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POPOLO. UN POPOLO DEVE INNALZARSI VERO LA LIBERTÀ. È UNA BENEDIZIONE
CHE DEVE VENIR GUADAGNATA PRIMA DI POTER ESSERE GODUTA.
L’ironia suprema era che a pagare quello splendore architettonico erano i contribuenti indiani.
Chiaramente, prima di conquistarsi la libertà, gli indiani dovevano continuare a pagare per il
privilegio di essere governati dagli inglesi.
Era un privilegio che valeva la pena pagare? Gli inglesi lo davano per scontato.
È vero, l’indiano medio si era arricchito durante il dominio inglese, e gli indiani sarebbero stati
meglio sotto l’Impero moghul? O sotto gli olandesi, o sotto i russi?
La realtà è che il nazionalismo indiano era alimentato non dall’impoverimento dei molti ma dallo
scontento dei pochi privilegiati che si vedevano respinti.
D’altro canto si può sostenere che alla fine del diciannovesimo secolo, e con buona pace di Curzon,
l’India non era più quel gioiello indispensabile che era stata negli anni Sessanta dell’Ottocento, non
rappresentava più la somma totale del potere britannico. Altrove nel mondo una nuova generazione
di imperialisti aveva raggiunto la maggiore età, uomini convinti che se l’Impero voleva
sopravvivere, se voleva essere all’altezza delle sfide del nuovo secolo, doveva espandersi in nuove
direzioni.
Ai loro occhi, l’Impero doveva rinunciare alla pompa e ritrovare le radici previttoriane: per entrare
in nuovi mercati, stabilire nuove colonie e, se necessario, combattere nuove guerre.
La mitragliatrice Maxim
Nel volgere di pochi anni, mentre il diciannovesimo secolo cedeva al ventesimo, l’atteggiamento
inglese nei confronti dell’Impero passò dall’arroganza all’inquietudine. Gli ultimi anni di ragno di
Vittoria furono un periodo di hybris. Ma prima ancora che la regina imperatrice morisse la nemesi
colpì. L’Africa vibrò all’Impero un colpo inatteso e doloroso.
E la rivale più ambiziosa della Gran Bretagna non tardò a cogliere l’opportunità.
Dal Capo al Cairo
Alla metà del diciannovesimo secolo l’Africa era l’ultimo spazio vuoto nell’atlante imperiale del
mondo. A nord del Capo i possedimenti britannici si limitavano all’Africa occidentale. Tuttavia nel
volgere di soli vent’anni, diecimila regni tribali africani vennero trasformati in quaranta Stati in
tutto: l’intero continente era sotto una o l’altra forma di dominio coloniale europeo. Di questo, circa
un terzo era britannico.
La chiave della straordinaria espansione dell’Impero nel tardo periodo vittoriano è data dalla
combinazione di forza di fuoco e forza economica. Una combinazione incarnata in modo perfetto in
Cecil Rhodes.
Nell’ottobre 1888 Rhodes si trovò nella necessità di avere un appoggio finanziario per un nuovo
progetto africano, e sapeva perfettamente a chi rivolgersi. La battaglia del fiume Shangani nel 1893
fu la prima in cui la Maxim venne usata. All’intero territorio venne dato il nuovo nome di Rhodesia.
La creazione di una sua nazione personale era soltanto una componente di una molto più vasta
«politica imperiale» di Rhodes. Su una enorme carta geografica dell’Africa egli tracciò una linea
che andava da Città del Capo al Cairo. Era il progetto della più perfetta ferrovia imperiale. In tal
modo egli sognava di sottomettere tutto il continente africano al dominio britannico. Fra l’altro
l’intera campagna di Rhodes non era costata nulla ai contribuenti inglesi, poiché era stata
combattuta da mercenari al soldo dello stesso Rhodes e pagata dagli azionisti delle British South
African e De Beers Companies. In sostanza, il processo di colonizzazione era stato privatizzato: un
ritorno ai primi giorni dell’Impero, quando compagnie commerciali in regime di monopolio
avevano portato il dominio inglese dal Canada a Calcutta.
Rhodes non era il solo a pensarla così. Anche George Goldie vedeva in quella chiave
d’interpretazione e nelle potenzialità della mitragliatrice Maxim il passepartout della sua società e
dell’Impero. I politici lasciavano dunque che fossero gli uomini d’affari a fare il lavoro, ma prima o
poi entravano in campo per costruire un vero e proprio governo coloniale.
In sostanza, l’Africa sarebbe stata governata allo stesso modo dei principati dell’India: con i sovrani
africani già esistenti in funzione di sovrani-fantoccio e una presenza britannica minima.
Questa tuttavia è soltanto metà della storia e della corsa all’Africa. Mentre infatti Rhodes operva
verso nord da Città del Capo, e Goldie operava verso est dal Niger, i politici britannici operavano
verso sud dal Cairo. E lo facevano in larga misura perché temevano che altrimenti lo avrebbe fatto
qualcun altro: i francesi.
È in verità impossibile capire la corsa all’Africa senza individuarne i precedenti nella perenne
contesa tra le grandi potenze per conservare, o modificare, il proprio equilibrio di potere in Europa e
nel Vicino Oriente.
Un punto nevralgico in questo senso fu l’Egitto, in cui la politica della condivisione non sarebbe
durata a lungo. Gladstone si era violentemente opposto alla politica di Disraeli nel Vicino Oriente, e
nel 1882 gli inglesi occuparono il Cairo. Appena occupato l’Egitto, gli inglesi cominciarono a
rassicurare le altre potenze che la loro presenza era soltanto un espediente temporaneo, e ripeterono
questa assicurazione non meno di sessantasei volte tra il 1882 e il 1922. Formalmente, l’Egitto
continuava ad essere indipendente. In pratica però era governato dalla Gran Bretagna, come un
«protettorato occulto».
