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l’impossibilità concreta di un comportamento diverso da quello tenuto dall’autore del fatto
che costituisce reato.
Il fatto appartiene alla persona che agisce, è suo proprio o suo personale, se si manifesta
come una sua scelta.
La cosciente volontà rappresenta anche naturalisticamente psicologico tra l’agente
imputabile ed il fatto commesso e costituisce la base del giudizio di responsabilità
orientato personalisticamente.
Nel loro orientamento verso il giudizio di responsabilità penale dell’imputabile, il concetto
di dolo e quello di colpa si specializzano: il dolo proietta la condotta aggressiva verso
l’offesa perché la volontà approva il suo oggetto; la colpa vizia l’agire concreto perché la
volontà nonostante che disapprovasse il suo oggetto non si è applicata per migliorare la
risoluzione operativa in modo da escludere la realizzazione dell’offesa prevedibile. La
condotta dolosa è manifestazione della volontà di ledere: la condotta colposa è
manifestazione dell’asociale indifferenza verso la lesione degli interessi altrui.
Questa nozione di colpevolezza derivata dalla concezione formale di reato è essa stessa
formale formale. Questo approccio da luogo ad una sterilizzazione del concetto di
colpevolezza, che viene a consistere solo nella forma del legame psicologico tra autore e
fatto.
Inoltre, la concezione formale permette di superare i problemi dell’errore scusabile della
cui disciplina non potrebbe beneficiare il non imputabile, se si ritiene che non possa agire
con vero dolo o con vera colpa; e dell’errore inevitabile di diritto, dalla cui generalizzazione
il non imputabile non dovrebbe essere escluso, come invece sarebbe conseguente sulla
base della premessa che, escludendo che il non imputabile possa agire con vera colpa,
escluderebbe anche la possibilità di accertare l’assenza di colpa relativamente
all’ignoranza o all’errore di diritto del non imputabile.
b) La colpevolezza in senso sostanziale. Imputabilità come presupposto della
colpevolezza
Il concetto sostanziale di colpevolezza esprime il rimprovero per il cattivo uso
dell’imputabilità che è stato fatto da chi sia autore di un reato: solo chi è capace di
intendere e volere può rendersi conto e rendere conto, in quanto colpevole, di ciò che ha
fatto. La normalità del volere è la misura della colpevolezza e consente di graduare il
rimprovero e conseguentemente di quantificare la responsabilità in termini di
commisurazione della pena. La concezione materiale della colpevolezza non considera,
dunque, il legame psicologico tra autore e fatto come isolato e incondizionato
dall’imputabilità: al contrario, l’imputabilità assurge in questa concezione al ruolo di
presupposto della colpevolezza. La colpevolezza è sempre un predicato della volontà ma
nella concezione materiale solo nei confronti di chi è capace di intendere e volere ha
senso parlare di antidoverosità della volontà perché solo l’imputabile può avere coscienza
del dovere e quindi essere caapce di colpevolezza.
La volontà antidoverosa è una volontà che non doveva esserci ed è questa la
colpevolezza caratteristica dei reati dolo; oppure una volontà che doveva esserci e che
non c’è stata ( quella che avrebbe potuto evitare il reato colposo).
L’elemento dell’imputabilità è concepito come presupposto della colpevolezza e ciò causa
lo slittamento dell’imputabilità dalla posizione esterna al reato a quella interna, come
componente dell’elemento oggettivo. Di reato in senso proprio si può parlare solo in
presenza dell’imputabilità e il reato non imputabile non può essere considerato vero reato.