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Riesce, ad esempio, a smettere di fumare per diverse ore, “ma
un sapore innocente quale doveva sentirlo il neonato, mi venne il desiderio di una sigaretta”. È
impaziente di dimostrare a suo padre appena morto che è “innocente”, che non è stato lui a
ucciderlo. Una notte si sente “innocente” perché, dopo essere stato con l’amante, torna a casa
sentivo molto innocente perché non l’avevo tradita restando
dalla moglie prima del solito: “Mi
lontano dal domicilio coniugale per tutta la notte”. Dunque compie la parodia della confessione e
dell’espiazione. Confessando alla moglie di non aver provato per la figlia appena nata alcun
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affetto, si sente subito meglio: si addormenta infatti con la coscienza pulita.
Montale accennava all’ “ateismo sorridente e disperato” degli scrittori internazionali di questi anni
Ricerca del tempo perduto
(a Joyce, Svevo, Mann e Proust, la cui aveva cominciato ad apparire nel
Coscienza
’13, perché i lettori francesi della pensarono di tirare subito in ballo anche questo nome,
per altro da Svevo stesso sgarbatamente collocato lontano da sé). Credo che la conclusione del
libro motivi a sufficienza l’ “ateismo disperato” sottinteso alla prospettiva apocalittica di
distruzione del mondo e della vita ad opera dell’uomo. In un altro luogo del libro si fa cenno al
cristianesimo delle origini, ma in termini non suscettibili di restituire a chi legge l’apertura su
dimensioni trascendentali. Per Svevo comunque non si dà un messaggio di salvezza al di là della
sopravvivenza del mondo. Ma è davvero la disperazione che soprattutto connota l’ateismo
sveviano? Se si pensa che egli ipotizza una terra senza uomini, andando ben oltre le ecatombi
Su Monte Mario, Ciocco
cosmiche di altri scrittori di fine secolo ( il Carducci di il Pascoli del ad
esempio), le quali ammettevano la permanenza di uno o più uomini dopo la distruzione del
mondo, c’è davvero da credere di sì.
Svevo rappresenta, in un certo senso, la logica fusione di due diverse concezioni della vita: quella
religiosamente pessimistica di Agostino e quella ateisticamente pessimistica di Schopenhauer. La
moglie lo descrive come un uomo malinconico, sensibile al dolore e alla caducità della vita. Svevo
soffrì molto nel corso della sua esistenza: il fratello Elio morì nel 1986, a ventitré anni, di nefrite; la
sorella Noemi morì d’infezione perperale; un’altra sorella, Ortensia morì di peritonite; un’altra
sorella ancora, Natalia, diede alla luce due figli sordomuti; infine, nel 1918, poco prima di iniziare
la stesura di Zeno, suo cognato Alfonso morì in seguito a una malattia del cuore. Tutte queste
contribuito a rendere Ettore pessimista e quasi rassegnato ai più
sventure, scrive Livia: “avevano
duri colpi del destino. Egli stava sempre in attesa del peggio”.
Questo aspetto si riflette anche nel suo terzo romanzo: a un certo punto della storia, infatti, Zeno
cerca di impressionare Ada raccontandole quanto abbia sofferto per la morte del padre. Poco
dopo dichiara che nel caso avesse avuto dei figli avrebbe fatto in modo che essi lo amassero di
meno per risparmiare loro di soffrire altrettanto per la sua “dipartita”. Alberta intelligentemente
mezzo più sicuro sarebbe di ucciderli”.
osserva: “Il Ada in seguito afferma che non le pare giusto di
11 Ibid., pg. 91.
12 Ibid., pg. 93. 5 e asserii
vivere soltanto per prepararsi alla morte. Allora Zeno reagisce energicamente: “M’ostinai
che la morte era la vera organizzatrice della vita. Io sempre alla morte pensavo e perciò non avevo
che un solo dolore: la certezza di dover morire”. Dunque si tratta di vivere per prepararsi alla
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morte, ma senza voler morire.
Allargando il campo dei riferimenti, si può gettare uno sguardo sul contegno di Zeno nel mondo
degli affari, utilizzando la categoria marxistica dell’alienazione, si nota subito che non è applicabile
in alcun modo. Zeno conduce un tenore di vita agiato e comodo; anzi, vive di rendita, e se lavora,
lo fa per compiacere al cognato, non pretendendo dalle sue prestazioni compenso alcuno.
Insomma, è al riparo di qualunque disagio che provenga dalla produzione del capitale; né, d’altro
lato, può dirsi partecipe dello sfruttamento di esso. Anche da questo punto di vista la condizione di
Zeno Cosini non è trascrivibile secondo “parametri scientifici” che la denuncino, e peggio ancora,
la colpevolizzino. C’è un che di superfluo nel rapporto di Zeno col denaro, ma non per questo lo
scrittore gliene fa una colpa. Analogamente si comporta davanti ad alcune operazioni della Prima
Guerra Mondiale che investono la sua città, Trieste. Le esercitazioni militari turbano l’abitudine di
bere il caffelatte alla mattina, ecco tutto: ma non per questo Svevo rinuncia ad affrontare il reale
Disagio
problema che questa guerra suscita: e che aveva dettato a Freud le memorabili pagine del
della civiltà. Concludendo il suo libro Svevo ipotizza una futura guerra distruttiva per tutto il
genere umano; ciò lo rivela straordinariamente attento alle ragioni oggettive che rendono
impossibile la salute nella società borghese. Dopo aver ironicamente affermato che la vita
un poco alla malattia come procede per crisi e lisi ed ha i giornalieri miglioramenti e
“somiglia
peggioramenti. A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure.
