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Il codice privilegia il principio della liberà delle forme: gli atti processuali, sia di parte che del
giudice, possono astrattamente assumere la forma più idonea al raggiungimento del loro scopo
(art. 121 cpc).
Il principio che vige, nell’ambito del processo, è quello della libertà delle forme. Naturalmente vi
sono delle ipotesi in cui è il codice stesso a dirci quale debba essere la forma rivestita dall’atto:
quando occorre decidere il merito della controversia oppure, quando occorre decidere una
questione pregiudiziale o preliminare che possa definire il processo, la forma da adoperarsi è
normalmente quella della sentenza. La sentenza è il provvedimento per antonomasia a carattere
decisorio.
Quando ci siamo occupati del ricorso straordinario per Cassazione abbiamo detto che la sentenza
non è l’unico atto del processo a carattere decisorio: vi possono essere anche altri provvedimenti,
che formalmente assumono la denominazione di ordinanza o di decreto ma che, sostanzialmente,
hanno il contenuto decisorio della sentenza. Ciò non li sottrae al rimedio, necessario, previsto
dall’articolo 111 Costituzione che è il ricorso in Cassazione per violazione di legge.
D’altro canto vi sono delle ipotesi in cui è la legge stessa che prevede che provvedimenti
normalmente decisori che dovrebbero rivestire i caratteri della sentenza assumono la forma
dell’ordinanza: per esempio il provvedimento col quale il giudice di merito si dichiara incompetente,
oppure dichiara la connessione, litispendenza, continenza, sospensione del processo per
pregiudizialità necessaria ai sensi dell’articolo 295. Sono tutti provvedimenti che assumono la
forma dell’ordinanza e, prima della riforma del 2009 assumevano la forma della sentenza, che
sono impugnabili con regolamento di competenza necessario.
D'altronde anche il provvedimento che chiude il procedimento sommario di cognizione, ai sensi
dell’articolo 702 bis e seguenti, assume la forma dell’ordinanza. Il codice dice che questa
ordinanza è appellabile davanti alla corte d’appello come se fosse una sentenza.
Non dobbiamo, quindi, convincerci che la forma astrattamente assumibile o concretamente
assunta dall’atto o dal provvedimento del giudice ne determini automaticamente il regime di
impugnabilità. O che, comunque, il rimedio debba essere escluso tutte le volte in cui il
provvedimento non assume la forma della sentenza perché, come abbiamo detto a suo tempo,
proprio il principio di libertà delle forme degli atti del processo impone di valutare sempre la
sostanza del provvedimento del giudice anche, se del caso, a dispetto della sua forma.
Il codice inserisce una serie di previsioni che riguardano il contenuto della sentenza, dell’ordinanza
e del decreto in ordine alle quali si rinvia lettura.
Stiamo parlando degli articoli 156 e seguenti, collocati sotto il capo dedicato proprio alla “nullità
degli atti”.
Bisogna agganciare il regime di invalidità degli atti processuali al discorso sulle invalidità in genere
degli atti, in particolare sulle invalidità sostanziali. Il regime delle nullità degli atti del processo è
certamente autonomo ma da un lato non esaurisce il tema delle nullità degli atti del processo e,
dall’altro lato, impone un confronto con la disciplina delle invalidità di diritto sostanziale.
Non possiamo prescindere da questo perché rischieremmo di non comprendere fino in fondo in
che cosa le invalidità processuali si distinguono da quelle sostanziali.
Il diritto privato conosce due fondamentali categorie di invalidità, nullità ed annullabilità. Questo è
un regime che fa prevalente riferimento all’invalidità contrattuali ma può estendersi a tutti gli atti del
diritto sostanziale. Ogni tanto, nell’ambito del diritto sostanziale, si parla anche di inesistenza ma,
nell’ambito del diritto privato, la categoria della nullità assorbe il profilo dell’inesistenza.
Il processo conosce l’unica categoria delle nullità. Non conosce la categoria degli atti
annullabili.
Vi è, invece, la categoria dell’inesistenza degli atti: se ne parla per esempio con riferimento al
secondo comma dell’articolo 161, cioè all’ipotesi della sentenza che manca della sottoscrizione del
giudice cioè non riferibile ad un organo giudiziario. Si parla anche di inesistenza con riferimento a
quei gravissimi vizi della notifica degli atti che rendono la notifica stessa inesistente: le notifiche
degli atti del processo sono inesistenti quando gli atti vengono consegnati a soggetti che non sono
in alcun modo riferibili al destinatario effettivo della notifica. Parlandosi in tutti gli altri casi di vizi
della notifica di nullità.
Perché il diritto sostanziale conosce la doppia categoria ed il diritto processuale ne conosce una
sola? Qual è la ragione per la quale è opportuno, in un caso, sdoppiare il profilo dell’invalidità e,
nell’altro caso, tenerlo unito in un’unica categoria?
In realtà il discorso si intreccia strettamente con quello relativo all’efficacia/inefficacia degli atti: di
fronte ad un atto sostanziale o processuale invalido, quindi nullo o annullabile, possiamo anche
porci il problema della sua efficacia perché non è detto che l’atto invalido sia anche inefficace. Ciò
rileva sia nel diritto sostanziale sia il diritto processuale.
