadati in fila; per esempio, nel caso in cui si tratti di
opere di uno stesso autore, ciò che lega la scatola dei titoli delle opere a quella delle
informazioni sull’autore, è proprio il nome dell’autore: basta dunque solo
un’associazione che evita la ripetizione delle varie informazioni. In un database
relazionale si creano tabelle per ogni campo e si associano tra loro.
La scheda dei database prevede una Tupla o Correnza o Record (=riga); ogni attributo
è unico. Quello sottolineato è il campo principale (categoria) o chiave primaria che è
univoco, cioè mai ripetuto, dunque rappresenta tutti gli attributi di quel record. Se
avvengono associazioni sbagliate, si tratta di un database relazionale non corretto.
#1 Raccolta dei requisiti
Individuare gli attributi ed a quale standard di metadati fare riferimento.
1) Il dominio: FOTOTECA (*vedi ICCD scheda F)
#2 Progettazione
Associazioni (sono di tre tipi) possibili tra le schede
#3 Realizzazione
Struttura dei database
*pdf mandb
Tipi di relazioni vincolanti: 1) molti a molti, 2) una a molti e 3) una a uno.
*Tabelle Cuscinetto Maschera
L’interfaccia grafica non corrisponde mai a come funziona un database, ma serve lo
schema fatto da varie tabelle excel non legate tra loro.
Il trattamento delle immagini
E’ basato su una struttura puramente matematica ed informatica.
Per analogico s’intendono diapositive, album ecc. mentre il digitale sono le immagini
tradotte in numeri o pixel; quando si decide di trasformare un archivio da analogico a
digitale bisogna ragionare soprattutto sul dimensionamento del digitale (per fattori
come gestione, costi ecc. *digital preservation).
Filologia digitale = analizzare in maniera più dettagliata l’originale e digitalizzarlo in
modo più dettagliato possibile.
Fondamentalmente noi abbiamo scanner piatti con alta risoluzione: bisogna stare
attenti alla dicitura “interpolato” o “nativo”, ovvero quanto spazio della scena si può
catturare in un pixel; in relazione all’interpolato, il nativo è minore e dunque i pixel
intorno vengono “falsificati” interpolandoli ovvero s’immagina l’intorno con un certo
tipo d’informazioni interpolate (inventate, supposte = falsificate). Vi sono inseguito gli
scanner “planetari”: uno scanner di questi tipo è provvisto di un piano basculante che
permette di non rovinare la rilegatura, poi un vetro con comando a pedale o manuale,
poi un sistema di ripresa con due fotocamere dove una piccolina prende il punto di
bianco ed infine inizia la scansione come uno scanner piano, ma si tratta di un braccio
che scandisce con una luce (quando si muove lentamente è per prendere la maggior
parte dei dettagli); il sistema ha infine un computer con un programma che gestisce la
scansione che numera i file, immagazzina e memorizza (alta produttività, margine di
errore basso); spesso vi è il gira-pagine automatico ed il margine d’errore è maggiore
rispetto ad un lavoro di gira-pagine manuale. Gli scanner planetari sono anche di
grandi dimensioni, per esempio quelli a 0 degli archivi di stato di Milano e Venezia, per
esempio per la scansione delle mappe: questi necessitano un braccio alto e lontano e
dunque un soffitto di 6 metri; il problema è anche che ormai sono vecchi e le lampade
si rompono spesso e non sono facilmente reperibili in quanto si tratta di oggetti degli
anni Novanta che non vengono più prodotti. Dunque le mappe sono nell’archivio
arrotolate, non sono fruibili essendo di 7x10 metri e dunque sono state digitalizzate
ma a pezzi e poi uniti; tuttavia si tratta di digitalizzazioni di molti byte che spesso non
si riescono ad aprire. Oggi sono state compresse in formati come il jpg, ma restano
comunque di grandi dimensioni (x es. 2 gb): per rendere fruibili online si creano i tif
piramidali che “spacchettano” il file compresso in vari pezzi. Le informazioni che il
sistema da sono delle porzioni di video e non si avrà mai la percezione dell’insieme.
Quando si effettuano scansioni a colori da riviste e stampe retinate (tecnica della
retinatura = gocce d’inchiostro di 4 o 5 o 6 colori che mischiati insieme creano la tinta
desiderata), se lo scanner ha una risoluzione molto alta si accorge di queste gocce di
colore diverse e se è interpolato crea dei disturbi ovvero ad occhio nudo si vede
disturbato (= “ditring”): per esempio, le sca