Sarebbe come voler turare i buchi che abbiamo nel corpo credendoli delle ferite. Morremmo
strangolati non appena curati”, inaudita prodotta dagli
egli conclude ipotizzando una “catastrofe
ordigni”, che forse farà recuperare al mondo la salute, salvo poi precisare che “quell’esplosione
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enorme che nessuno udrà” farà tornare la terra a errare priva di qualsiasi forma di vita. Dunque il
messaggio finale che Zeno, dichiarandosi ormai guarito, lascia ai suoi lettori è fortemente
pessimistico: egli prevede che gli uomini, travolti dalla loro stessa stoltezza, si lanceranno in una
folle corsa all’autodistruzione. In un futuro non lontano la nostra terra sarà così liberata dalla
presenza dell’umanità e purificata da tutti i mali, reali o immaginari, ad essa collegati.
Inquinamento, sovra-popolamento, guerra battericida, catastrofe nucleare: tutto si può vedere
Coscienza di Zeno.
nell’apocalittica conclusione della Svevo è pervenuto a questo esisto, che
solleva il libro ad un’altezza di testimonianza sinora imprevedibile, ritornando a giovanili letture
darwiniane e rigettando la presunzione freudiana di riformare in meglio l’uomo.
Una larga dose d’ironia circola in tutto il libro, ed è in prima istanza riversata su chi eventualmente
pretenderebbe di analizzare scientificamente il materiale dei ricordi di Zeno: il Dottor S. della
Prefazione. Ma l’ irrisione alla fin fine colpisce lo stesso personaggio narrante, sì che diventa
difficile accettarla come operante solo in un senso unico, dal narratore verso il suo primo
destinatario; dal paziente, che non vuole essere tale, al medico che è convinto della di lui malattia.
Il terzo romanzo sveviano è stata una delle opere più studiate e analizzate della nostra letteratura,
anche soprattutto in merito al fatto che la sua ambiguità e la sua ironia (due caratteri-chiave del
modo di raccontare di Svevo) hanno dato vita a letture e interpretazioni polivalenti diverse.
Secondo James Wood, La coscienza di Zeno è il grande romanzo della moderna illusione comico-
Don Chisciotte Buon soldato
patetica della libertà e appartiene alla tradizione comica che, dal al
13 Ibid., pg. 92.
14 La coscienza di Zeno,
Italo Svevo, pg. 474-475. 6
Sc’vèjk, si basa sull’incongruità tra le nostre idee e la realtà oggettiva. Dunque il romanzo si muove
tra i diversi poli della comicità: tra lo spettacolo tonificante della vanità e la triste prospettiva di un
io imprigionato che si comporta come se fosse libero, elemento quest’ultimo ulteriormente
esasperato dal fatto che il romanzo è raccontato in prima persona. L’io narrante è, come abbiamo
visto, Zeno Cosini, un uomo d’affari triestino di quasi sessant’anni, che su sollecitazione di uno
psicoanalista racconta in uno scritto la sua vita precedente. Questa narrazione è fantastica, come
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la sua mente, e per questa ragione egli è un narratore altamente inaffidabile. Questa è una delle
particolarità che contraddistinguono il testo sveviano.
Nella maggior parte dei romanzi un narratore inattendibile tende a diventare un po’ prevedibile,
poiché spesso deve essere inaffidabile in modo affidabile: tale caratteristica del narratore è,
infatti, manipolata dall’autore. Anzi, senza l’affidabilità dello scrittore non saremmo in grado di
“riconoscere” l’inaffidabilità del narratore.
Il fatto che dopo qualche pagina impariamo a ridimensionare le affermazioni di Zeno e a credere
quasi il contrario di quello che dice, determina in parte l’effetto comico del paziente che “oppone
resistenza” alla nostra diagnosi accurata. Noi lettori diventiamo gli analisti di Zeno: quanto più egli
afferma di essere forte, tanto più si dimostra debole; quanto più ci dice che abbandonerà il fumo o
la sua amante, tanto meno siamo disposti a fidarci di lui; quanto più egli cerca una causa organica
alle sue molteplici malattie, tanto più lo prendiamo come un ovvio esempio di malato
immaginario. A rendere più complicata la lettura del testo, interviene la correzione di Svevo, che
perfeziona magistralmente la tecnica della narrazione inaffidabile in due modi. In primo luogo,
Zeno prova a essere sincero sul proprio conto, riuscendoci più di una volta. Egli, così facendo,
concepisce le sue memorie come una confessione. In secondo luogo, il protagonista crede che la 16
stesura dei propri ricordi lo abbia aiutato ad analizzare con distacco, e quindi a curare, sé stesso.
Questo elemento ci porta a una novità tecnica apportata nel terzo romanzo di Svevo, consistente
nell’uso della narrazione in prima persona, o meglio del resoconto personale scritto a fini
psicoterapeutici, che automaticamente esclude sia il giudizio del narratore sul personaggio, sia la
possibilità per il lettore di aver accesso alla verità dei fatti narrati. Questi vengono totalmente
filtrati dalla “coscienza di Zeno”, che rilegge a distanza di tempo il proprio passato, scegliendo a
suo piacere che cosa dire e che cosa tacere. Solo attraverso il montaggio dei materiali è quindi
po