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Settecento in particolare vide un susseguirsi di esplosioni di violenza navale e militare tra le potenze
europee rivali, con la Francia, la Spagna e la Gran Bretagna nel ruolo dei principali aggressori. Non
è un caso che la serie di guerre che scoppiarono fra i maggiori rivali nella corsa europea
all’espansionismo non si combatterono nello scenario europeo, ma in larga misura in quello
coloniale.
Fu contro i francesi che i britannici si trovarono sempre più spesso impegnati in azioni belliche. Tra
il 1680 e il 1815 ci furono ben sette guerra anglo-francsi, la più decisiva delle quali fu
probabilmente la guerra dei Sette anni, che terminò nel 1763. La Gran Bretagna acquisì nuovi e
importanti possedimenti, ma ad un costo elevato. La guerra lasciò infatti la Gran Bretagna
vulnerabile in una delle sue più importanti regioni coloniali, l’America.
Nondimeno l’impero britannico si ampliò in misura considerevole grazie ai territori acquisiti con il
trattato di Parigi del 1763 che concluse la guerra e che significò una sorta di spartiacque: mentre
prima di esso l’impero britannico era organizzato e acquisito in modo preminente a fini
commerciali, dopo il 1763 la vastità e l’eterogeneità dei possedimenti imperiali aumentarono il
ruolo e il peso della politica rispetto a quello dell’economia.
La colonizzazione del «Nuovo Mondo»
Ad alcuni primi esperimenti coloniali tentati alla fine del Cinquecento in quella che ora è la
Virginia, e molto più a nord in Terranova, fecero seguito nel secolo successivo insediamenti che si
rivelarono ben più durevoli.
Nel corso del Seicento sempre più emigranti lasciarono la Gran Bretagna, alcuni in cerca di lavoro,
altri di terra e altri ancora di libertà religiosa nelle colonie americane. Tali colonie vennero fondata,
e inizialmente popolate, in larga misura da bianchi che avevano liberamente scelto di emigrare, e
ciò ha portato a caratterizzare la colonizzazione dell’America come una realtà riconducibile
all’emigrazione più che alla conquista. Questa versione è corretta solo se si sceglie di ignorare tre
rilevanti gruppi umani: i deportarti e i braccianti indentured, i popoli nativi americani e il crescente
numero di schiavi.
Gli effetti della colonizzazione sulle popolazioni amerindie furono devastanti: il più notorio fu
l’impatto delle malattia precedentemente sconosciute e importate dall’Europa. Le nuove forme di
sfruttamento della terra e le recinzioni dei terreni alterarono inoltre considerevolmente col tempo
l’ecologia locale. Anche l’introduzione delle armi da fuoco europee ebbe effetti destabilizzanti, col
risultato di inasprire fra l’altro anche i conflitti intertribali.
Se la popolazione amerindia si ridusse drasticamente in termini numerici nel Sei e Settecento in
seguito al contatto con gli europei, quella dei colonizzatori crebbe invece rapidamente. I primi
emigranti erano prevalentemente bianchi, giovani e celibi. Più tardi l’emigrazione coinvolse intere
famiglie, e nel 1759 il territorio comprendeva già tredici colonie.
Cosa rendeva le colonie americane così attraenti? Certamente i puritani ebbero un ruolo preminente
nella storia iniziale delle colonie americane. Fra Sette e Ottocento le colonie divennero note come
luoghi in cui le piccole sette religiose potevano fiorire indisturbate: una situazione decisamente
diversa da quanto accadeva in Gran Bretagna
La libertà religiosa tuttavia fu solo una delle ragioni per cui l’insediamento colonizzatore ebbe tanto
successo in America. Queste colonie offrivano infatti merci che non erano disponibili in
madrepatria.
La terra fu forse il fattore più importante dello sviluppo economico coloniale, oltre che una fonte di
notevole attrito fra i coloni attirati dalla sua inesauribile disponibilità e dal suo basso costo e i
popoli nativi.
Anche se la terra era una considerevole attrattiva, almeno la metà di tutti gli emigranti che
sbarcarono in America nel Sei e Settecento non erano giunti come futuri proprietari terrieri ma
come braccianti ingaggiati con un contratto di indenture, legati cioè per un periodo stabilito a un
padrone che, oltre a rimborsare il costo della traversata, garantiva loro vitto e alloggio per la durata
del contratto.
Mentre questioni quali difesa e tassazione, entrambe destinate a divenire il principale oggetto del
contendere nelle lotte che avrebbero portato all’indipendenza, rimanevano nelle mani del governo
imperiale di Londra, le assemblee locali delle colonie avevano il potere di approvare leggi
specificamente applicabili alla realtà locale. Era il controllo del commercio che stava a cuore a
Londra, e fu solo quando commercio e politica entrarono in conflitto che i politici britannici
cominciarono a mostrare attenzione per le questioni di governo delle colonie americane.
La costante crescita della popolazione coloniale dell’America settentrionale diede un forte impulso
a questo sistema, rendendo le colonie continentali sempre più importanti, ma anche sempre più
insofferenti rispetto alle limitazioni imposte dalla Gran Bretagna ai loro scambi commerciali. A
metà secolo esse erano ormai passate dal ruolo di unità economiche relativamente insignificanti a
quello di mercati vitali.
