vuoi
o PayPal
tutte le volte che vuoi
Il primo paragrafo:
Jefferson si ispirò in particolare al preambolo, scritto da lui stesso, della Costituzione della Virginia
e alla prima Dichiarazione dei diritti della Virginia, scritta da George Mason. Entrambi i testi erano
recentissimi e si ispiravano al Bill of Rights inglese del 1689.
Il linguaggio della Dichiarazione affonda le sue radici nella filosofia del senso comune scozzese, ben
nota in America e di cui Jefferson era seguace. Qui, secondo gli studi recenti dobbiamo trovare il
significato del primo paragrafo della Dichiarazione e in particolare delle ‘verità di per sé evidenti’
che ne costituiscono il nucleo portante. Ciò che rende queste verità di per sé evidenti è il senso interno
di cui ognuno è dotato e che gli consente di comprendersi immediatamente come io. Questo senso
interiore dà lo original feeling che ci fornisce in modo immediato la percezione che il fine primario
della vita è l’autopreservazione, da perseguire attraverso la protezione dei diritti naturali individuali
(le verità di per sé evidenti) affidata a un governo costituito per difenderli.
Il testo della Dichiarazione si inserisce anche nel filone del pensiero politico di Locke, pur con le
dovute precisazioni. Da Locke, Jefferson prende la costruzione filosofico-politica, per quanto
Jefferson si sia distaccato dalla profonda fede cristiana, sostituendola con quella nel <<Dio della
1
natura>> (teologia naturale) e per quanto i fondamenti filosofici del giusnaturalismo siano stati
modificati dagli sviluppi settecenteschi. Queste modifiche sono intese non a sovvertire ma a
difendere, secondo criteri ritenuti migliori, le basi contrattualiste e giusnaturaliste del documento.
Anche la sostituzione del diritto di proprietà con quello alla ricerca della felicità non contrasta con il
sistema del filosofo inglese. Infatti, anche se per Locke la felicità non è un assoluto, come la vita e la
libertà, bensì qualcosa verso cui si tende a causa dell’antitetica presenza di piacere e dolore nella vita
umana; si tratta però pur sempre di un fine necessario all’uomo, una ricerca facilmente leggibile come
che rende conto dell’influsso del pensiero lockiano sulla
diritto naturale. Altro elemento
dell’individuo a entrambi. In entrambi i casi, l’intreccio tra sensismo, diritti
Dichiarazione è il modello
naturali e uguaglianza serve a combattere un’altra forma di naturalità, quella che Locke identifica con
il diritto divino del re, che fa dei singoli i membri di strutture sociopolitiche gerarchiche
immodificabili perché naturali. In Locke e nella Dichiarazione l’individuo è una costruzione teorica
che serve a distruggere la teoria che a legittimare i governi sia un qualche fondamento ontologico di
natura gerarchica, per sostituirvi l’idea che farlo è invece la libera e uguale volontà dei singoli. Tanto
il pensiero di Locke quanto la Dichiarazione sono anti-autoritari e anti-tradizionalisti. Perché pongono
la responsabilità morale degli individui al centro della costruzione dei governi legittimi.
In questo modo, sia la filosofia scozzese del senso interno che il pensiero politico di Locke lavorano
politico ordinato incentrato sull’idea di
insieme nella Dichiarazione per far nascere un universo
popolo, cioè su una comunità di individui che hanno accettato le <<verità di per sé evidenti>> e che
in questo modo sono diventati capaci di autogoverno, vale a dire sovrani. È un universo in cui la lotta
tra tirannia e libertà sussiste perché la libertà è minacciata da chi non riconosce le verità di per sé
evidenti e mira a farsi tiranno e per le colonie inglesi in Nord America quel tiranno è re Giorgio III.
1 Per giusnaturalismo o dottrina del diritto naturale (dal latino ius naturale, «diritto di natura») s'intende la corrente di
pensiero giusfilosofica che presuppone l'esistenza di una norma di condotta intersoggettiva universalmente valida e
immutabile, fondata su una peculiare idea di natura, preesistente a ogni forma storicamente assunta di diritto positivo
(termine coniato dai medievali, derivato dal greco thésis, tradotto in latino come positio; e, appunto, positivum riproduceva
letteralmente il senso greco del dativo thései, riferentesi al prodotto dell'opera umana) e in grado di realizzare il miglior
ordinamento possibile della società umana, servendo «in via principale per decidere le controversie fra gli Stati e fra il
governo e il suo popolo».
La Dichiarazione è quindi un gesto creatore che colloca il nuovo popolo e il suo strumento politico,
gli Stati Uniti d’America, nell’ambito della lotta degli uomini per la difesa della libertà.
