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La principale giustificazione di un intervento umanitario è sempre stata di tipo etico, basato su
principi morali prevalenti su qualsiasi norma esistente. La stessa corte internazionale di giustizia ha
riconosciuto la base giuridica di importanti norme internazionali, ad esempio la repressione del
genocidio, su considerazioni di umanità e moralità. Nelle convenzioni di Ginevra del 1949 e i
relativi protocolli del 1977 è inoltre presente una clausola, detta clausola Martens, che sancisce
l'obbligo di rispettare queste considerazioni elementari di umanità e moralità. Ne consegue che
quindi la protezione dell'essere umano si fonda su principi giuridici fatti propri da ogni
ordinamento, compreso quello internazionale.
3. Il possibile riconoscimento nell'ordinamento internazionale di forme di garanzia collettiva
per le violazioni di obblighi erga omnes
Alcuni valori comuni riconosciuti dalla comunità internazionale nel suo insieme hanno una
superiorità gerarchica rispetto agli interessi dei singoli stati. La violazione di obblighi erga omnes,
posti a difesa di quei valori che la comunità ritiene fondamentali, legittimerebbe il ricorso a forme
di garanzia collettiva; in sostanza, tutti gli stati sono investiti di una norma di recente formazione
che prevede la difesa uti universi di determinate norme o valori essenziali (tra queste norme rientra
la tutela dei diritti fondamentali), in nome o per conto della comunità stessa. Di conseguenza si può
intendere l'intervento umanitario come contromisura per la violazione di obblighi erga omnes, che
potrebbe altresì implicare l'uso della forza, in maniera ragionevole, indirizzata esclusivamente al
conseguimento di obiettivi prefissati.
4. Il progetto di codificazione sulla responsabilità internazionale. Il richiamo alle norme
imperative. Il regime previsto per la violazione di obblighi assunti rispetto alla comunità
internazionale nel suo insieme. I soggetti legittimati a far valere forme di responsabilità. La
portata dell'art. 54 del progetto e le misure legittime di reazione
Qualsiasi stato è legittimato ad avanzare richieste miranti al rispetto degli obblighi erga omnes.
Come previsto dall'art. 1 comune alle quattro convenzioni di Ginevra del 1949, e come espresso
dalla corte internazionale stessa, per ogni stato sussiste un obbligo vero e proprio di adoperarsi
affinché il diritto internazionale umanitario sia sempre applicato e garantito, in ogni luogo,
circostanza e tempo. L'art. 33 precisa che può sussistere una responsabilità internazionale se vi è la
violazione di un obbligo sorto nei confronti di uno stato, di un gruppo di stati o della comunità
internazionale. La vaghezza di questo testo si presta ad interpretazioni flessibili, tali da poter
ricomprendere al suo interno anche persone ed enti non statali.
L'art. 48 afferma che uno stato non direttamente leso può invocare può invocare la responsabilità di
un altro stato qualora l'obbligo violato di questo sia sorto nei confronti di un gruppo di stati, a
protezione del suo interesse collettivo, oppure nei confronti di della comunità internazionale nel suo
insieme (ad es. violazione degli accordi regionali di tutela dei diritti umani).
L'art. 54 consente a tutti gli stati, anche se non materialmente lesi dal non rispetto di una norma
internazionale, di adottare delle misure legittime, e quindi non delle contromisure, al fine di far
cessare la violazione ed ottenere una riparazione per conto dello stato materialmente leso, a patto
che queste misure o sanzioni siano state preventivamente concertate o oggettivamente accertate.
5. L'esimente dello stato di necessità come norma generale. La portata dell'art. 25 del progetto
di codificazione sulla responsabilità internazionale. L'applicabilità dell'esimente
all'intervento umanitario
Si può rilevare l'esistenza di una norma consuetudinaria che legittimerebbe un soggetto
internazionale ad intervenire in caso di necessità ponendo in essere un comportamento altrimenti
illecito, se sussiste un grave pericolo imminente che minacci un suo interesse essenziale. Per
legittimare uno stato di necessità necessita che siano rispettate alcune condizioni:
non vi devono essere altri mezzi disponibili leciti, anche se più gravosi per la difesa
dell'interesse essenziale;
la limitazione della norma deve limitarsi allo stretto necessario;
non possono essere violate norme imperative e quelle poste a tutela dei diritti fondamentali
delle persone;
la situazione di pericolo non deve essere stata causata dal soggetto che si trova nella
imprescindibile esigenza di reagire, in maniera proporzionale, per cercare di contrastare il
verificarsi del danno.
Un intervento armato può essere legittimato adducendo uno stato d'emergenza, cioè rispetti le
quattro condizioni appena elencate? Non esiste una norma chiara al riguardo, anche se l'art. 25 della
carta amplia le possibilità di giustificazione di un intervento umanitario, altrimenti illecito, nel caso
in cui uno stato voglia tutelare gli interessi essenziali della comunità internazionale nel suo insieme
(quindi una norma che preveda obblighi erga omnes). Un caso esemplare è quello dell'intervento
NATO nei Balcani del 1993: Il Belgio aveva invocato lo stato di necessità per salvaguardare i diritti
umani, valori superiori rispetto al divieto dell'uso della forza. Il Belgio aveva addotto motivazioni di
carattere non individuale ma ascrivibile alla Comunità internazionale nel suo insieme.
