vuoi
o PayPal
tutte le volte che vuoi
La disabilità nella logica della separazione
Nell’ambito dell’educazione speciale emergono terminologie molto differenziate a
seconda dell’ottica in cui il problema dell’handicap si colloca, delle aree culturali e
delle soluzioni trovate alla questione in sede istituzionale. Nel linguaggio comune si
usa il termine handicap per evidenziare la difficoltà che deriva da un deficit; pertanto
i portatori di handicap, oggi definiti diversamente abili, sono quelle persone che, in
possesso di un deficit, incontrano difficoltà prodotte non soltanto da questo loro
limite, ma anche dall’interazione con la realtà fisica e sociale circostante.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce handicap una condizione di
svantaggio vissuta da un determinato soggetto a causa di una menomazione o di una
disabilità che impedisce o limita la possibilità di svolgere la funzione che, in rapporto
all’età, al sesso e al contesto socio-culturale di appartenenza, gli è propria.
Agli inizi del secolo scorso si usava il termine “infelice” per indicare una qualunque
disabilità, in seguito il termine si è evoluto con espressioni come invalido, inabile,
mutilato, handicappato, minorato. Il percorso che ha portato all’affermazione dei
diritti civili dei cittadini portatori di handicap è stato molto lungo. Agli inizi del ‘900
questi soggetti erano assimilati ai poveri ed agli atipici ed erano oggetto di
beneficenza e carità privata. Un primo tentativo di “istruzione” per alcuni di loro si ha
con la Riforma Gentile del 1923. Il R.D. 31 dicembre 1923 n°3126 affronta infatti il
problema dell’istruzione dei ciechi e dei sordomuti prevedendo la loro frequenza
obbligatoria in apposite istituzioni scolastiche. La fine della I guerra mondiale lasciò
nel nostro paese un gran numero di reduci mutilati e invalidi per cui lo Stato italiano
si trovò costretto ad avviare una normativa a favore di queste persone. Caratteristiche
fondamentali della legislazione in questo periodo sono:
1. legittimazione della separazione dei portatori di handicap dal contesto sociale;
2. monetizzazione dell’handicap, come risposta ai bisogni ed alle esigenze delle
famiglie con disabili;
3. divisione dell’handicap in categorie.
Dopo la promulgazione della Costituzione, che riconosceva precisi diritti a tutti i
cittadini, e fino agli anni Sessanta, vengono emanati provvedimenti che riguardano
ciascuno una specifica categoria di portatori di handicap ed uno specifico intervento.
Anche la scuola soggiace alla logica della separazione. La riforma della scuola media
inferiore del 1962, Legge n°1859, all’art.12 contempla classi differenziali per “alunni
disadattati scolastici”, mentre la legge 18 marzo 1968, n°444, istitutiva della scuola
materna statale, prevedeva sezioni o, per i casi più gravi, scuole speciali per i bambini
dai 3 ai 5 anni affetti da disturbi dell’intelligenza o del comportamento o da
menomazioni fisiche o sensoriali. Queste scuole speciali erano generalmente gestite
non solo dallo Stato italiano, ma anche da privati o da religiosi. Abbinate, spesso, a
istituti dove i giovani disabili entravano, ancora piccolissimi, lasciando la loro
famiglia e il proprio paese. Qui i giovani crescevano con molte cure che miravano a
far acquisire loro l'autonomia della persona; per anni e anni vivevano solamente con
altri disabili. Solo pochissimi giovani erano ritenuti "educabili": fra questi la quasi
totalità erano disabili con deficit visivo, uditivo e raramente motorio. Quelli non
educabili erano destinati a vegetare negli istituti fino al termine dei loro giorni. La
contestazione giovanile del sessantotto, che mise in discussione tutta
l’emarginazione, e le battaglie condotte da Basaglia contro l'"istituzione totale"
portarono in luce le condizioni in cui vivevano questi ragazzi nelle scuole speciali". I
dibattiti, gli interventi, le battaglie condotte dai disabili e dalle loro associazioni
testimoniano che quegli anni furono veramente gli anni della speranza o dell’ utopia
egualitaria portata avanti con il solo desiderio di concretizzare anche per loro il
dettato costituzionale, cioè la realizzazione di una scuola di tutti e di ciascuno, una
scuola che fornisse a tutti pari opportunità e garantisse il diritto al lavoro. Una
particolare importanza la rivestì, in quel periodo, il libro "Lettera ad una
professoressa" scritto dai ragazzi che frequentavano la scuola di Barbiana.
La scuola di Barbiana era la scuola dove il ragazzino disabile sedeva al posto d'onore:
vicino a don Milani, il priore di Barbiana. Scrivono i ragazzi "Abbiamo visto
anche noi che con loro (i disabili) la scuola diventa più difficile: qualche volta viene
la tentazione di levarseli di torno. Ma se si perde loro, la scuola non è più scuola è un
ospedale che cura i sani e respinge i malati, diventa uno strumento di differenziazione
sempre più irrimediabile".