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Quando ci si trova nella situazione di spiegare cosa sia un oggetto, lo si può solamente identificare tramite
ostensione o descrizione. Comunque sia, si identifica l’oggetto in virtù di certe sue caratteristiche. Certo, si potrebbe
dire che l’ostensione e la descrizione di un oggetto atte a definirlo possono essere ritenute meri espedienti pedagogici,
impiegati nell’insegnamento di un nome a uno che non sa come usarlo. Una volta identificato l’oggetto cui il nome si
applica, è possibile dimenticare o ignorare le varie descrizioni per mezzo delle quali si è identificato l’oggetto, perché
esse non fanno parte del senso del nome: ma (a) allora il nome non ha un senso! Se a scuola mi venisse insegnato che
Aristotele era un filosofo greco nato a Stagira, ed io, dopo ricerche, scoprissi che in realtà nacque a Tebe, continuerei ad
usare il nome “Aristotele” con lo stesso significato.
In conclusione: spiegare l’uso di un nome facendo ricorso alle caratteristiche dell’oggetto non significa formulare
delle regole relative al nome, perché le regole non hanno affatto un contenuto descrittivo.
1.2 Contro - esempi
Ma questa argomentazione regge quando la maggior parte o la totalità delle conoscenze fattuali su Aristotele si
rivelassero errate o riferite ad altri individui? Si direbbe che Aristotele non è esistito. Neppure Cerbero e Zeus, però,
sono esistiti, eppure non diciamo che nessun oggetto portò mai questi nomi. Dunque, (b) i nomi propri hanno
necessariamente un senso , ma solo in modo contingente un riferimento.
Le conclusioni (a) e (b) sono contrastanti: (a) sostiene che i nomi propri hanno essenzialmente un riferimento, ma
non un senso (denotano, ma non connotano); (b) sostiene che i nomi propri hanno essenzialmente un senso e solo in
modo contingente un riferimento (si riferiscono a qualcosa soltanto a condizione che uno ed un solo oggetto soddisfi il
loro senso).
Searle esamina (b), quindi analizza la tesi per la quale ogni nome proprio ha un senso: è perciò legittimo chiedersi
per ogni nome quale sia il suo senso. Se si tentasse di utilizzare una descrizione completa di un oggetto come senso di
un nome proprio, ne conseguirebbero diverse problematiche:
i. ogni asserzione vera relativa all’oggetto avente il nome come soggetto sarebbe analitica (e.g.: “Aristotele è
nato a Stagira”);
ii. ogni asserzione falsa nelle medesime condizioni sarebbe autocontradditoria (e.g.: “Aristotele è l’autore
delle Filippiche”);
iii. il significato del nome (e forse l’identità dell’oggetto) cambierebbe ogni volta che ci fosse un mutamento
nell’oggetto;
iv. il nome avrebbe significati diversi per persone diverse;
Questa soluzione non regge, perché la domanda di partenza è sbagliata: non bisogna chiedersi, almeno non in questo
punto, quale sia il senso di un nome, perché prima bisogna comprendere in che modo nome ed oggetto sono legati, se lo
sono.
2. Il riferimento
Alla luce di ciò, la domanda che sorge è la seguente: quali sono le condizioni per applicare un particolare nome ad
un particolare oggetto? Forse quelle per cui l’oggetto sia identico ad un oggetto originariamente battezzato con questo
nome: il senso dunque si identificherebbe con un’asserzione o un insieme di asserzioni esprimenti le caratteristiche che
costituiscono questa identità. Approfondiamo. Si prenda l’enunciato:
(4) “Questo è Achille”.
Il senso di (4), seguendo le premesse, è
(5) “Questo oggetto è spazio-temporalmente continuo rispetto ad un oggetto originariamente chiamato
‘Achille’ ”.
A questo punto sorge un problema: la forza di “Achille” è maggiore della forza di “identico ad un oggetto chiamato
‘Achille’, per cui non andrà bene qualsiasi oggetto chiamato “Achille”, perché potremmo riferirci al mio Jack Russell!
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“Questo si chiama ‘Achille’ ” non è una condizione sufficiente per la verità di “Questo è Achille”: non l’identità di
questo oggetto con un qualunque oggetto chiamato Achille, ma piuttosto la sua identità con Achille costituisce la
condizione necessaria e sufficiente per la verità di “Questo è Achille”.
Ancora una volta la conclusione porta ad un altro pattern da percorrere: dal momento che in generale un nome
proprio non specifica alcuna caratteristica dell’oggetto cui si riferisce, in che modo realizza il riferimento? Infatti,
diversamente da dimostrativi e descrizioni definite, i nomi propri si riferiscono senza presupporre un allestimento o
delle speciali condizioni contestuali attorno all’emissione dell’espressione e, in generale, i nomi propri non specificano
alcuna caratteristica degli oggetti cui si riferiscono. Tuttavia, nomi propri e descrizioni definite hanno qualcosa in
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comune all’interno del loro uso referenziale : l’esistenza di uno e di un solo oggetto a cui si riferiscono. Allora, come si
stabilisce una connessione tra nome e oggetto? Searle propone un esperimento mentale: si chiede agli utenti del nome
“Aristotele” di esporre quelli che considerano i fatti essenziali e assodati relativi ad Aristotele. Essi produrranno una
serie di asserzioni descrittive riconducibili univocamente ad Aristotele (e.g.: “il figlio di Nicomaco”, “il padre di
Nicomaco”, “l’autore della Metafisica”, “il padre della filosofia occidentale”...). Esiste quindi un oggetto “Aristotele”
relativamente al quale è vero un numero sufficiente ma non specificato di asserzioni, presupposto dagli usi referenziali
di “Aristotele”. In conclusione: usare referenzialmente un nome proprio equivale a presupporre la verità di certe
asserzioni descrittive univocamente referenziali, ma non equivale, solitamente, a formulare queste asserzioni o
addirittura a indicare quali vengono presupposte. Il punto è cruciale e rimane aperto: a decidere le caratteristiche
concordemente ritenute vere di un nome proprio sono gli utenti del nome stesso, siamo noi.