L’occupazione dell’Egitto aprì un nuovo capitolo nella storia imperiale. In molti modi diede il via
alla corsa all’Africa. Dal punto di vista delle altre potenze europee era ormai imperativo agire, e
farlo anche in fretta, prima che i britannici conquistassero l’intero continente.
Il più grande gioco di Monopoli della storia stava per cominciare, e l’Africa era il tavolo su cui si
sarebbe giocato.
Questo dividersi a pezzi un continente non era nuovo nella storia dell’imperialismo. Sinora, il futuro
dell’Africa aveva interessato soltanto la Gran Bretagna, la Francia e il Portogallo. Ma adesso
c’erano tre altri giocatori: il regno del Belgio, il regno d’Italia e l’impero di Germania.
Il cancelliere tedesco Otto von Bismarck convocò una grande conferenza sull’Africa, che si svolse a
Berlino fra il 15 novembre 1884 e il 26 febbraio 1885. Apparentemente, la Conferenza di Berlino
doveva garantire il libero commercio in Africa. Ma l’autentico scopo era quello di definire a quali
condizioni potessero venire riconosciute future annessioni territoriali in Africa.
Si trattava di un vero e proprio patto fra ladri: uno statuto per la divisione dell’Africa in «sfere
d’influenza». E la divisione del bottino cominciò senza indugio. Ma il significato della Conferenza
andava ancora più in là. Oltre a tagliare a fette un continente come una torta, raggiungeva
brillantemente lo scopo essenziale di Bismark: sfruttare la rivalità tra Francia e Gran Bretagna. A
dire il vero gli inglesi si lasciarono doppiamente ingannare dal cancelliere tedesco, perché la loro
reazione iniziale post-Berlino fu di dargli tutto quello che voleva in Africa.
Nell’agosto 1885, Bismark inviò quattro navi da guerra a Zanzibar e chiese che il sultano cedesse il
suo impero alla Germania. Quando le navi lasciarono Zanzibar un mese dopo, i territori erano stati
ordinatamente ripartiti tra la Germania e la Gran Bretagna, lasciando al sultano una striscia costiera.
La storia si ripeté in tutta l’Africa: capi ingannati, tribù private delle loro terre, eredità cedute con
un’impronta del pollice o una croce tremolante e qualsiasi resistenza falciata dalla mitragliatrice
Maxim. Ad una ad una, le nazioni africane vennero soggiogate.
All’inizio del nuovo secolo la spartizione era completa. I britannici avevano praticamente realizzato
la visione di Rhodes di un possedimento ininterrotto da Città del Capo al Cairo.
L’Africa era ormai quasi tutta in mani europee, e la parte del leone la faceva la Gran Bretagna.
La «Greater Britain»
Nel 1897 l’anno del giubileo di diamante, la regina Vittoria regnava suprema al vertice del più vasto
impero della storia: l’Impero britannico copriva circa il 25% della superficie mondiale e controllava
più o meno la stessa percentuale di popolazione. Non c’era da stupirsi se gli inglesi cominciavano a
credere di avere il diritto divino di governare il mondo.
La Gran Bretagna era anche il banchiere mondiale che investiva somme enormi in tutto il mondo.
In ogni caso, non tutto l’Impero era formalmente sotto il dominio britannico: le mappe
sottostimavano l’estensione della potenza imperiale. L’enorme quantità di capitale investito
nell’America latina per esempio, dava tanta forza alla Gran Bretagna, soprattutto in Argentina e in
Brasile, che sembra quasi legittimo parlare per questi paesi di «imperialismo ufficioso». Anche gli
accordi commerciali spinsero vasti settori dell’economia mondiale ad accettare il libero mercato.
Gli inglesi stabilirono anche il sistema monetario internazionale e nel 1908 il gold standard era
diventato in pratica il sistema monetario globale. E nella sostanza era basato sulla sterlina. Forse
l’aspetto più notevole di questo vastissimo impero era quanto costasse poco difenderlo.
Gli inglesi tuttavia conoscevano troppo bene la storia per compiacersi pigramente della loro
posizione egemonica. In molti si attendevano con angoscia il declino e la caduta del loro impero.
Poteva l’inevitabile declino della sua potenza venire fermato? C’era un uomo che pensava di sì.
Si trattava di John Robert Seeley, che nel 1883 pubblicò il best seller L’espansione dell’Inghilterra.
Pur riconoscendo la vastità dell’Impero britannico, Seeley ne prevedeva un declino imminente se si
fosse continuato nell’atteggiamento distratto nei confronti dell’imperialismo.
La Gran Bretagna doveva trarre vantaggio da due fatti irrefutabili: primo, i sudditi britannici nelle
colonie avrebbero presto superato il numero di quelli in patria; secondo, la tecnologia del telegrafo e
del vapore permetteva di unirli come non era mai stato possibile prima.
Il suo appello a una più stretta unione dei legami tra la Gran Bretagna e le colonie bianche
anglofone era musica per le orecchi di una nuova generazione di imperialisti.
Joseph Chamberlain fu il primo uomo politico autenticamente e consapevolmente imperialista. La
sua idea di un federalismo imperiale era la strada da seguire, anche se avrebbe richiesto
compromessi