Comunque, secondo la dottrina, in situazioni eccezionali che vedano violati su larga scala i diritti
umani è possibile intervenire senza bisogno del consenso del Consiglio di sicurezza ONU o dello
stato in cui si è verificata la crisi.
6. I dubbi sull'esistenza di una norma generale di recente formazione per legittimare gli
interventi umanitari. Il ricorso ad una nuova formula nel linguaggio diplomatico sulla
responsabilità di proteggere
Nella comunità internazionale quindi sta crescendo un interesse al riguardo di un valore che non
può rimanere senza tutela: si adduce la formazione di norme consuetudinarie di recente formazione
o quantomeno una prassi tendenzialmente favorevole per legittimare interventi umanitari,
specialmente nei casi in cui si miri a prevenire un genocidio.
Comunque, a prescindere dall'incertezza delle norme al riguardo, si ritiene che la maggior parte
degli stati sia contraria ad accettare ulteriori eccezioni al divieto di uso della forza.
Esiste nella prassi una tendenza a legittimare l'intervento umanitario senza il consenso del Consiglio
di sicurezza, a patto che nell'intervento umanitario non ci siano intenzioni di pregiudicare l'integrità
territoriale o l'indipendenza di uno stato. Quindi si preferisce parlare non di diritto di intervento ma
di responsabilità di proteggere i diritti umani fondamentali; questo cambio di terminologia è
funzionale alla giustificazione di interventi umanitari con usi molto limitati della forza.
Nei parr. 138 e 139 del documento intitolato World Summit Outcome, adottato dall'Assemblea
Generale nel 2005, si fa un esplicito riferimento alla responsability to protect. Viene conferito a
ciascuno stato l'obbligo di proteggere la propria popolazione e prevenirne la commissione o
l'incitamento di atti di:
genocidio;
pulizia etnica;
crimini di guerra e/o contro l'umanità.
In caso di mancata osservanza di quest'obbligo, e solo dopo aver esperito tutti i possibili mezzi
diplomatici, umanitari e pacifici possibili previsti dai capitoli VI e VIII della della Carta ONU, gli
stati membri sono liberi di intraprendere azioni collettive risolute su iniziativa del Consiglio di
sicurezza, limitate comunque nelle disposizioni previste dal capitolo VII della Carta.
Tuttavia occorre ricordare che un obbligo solidale di intervenire è già previsto dall'art. 1 comune
delle quattro convenzioni di Ginevra e ribadito dall'art. 89 del primo protocollo e
dall'interpretazione della Corte Internazionale di Giustizia: l'obbligo di rispettare e di far rispettare,
con tutti i mezzi possibili e giuridicamente ammissibili, le disposizioni della Carta ONU, del diritto
internazionale e del diritto internazionale umanitario, incombe su tutti gli stati in maniera solidale.
7. La promozione e la protezione dei diritti umani nell'ambito delle NU. La preminenza da
accordare, in via interpretativa, a questi obiettivi rispetto al divieto di uso della forza
Nell'art. 1, ai punti 3 e 55, viene previsto per gli stati un obbligo di promuovere e incoraggiare il
rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzione di sesso, religione,
idee politiche, differenze linguistiche e razziali.
In caso di inerzia del Consiglio di Sicurezza vi sarebbe una sostanziale gestione autonoma da parte
degli stati degli obblighi detti erga omnes: in caso di loro violazione, per una consuetudine di
carattere generale, tutti gli stati sarebbero autorizzati ad utilizzare la forza unilateralmente. In questi
casi la reazione sarebbe disciplinata direttamente dal diritto internazionale generale, come la crisi
del Kosovo dimostra (si trattava di contrastare la pianificazione e l'organizzazione di violazioni
gravissime dei diritti umani su larga scala. In conclusione, l'uso della forza potrebbe essere vietato
solo in caso di violazioni episodiche e non generalizzate dei diritti umani.
La prassi
1. La mancanza di indirizzo unitario e coerente nella prassi degli Stati. Il frequente richiamo,
prima del 1990, all'istituto di legittima difesa anche in presenza di gravi crisi umanitarie
Data quindi la mancanza di una norma ben precisa al riguardo, è possibile delineare, grazie alla
prassi, una norma generale in grado di legittimare tale tipo di intervento, prendendo come unico
punto di riferimento l'atteggiamento avuto dagli stati?
Si nota subito che, nella prassi, manca un indirizzo di azione, unitario e coerente, che possa
legittimare l'esistenza di obblighi generalmente riconosciuti:
alcuni stati sono intervenuti per proteggere loro cittadini in situazioni di pericolo all'estero,
invocando l'art. 51 della carta dell'ONU, considerando questi cittadini come elementi
essenziali della propria sovranità, al pari del territorio;
alcuni stati sono intervenuti per ristabilire nell'ordinamento statale altrui alcuni principi
democratici ritenuti fondamentali che erano stati violati (nonostante il diritto internazionale
non si curi dei diversi tipi di regime politici esistenti nei singoli stati).
Nel corso dell'Ottocento, gli interventi degli stati europei contro l'Impero ottomano si proponevano
soprattutto la difesa dei propri interessi politici ed economici, anche quando si