Nell’ambito del diritto sostanziale esistono atti invalidi ed efficaci ed atti invalidi e, allo stesso
tempo, inefficaci. Cioè atti che nascono efficaci anche se sono invalidi e atti che nascono invalidi e
sono inefficaci. Il tutto si collega, ancora una volta, al discorso della differenza tra atto nullo ed atto
annullabile.
Nell’ambito del processo, invece, esiste solo la categoria della nullità. Bisogna chiedersi se essa
rispecchia l’idea dell’atto annullabile o dell’atto nullo; se cioè gli atti processuali nascono invalidi
ma efficaci oppure se, quando sono invalidi, nascono anche inefficaci.
Una risposta in linea di principio: gli atti del processo nascono per raggiungere uno scopo. Se
poi lo scopo non è raggiunto essi diventano invalidi. La tensione originaria di un atto processuale
non è, in realtà, quella della invalidità ma è quella dell’efficacia. Tutti gli atti del processo anche se
posti in essere con forme diverse da quelle che la legge assegna se sono idonei al raggiungimento
dello scopo o, meglio ancora, raggiungono in concreto lo scopo hanno una efficacia che è anche
misura della loro validità.
Quindi la validità dell’atto del processo si misura anche in relazione all’efficacia concreta che esso
ha avuto laddove per efficacia si intende il raggiungimento dello scopo. Se il destinatario della
notifica nulla ha ricevuto l’atto e va nel processo difendendosi, la nullità ha carattere relativo.
La dimensione in cui vive l’atto del processo è, quindi, quello della sua effettività. E il tema della
invalidità rileva nella misura in cui l’atto non ha raggiunto il suo scopo: allora dobbiamo andare a
verificare se e come l’atto è invalido, come questa invalidità si è trascinata nella sequela
procedimentale, se e come questa invalidità è fatta valere nei gradi successivi del giudizio fino a
poter, addirittura, inficiare l’intero giudizio. In questo soccorrono le norme degli articoli 156 e
seguenti.
1. A riguardo delle invalidità degli atti del processo il diritto vivente si indirizza sempre di
più verso la valorizzazione delle formule di sanatoria, soluzioni che smitizzano la
valenza invalidante delle nullità e privilegiano l’effettività del processo e del suo scopo, cioè
le tutele di merito. Il diritto vivente si muove sempre di più verso la direzione per la quale
l’invalidità dell’atto ha una sua valenza nel momento in cui si produce; se poi il processo va
avanti e nessuno solleva la questione di nullità, arrivando in Cassazione non è possibile
sollevare la questione che, magari, si è prodotta nel primo grado di giudizio. Orientamenti
che tendono non ad eliminare ma a sminuire l’invalidità degli atti del processo privilegiando
l’effettività del processo;
2. Gli articoli 156 e seguenti non esauriscono il novero delle nullità processuali. Queste norme
si riferiscono alle nullità degli atti cosiddette formali, cioè alle nullità che derivano dalla
violazione di vizi di forma degli atti e dei provvedimenti del processo. Non c’è dubbio che
gli articolo 156 e seguenti si riferiscano soltanto ad un certo, tradizionale comparto
delle invalidità processuali e cioè le nullità per vizi di forma degli atti del processo.
3. Oltre alle nullità formali vi è il comparto delle nullità extraformali del processo. Si
introduce un discorso che non fa parte della tradizione delle nullità come ce le
aspetteremmo, anche dal diritto sostanziale: le nullità extraformali sono vizi del processo
che non riguardano il rispetto delle forme del processo; semmai riguardano il rispetto dei
presupposti del processo o del rispetto delle condizioni della domanda. Per cui di nullità
extraformali si parla oggi anche per dire che il processo è stato incardinato davanti al
giudice non munito della giurisdizione dando origine ad un processo nullo. E’ un processo
nullo non per mancato rispetto delle forme degli atti del processo ma perché il processo è
stato iniziato e si è svolto davanti ad un giudice che non ha il potere di decidere. Si
riferisce, insomma al mancato rispetto dei presupposti e delle condizioni della domanda,
salvo gli effetti del giudicato interno.
Gli articoli 156 e seguenti vengono richiamati ed applicati tutte le volte in cui ci troviamo di fronte a
vizi formali, a nullità formali che partono come vizi dell’atto e possono diventare nullità del
processo. Mentre le nullità extraformali partono come nullità del processo e tali rimangono.
Pertanto la categoria delle nullità processuali riguarda le nullità formali degli atti del
processo e le nullità extraformali!
LEGGE art. 156 cpc: il primo comma esprime il principio di tipicità delle nullità formali. Il secondo
comma esprime il principio del raggiungimento dello scopo.
In sostanza il sistema delle nullità formali è congeniato nel senso che, in linea astratta, le nullità
sono un fenomeno giuridico salvo che non operi il principio del raggiungimento dello scopo avendo
l’atto una sua effettività.
Più che di sanatorie qui si pone un problema di dinamica del process