La guerra dei Sette anni ebbe senza dubbio riflessi negativi sulle colonie americane. Da un lato, con
la crescente frustrazione coloniale di fronte alla rapacità fiscale britannica, dall’altro con il profondo
risentimento suscitato non solo dalla presenza di un crescente numero di guarnigioni distaccate
nelle colonie, ma dal fatto di essere per giunta tassati per mantenerle.
Oltre al sospetto generato per la presenza di truppe britanniche e al risentimento di fronte a quelle
che consideravano palesi disparità economiche, c’era anche l’irritazione dei coloni di fronte alle
restrizioni politiche. Le assemblee elettive erano spesso ostacolate dai governatori coloniali
nominati dalla corona e leali ad essa. Nel 1766 un Declaratory Act simile a quello approvato nei
confronti dell’Irlanda sancì il diritto del Parlamento britannico di imporre alle colonie qualsiasi
tassa ritenesse opportuna. Nonostante questa enfatica dichiarazione, tuttavia nel 1768 quasi tutti i
dazi erano stati aboliti. Solo il dazio del tè era stato mantenuto, e questo si sarebbe rivelato fatale.
Il risultato del Tea Act fu il famoso «Boston Tea Party» del 16 dicembre 1773.
Molti americani rimasero sbigottiti di fronte all’estremismo di questo gesto, ma il dato più
conflittuale fu la risposta di Londra.
Non solo i britannici chiusero i porti per ritorsione, privando così dei mezzi di sostentamento molti
che nulla avevano a che fare con quell’aggressione, ma il parlamento londinese impresse un giro di
vite ai diritti civili e politici delle colonie.
In questa atmosfera astiosa e difficile si tennero i due Congressi continentali del 1774 e del 1776, e
nel corso di quest’ ultimo venne firmata la Dichiarazione d’indipendenza.
Alla fine del 1781 era evidente che i britannici non avrebbero potuto vincere questa guerra.
L’ostilità venne dimenticata mano a mano che il commercio riaffermava la propria logica e la
perdita delle colonie americane ebbe un effetto del tutto marginale sulla prosperità dell’ex
madrepatria.
Perché allora la guerra di Indipendenza americana è considerata così importante? Per certi versi
perché spostò il punto focale dell’interesse imperiale britannico verso altri orizzonti geografici,
perché fu una delle pochissime sconfitte che la Gran Bretagna subì nel Settecento, perché si trattava
di una guerra fra connazionali, perché la perdita dell’America e il crescente interesse per le colonie
asiatiche rese l’impero britannico molto meno anglofono e protestante, molto meno bianco e molto
meno dotato di autogoverno.
Non tutte le colonie atlantiche vennero comunque perse nel 1783. I coloni americani lealisti spesso
fuggirono a nord verso le colonie canadesi, rimaste fedeli alla corona, che divennero un’importante
arena di sperimentazione di governance coloniale. Il paese poneva tuttavia alcuni problemi spinosi,
dato l’alto numero di francesi e cattolici presente nella sua popolazione. Per i britannici il
cattolicesimo era ancora sinonimo di slealtà.
In realtà, spesso trascurato nelle storie dell’espansione coloniale, il Canada fu un’importante arena
di sperimentazione politica mentre l’impero si avviava alla sua maturità nell’Ottocento.
Dopo l’America
Alla fine del Settecento, pur avendo perduto buona parte delle sue colonie nordamericane, la Gran
Bretagna era una grande potenza coloniale. Dopo un secolo di guerre ricorrenti aveva consolidato la
sua supremazia fra le potenze coloniali europee grazie, almeno in parte, alla potenza navale.
Con la perdita delle colonie americane e il declino dell’importanza di quelle caraibiche, gli interessi
imperiali cominciarono a spostarsi dall’Atlantico al Pacifico e all’Asia.
Le nuove settler colonies bianche dovevano essere molto diverse sul piano politico da quelle delle
tredici colonie americane. Già nel 1860 l’Australia e la Nuova Zelanda disponevano come quelle
canadesi di una forma di «autogoverno responsabile».
Il più famoso dei navigatori-esploratori britannici di questo periodo fu il capitano James Cook,
l’uomo che scoprì l’Australia e nel 1788 iniziarono i primi insediamenti coloniali. E se la terra di
destinazione poteva offrire anche vantaggi navali e commerciali, lo stato avrebbe ottenuto il duplice
vantaggio di liberarsi di persone sgradite e di ottenere, mediante il loro lavoro forzato, potenziali
profitti, merci e basi per la futura sicurezza commerciale e militare.
Si trattava ovviamente di un progetto enormemente ambizioso, non solo a causa della distanza e
della mancanza di conoscenza del territorio, ma anche perché si sarebbe trattato di una colonia
effettivamente creata da deportati, rifiuti sociali britannici. Ciò poneva interessanti interrogativi sul
modo in cui la colonia sarebbe stata amministrata. La speranza era quella di trasformare questi
criminali in una produttiva avanguardia coloniale che avrebbe preparato la terra per futuri e redditizi
insediamenti.
Per i nuovi coloni la vita fu ovviamente durissima, ma nonostante gli inizi poco promettenti, col
tempo gli insediamenti si radicarono nel territorio, anche se i primi decenni furono segnati da crisi
ricorrenti. Le guerre napoleoniche tra il 1793 e il 1815 inasprirono le difficoltà e allo stesso tempo
acuirono le attenzioni della Gran Bretagna nei confronti della regione. Nel quadro del lungo
conflitto contro i francesi, il cui interesse verso il Pacifico non era mai venuto meno, la presenza
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