3. Ganci a cui appendere descrizioni
Questa è una sbavatura, un’imprecisione, che si coglie all’interno dell’uso dei nomi propri: una vaghezza difficile da
riportare all’interno di una norma o un insieme di norme. Se, infatti, prima di usare il nome, ci fosse un accordo su quali
precise caratteristiche ne costituiscono l’identità, le regole per l’uso del nome sarebbero precise. Ciò sarebbe possibile,
se si accettasse di implicare logicamente alcuni predicati specifici con qualunque uso referenziale del nome. A questo
punto il nome diventerebbe logicamente equivalente all’insieme di descrizioni e così saremmo in grado di riferirci a un
oggetto soltanto descrivendolo. Il nome stesso diventerebbe superfluo! Questa conclusione è inaccettabile, poiché
elimina la differenza tra nomi propri e descrizioni definite. I nomi propri permettono di riferirsi pubblicamente agli
oggetti senza essere costretti ad accordarsi su quali precise caratteristiche descrittive costituiscono l’identità
dell’oggetto: questa enorme convenienza pragmatica non può e non deve essere cestinata. Searle, allora trova una nuova
definizione per i nomi propri: essi non funzionano come descrizioni, ma come ganci a cui appendere descrizioni.
4. Un labirinto di risposte alla domanda sbagliata
Quando eravamo piccoli e ci presentavano quei piccoli rompicapo in cui l’animaletto di turno doveva arrivare alla
tana, ma i percorsi che si trovava davanti erano tutti ingarbugliati ed alcuni portavano ad un vicolo cieco, se eravamo
bambini pazienti, tentavamo tutte le strade, finché non raggiungevamo la meta; se, invece, eravamo di fretta, magari
perché in competizione, partivamo dall’arrivo e ripercorrevamo la strada al contrario, individuando il percorso esatto.
Allo stesso modo, Searle, nel complesso labirinto composto da senso, riferimento, nomi propri e descrizioni definite. ha
tentato entrambi i metodi: dapprima ha percorso tutti i sentieri, quelli già battuti da Frege, ad esempio, scartandoli tutti,
poiché portavano a vicoli ciechi. Infine, ha preso la sua meta, i nomi propri, ed ha percorso il sentiero al contrario,
scovando il punto di partenza: la domanda corretta a cui era possibile dare la risposta corretta.
Perché abbiamo dei nomi propri? Per riferirci ad individui senza usare le descrizioni, che imporrebbero la
specificazione di condizioni di identità ogniqualvolta ci si riferisce a qualcosa. Rimane una componente di vaghezza di
cui si è detto sopra (cfr. paragrafo 2, in fondo), ma non è l’unico tipo di vaghezza dei criteri di identità: anche gli usi
referenziali delle descrizioni definite possono porre problemi relativi all’identità, seppure di diverso tipo.
5. Il paradosso del senso
Alla luce della nuova struttura dei nomi propri, Searle risolve il paradosso del senso, ossia risponde alla domanda “un
nome proprio ha un senso?”:
i. Se con questa domanda si vuole sapere se i nomi propri sono o non sono usati per descrivere o specificare le
caratteristiche degli oggetti, la risposta è ”no”;
4 Strawson 1950 3
ii. Se si vuol sapere se i nomi propri sono o non sono connessi logicamente con le caratteristiche degli oggetti cui
si riferiscono, a risposta è “sì, in un certo modo vago”;
Ancora una volta è la domanda ad essere il vero punto della questione: una volta capito cosa realmente ci si stia
chiedendo, la risposta ne consegue.
6. Si faccia una domanda e si dia una risposta (considerazioni personali)
Il metodo di ricerca di Searle si basa su un continuo procedere fra domande, dimostrazioni e conclusioni che
diventano punti di partenza per ulteriori dimostrazioni e conclusioni. In questo modo l’intero ragionamento ne giova in
struttura e coerenza, tuttavia in alcuni punti le spiegazioni latitano: spesso Searle approda a conclusioni dimostrando la
falsità di tesi precedenti. La conclusione della dimostrazione dovrebbe essere la falsificazione di quella tesi, ma egli
compie un ulteriore passo e aggiunge la sua idea, tutta via non sempre dimostrandola. Ad esempio, Searle approda ad
una definizione dei nomi propri andando ad invalidare tesi di altri filosofi del linguaggio, ma senza costruire un vera e
propria argomentazione attorno alla sua conclusione: i nomi propri non sono abbreviazioni di descrizioni definite per
questo e quest’altro motivo, ma qual è il passo logico che permette di affermare che i nomi propri sono ganci a cui
appendere descrizioni? In questo passaggio Searle risulta nebuloso.
E’ altresì un grosso rospo da ingoiare l’utilizzo della vaghezza come spiegazione della connessione tra i nomi propri
e gli oggetti a cui si riferiscono. Se sono gli