Oltre a questa dimensione retorica e musicale, la Dichiarazione ha anche un’altra dimensione,
l’architettura classica
collegabile alla passione di Jefferson non più per la retorica ma per e la
Quest’architettura si basa sul
geometria. sillogismo, un sillogismo che Jefferson erige perché sia usato
confronti del re d’Inghilterra
come strumento di diritto costituzionale per il popolo americano e nei
e di diritto internazionale verso altri popoli. L’argomentazione sillogistica, con il suo movimento che
si snoda da una proposizione all’altra, serve da cerniera fra il ritmo musicale e la geometria
architettonica del ragionamento giuridico, ed è anche il tratto più immediato e penetrante della
complessa struttura del documento. Questo sillogismo è evidente specialmente nel primo paragrafo
della Dichiarazione, dove si pongono le basi della filosofia del senso comune e della retorica dei
sentimenti. Esso si fonda sui principi della sovranità popolare, della natura consensuale e pattizia del
governo, dei diritti naturali dell’individuo, del diritto del popolo e dei poli alla rivoluzione, principi
di per sé evidenti e quindi immediatamente comprensibili secondo un principio di appropriazione
diretta del loro contenuto di verità. L’uso di un linguaggio naturale facilita tale appropriazione, che è
il modo corretto del conoscere secondo Jefferson, un conoscere che è proprio di tutti gli uomini, del
popolo, rendendolo soggetto e protagonista. In questa prima parte, allora, il popolo sovrano non è
solo posto come principio filosofico di per sé evidente ma nasce concretamente dalla partecipazione
a un comune modo di conoscere e si distingue da chi non accetta questo modo comune di conoscere.
Per questo gli americani possono sciogliere i vincoli che li hanno finora legati al popolo britannico
(= perché questo non riconosce le verità di per sé evidenti).
Il secondo paragrafo:
Costruita la tesi e creato il popolo americano, la Dichiarazione muove avanti. in questa sezione si
abbandona la filosofia per il diritto e quella che si legge è un vero atto di accusa diretto a sostanziare
i principi generali posti nella prima parte, esponendo torti e crimini subiti. Un tale passaggio
presuppone evidentemente l’individuazione del colpevole, re Giorgio III. Finora i coloni avevano
sempre accusato il Parlamento inglese, seguendo la tradizione giuridica europea secondo la quale il
re non è mai colpevole. Questo salto di qualità nelle colonie si deve alla pubblicazione e circolazione
di un pamphlet che ebbe straordinaria fortuna, Common Sense (1776) di Thomas Paine. In questo suo
libello Paine aveva accusato il re di tirannia e aveva incitato gli americani a liberarsene, spingendo i
coloni a pensare l’impensabile.
La seconda parte della Dichiarazione costituisce una macchina argomentativa in cui si sommano
entrambi componenti necessarie dell’atto politico che si sta
diritto e performance, compiendo.
Le accuse a Giorgio III rappresentano un regicidio simbolico. Considerare il re ancora padre dei suoi
sudditi nonostante la natura costituzionalmente limitata del suo potere, significava nel 1775 difendere
la metafora della comunità come famiglia, tanto più che non vi era un re con il quale sostituire il
deposta. L’unica alternativa era la repubblica, su cui, dopo l’esperimento cromwelliano, era scesa sul
mondo politico inglese una spaventata damnatio memoriae. Non a caso questa seconda sezione della
Dichiarazione fu discussa con ferocia sia da rivoluzionari americani che dai lealisti che dagli inglesi.
Questi ultimi evidenziarono la genericità di molte accuse, specialmente la prima, difficilmente
riconducibile a una fattispecie precisa e quindi irricevibile e contestarono, inoltre, la veridicità di
almeno altre tre accuse.
In realtà, Jefferson e il Congresso scelsero consapevolmente di affiancare a fatti concreti dichiarazioni
generali che nell’esperienza di ciascuno potevano richiamare altri fatti e convincere così il popolo
americano e il mondo imparziale a vari livelli, empirici, giuridici, ideologici e simbolici della politica,
della necessità di un atto inaudito. Così facendo, essi costruirono questa seconda sezione su blocchi
di eventi che molta della popolazione giudicava dispotici e che troviamo di fatto utilizzati in altri
documenti. Nel giugno del 1776, la Dichiarazione riprende questo corpus di accuse al re, le amplia
ma non le inventa né nei contenuti né nel significato profondo, inconsciamente vissuto dagli
americani.
Questo elenco di accuse al re è costruito secondo un preciso crescendo che va da imputazioni politiche
generali o riconducibili alla disputa costituzionale e politica con l’Inghilterra degli anni Sessanta, ad
altre relative a fatti recenti, sempre di natura costituzionale, fino a eventi terribili, che configurano
una volontà non solo dispotica ma addirittura distruttiva nei confronti dei suoi sudditi e delle società
da essi fondate. Ciò rende necessario l’impossibile: pensare all’indipendenza dopo un regicidio,
almeno simbolico. Il pensiero è talmente impossibile che la Dichiarazione, al termine della sua
seconda parte, afferma sì che un tale tiranno è <<indegno di governare un popolo libero>>, ma va
motivo giuridicamente più solido, trovandolo nell’affermazione che il re ha
anche alla ricerca di un
abdicato. Tale abdicazione viene motivata con un argomento di origine feudale: il re, dichiarando
ingiustamente ribelli le colonie, le ha illegalmente private della sua protezione e viene quindi meno a
un dovere primario, dal punto di vista del diritto feudale, della costituzione inglese e del contratto
sociale di stampo moderno e lockiano. In questo senso, gli atti del re sono distruttori del legame
giuridico con i suoi sudditi perché li gettano illegalmente fuori del rapporto politico e civile del regno
di Inghilterra e contemporaneamente tendono a distruggerne fisicamente le società