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Macbeth: una Testa Armata, un Bambino Insanguinato, e un Bambino Incoronato, con
un ramo d’albero in mano.
Il teatro di parola si sviluppa, quindi, attorno alla forza evocatrice delle parole stesse,
parole che non richiamano soltanto immagini, ma anche sonorità; e proprio il suono è
l’elemento costituente del teatro radiofonico, che potremmo considerare, per certi versi,
“l’erede” stesso del teatro di parola.
Il dramma radiofonico raggiunge il suo periodo di massima diffusione intorno agli anni
’20, grazie alla diffusione attraverso emittenti come la BBC, e vede uno dei suoi
esponenti più prolifici nel poeta inglese Louis MacNeice; si tratta di un genere
drammaturgico puramente acustico, nel quale le parole sono subordinate alle “parole
come vengono lette”. L’attore radiofonico, a differenza di quello teatrale, deve affidarsi
unicamente alla propria voce, che è il solo mezzo che ha a disposizione, da un lato, per
differenziarsi dagli altri attori, e dall’altro per definire l’autenticità del proprio
personaggio, processo che a teatro viene, invece, facilitato dall’espressività e gestualità
visibile sul palco. Il teatro radiofonico è uno dei pochi mezzi espressivi che “impone” al
pubblico di ascoltare i dialoghi e le parole usate per crearli così come erano state pensate
dal drammaturgo stesso, senza mediazioni o presunzioni sulle intenzioni dell’autore;
basti pensare, per esempio, alle pochissime indicazioni fornite da Shakespeare per le sue
opere, e al lavoro “interpretativo” che si cela dietro a punti “oscuri”; tra i tanti, la famosa
scena del portiere (Macbeth, atto II, scena iii): il messaggio sotteso risultava
probabilmente chiaro al pubblico elisabettiano, ma non altrettanto limpido ai suoi
successori. 3
Se le scene delle opere elisabettiane sono introdotte da un’indicazione spazio-
temporale, la stessa pratica viene mantenuta nel dramma radiofonico, nella forma di un
opening announcement che, sulla scia delle protasi dei poemi classici, anticipa il contenuto e
i temi principali dell’opera. Il teatro radiofonico non tiene in considerazione le unità
aristoteliche di tempo e luogo: scene brevi si possono alternare a scene più lunghe,
attraverso cambi spazio-temporali anche istantanei; l’immaginazione del pubblico non è
invalidata dal contrasto con la realtà, come avviene spesso a teatro. Prendiamo ad
esempio la famosa “scena del pugnale”, uno dei monologhi più famosi del Macbeth:
“Is this a dagger which I see before me, The handle toward my hand?
Come, let me clutch thee- I have thee not and yet I see thee still!
Art thou not, fatal vision, sensible To feeling as to sight?
Or art thou but A dagger of the mind, a false creation, Proceeding from the heat-oppressèd brain?
I see thee yet, in form as palpable As this which now I draw […]” (Macbeth, II, i, 33)
In questo caso, è presente un evidente contrasto tra realtà e immaginazione, tra ciò che
appare alla vista e ciò che viene generato da paure mentali, acquistando una dimensione
concreta (così come accade, analogamente, nell’atto III, scena iv con l’apparizione del
fantasma di Banquo o nella scena i dell’atto IV con l’apparizione del corteo degli otto
re); il pubblico, che si tratti di un pugnale o di fantasmi, viene chiamato a un grande
sforzo immaginativo, essendo “invitato” dallo stesso personaggio a “vedere” qualcosa
che in realtà non esiste, ma non esiste non solo sul palcoscenico, ma anche nella
veridicità della trama della tragedia stessa. Nel dramma radiofonico lo sforzo è minore,
in quanto non si ha un confronto diretto con quello che la scena suggerisce agli occhi,
ma tutto viene chiarito dalle parole, permettendo al pubblico di distinguere ciò che è
pensato o immaginato da ciò che è reale.
Con questo non si vuole passare il messaggio che il teatro radiofonico sia superiore, in
quanto a potenzialità, al teatro classico; l’assenza dell’elemento visivo comporta,
anch’essa, dei limiti, come l’impossibilità di assistere alla rappresentazione di più azioni
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simultaneamente, o alla possibilità di esprimere attraverso un’espressione del viso o un
gesto, i pensieri o lo stato d’animo di un personaggio: viene, insomma, a mancare tutto
quello che rientra sotto l’appellativo di “linguaggio non verbale”, ossia uno degli
elementi caratteristici del teatro stesso.
A questo punto sorge spontanea una domanda: nonostante le differenze tra i due
generi, il teatro radiofonico può essere realmente considerato “l’erede” del teatro
classico?
Louis MacNeice, nell’introduzione alla sua opera The Dark Tower: and Other Radio Scripts
del 1947, ci dà la risposta:
“What the radio writer must do, if he hopes to win the freedom of the air, is to appeal on one plane-
whatever he may be doing on the others- to the more primitive listener and to the more primitive elements
1
in anyone; he must give them (what Shakespeare gave them) entertainment.”
Che il teatro radiofonico sia o meno una “naturale” evoluzione del teatro classico, quello
che possiamo affermare con certezza è che entrambi sono accomunati dalla stessa
finalità: divertire il pubblico. Il divertimento è ciò che ricerca lo spettatore in un’opera
teatrale: così era in epoca elisabettiana, così è oggi, e così sarà, presumibilmente, anche
in futuro.
1 M N Louis, The Dark Tower, Faber and Faber Limited, p.9.
AC EICE 5