Anteprima
Vedrai una selezione di 6 pagine su 24
I manicomi come istituzione malata Pag. 1 I manicomi come istituzione malata Pag. 2
Anteprima di 6 pagg. su 24.
Scarica il documento per vederlo tutto.
I manicomi come istituzione malata Pag. 6
Anteprima di 6 pagg. su 24.
Scarica il documento per vederlo tutto.
I manicomi come istituzione malata Pag. 11
Anteprima di 6 pagg. su 24.
Scarica il documento per vederlo tutto.
I manicomi come istituzione malata Pag. 16
Anteprima di 6 pagg. su 24.
Scarica il documento per vederlo tutto.
I manicomi come istituzione malata Pag. 21
1 su 24
D/illustrazione/soddisfatti o rimborsati
Disdici quando
vuoi
Acquista con carta
o PayPal
Scarica i documenti
tutte le volte che vuoi
Estratto del documento

In un altro rapporto del 2 gennaio 1903 il prefetto informava il ministro

dell’interno che in un infermo gli aveva dichiarato che esso ed altri infermi

percossero un infermiere per vendicarsi dei lunghi maltrattamenti e che perciò

vennero severamente puniti dal direttore, padre Minoretti, che li tenne tutti legati

a letto e che, inoltre, questo castigo fu reso ancora più duro con lunghi digiuni.

A seguito delle denunce veniva rimosso dalla direzione il padre e veniva rinnovato

completamente il personale sanitario, venivano aboliti i mezzi di coercizione più

antiquati ed infine veniva istituito l’ufficio di ispettore su tutti i manicomi del

Veneto.

Nel 1905 era stata avviata anche una inchiesta anche sul manicomio di Como, a

seguito di un richiamo da parte del professore Edoardo Bonaldi.

I commissari erano rimasti in primo luogo colpiti dall’anormale affollamento dei

ricoverati. Costruito per 500 malati, ne conteneva 782. I dormitori, capaci di nove

o dieci letti massimo, ne contenevano 14 ed a dormitorio erano adibiti anche i

corridoi. La commissione rilevava anche l’inadeguata efficienza del servizio

farmaceutico a causa dell’inquinamento delle acque (dall’aprile al dicembre 1903

si erano verificati nel manicomio 37 casi di malattie gastrointestinali con 17 casi

di morte).

Nel manicomio di Aversa, invece, i primi rilievi si soffermarono sui generi

alimentari. La loro fornitura era definita da ritardi considerevoli. La

somministrazione del pasto del mattino finiva ad essere spostata dalle 9 alle 11-

12, e per di più i viveri venivano ordinati due giorni prima di quello in cui

dovevano venire consumati e lasciati spesso, anche d’estate, in ambienti senza

refrigerazione.

Il direttore medico, inoltre, non risiedeva ad Aversa e molti dei medici addetti

all’asilo avevano fuori di esso occupazioni non consentite dal regolamento, il che

non consentiva loro di dedicare il tempo dovuto ai ricoverati.

Le condizioni igieniche erano disastrose, l’asilo brulicava di pidocchi e le

lavanderie erano malfunzionanti.

Su 77 infermieri che si trovavano nel manicomio nell’agosto 1904, 16 erano

analfabeti, 8 erano solo capaci di scrivere la propria firma, 47 avevano

un’istruzione molto elementare e soltanto 6 possedevano una istruzione discreta.

Di 55 infermiere ben 49 erano analfabete, ed appena 6 possedevano una 11

istruzione elementare. Eppure sono questi gli infermieri che debbono

somministrare le medicine leggendo le etichette sugli appositi recipienti. Sono

questi infermieri che devono redigere e presentare all’ispettore il rapporto

giornaliero sull’andamento del servizio. Ora, come si può pretendere che essi

facciano il loro dovere?

I casi fin qui descritti non erano del resto gli unici a mostrare quale fosse il

funzionamento dell’istituto manicomiale tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del

Novecento.

I pazienti psichiatrici entravano nei manicomi senza speranza di uscita, sparendo

completamente dalla società. La socializzazione tra i malati era negata perché

considerata terapeuticamente dannosa. Fondamentale nella cura dei malati era la

solitudine che veniva considerata un punto di forza per il raggiungimento della

rieducazione morale .

Le caratteristiche amministrative del manicomio italiano tipo, all’inizio del secolo

sono: grande affollamento, cattiva alimentazione, scarsità di medici ed

inadeguatezza ai loro compiti, ambiguità nei rapporti tra direzione medica e

amministrazioni provinciali.

Prima della approvazione della legge sui manicomi, all’inizio degli anni novanta, la

situazione variava da manicomio a manicomio. In alcuni, come a Mombello,

Voghera, Macerata, Venezia, Cornigliano, Grifalco, il direttore medico aveva, oltre

al servizio sanitario e disciplinare, anche il potere di intervenire nella parte

amministrativa. In altri come Genova, Bergamo, Siena, Lucca e Aversa il direttore

non aveva alcun potere nella parte amministrativa, limitando i suoi poteri al

settore disciplinare. In altri ancora, come a Reggio Emilia e Firenze, il direttore

aveva un’alta autorità su tutti gli altri rami del servizio ed un’alta sorveglianza

sull’andamento economico interno, senza averne però la diretta responsabilità. A

Ferrara il direttore faceva parte della commissione amministrativa con voto

deliberativo, mentre a Como e Reggio prendeva parti alle riunioni di questa solo

con il voto consultivo. In stabilimenti come quelli di Alessandria e Torino infine il

direttore medico non aveva nessuna influenza sulla parte economica, ne aveva

pochissima sulla parte disciplinare e spesso vedeva invase anche le sue

competenze in materia di servizi sanitari. 12

Condizioni di vita e cure

Le condizioni di vita dei ricoverati riportate tracciano uno scenario degradante e

disumano, ben lontano da ciò che si potrebbe attendere da un luogo deputato alla

cura.

Gli alienati potevano essere accolti dall’istituzione sin da bambini. Essa guidava

in modo gerarchico e autoritario il loro cammino di redenzione, che meglio si può

rappresentare come un periodo forzato di permanenza in un luogo che certo non

curava.

Al loro arrivo in ospedale i ricoverati, almeno quelli più poveri, venivano spogliati

dei loro abiti, che venivano deposti nella fagotteria e poi restituiti all’uscita o

venduti al momento della morte. Nel giorno di accettazione i ricoveri possono

essere numerosi e gli infermieri addetti a questo compito sono due, con eventuali

rinforzi.

Dopo l’internamento ci sono due possibilità per ritornare liberi:

- Articolo 64 per guarigione clinica

- Articolo 66 per dimissione in esperimento, che prevede la firma di un

parente per presa responsabilità verso il paziente.

Non verificatesi le elencate condizioni previste, il paziente rimane in manicomio.

Una delle attività umanizzanti e anti-segreganti più frequentemente messa in atto

dagli infermieri è la passeggiata di gruppo nel parco: mai nessun medico ha dato

autorizzazione scritta in tal senso e quando si verifica una fuga l’unico

responsabile è l’infermiere stesso. La passeggiata nel parco significa libertà, e

infatti appena fuori i loro volti si distendono: si scherza e si ride, si passeggia

molto lentamente e il silenzio è interrotto soltanto dal canto degli uccelli.

Ma non sempre è così. Parte dei malati sono costretti, anche di giorno, se non a

letto, a essere immobilizzati con una cintura che blocca le gambe, oppure

vengono legati per un piede, persino ai termosifoni. La sporcizia è ovunque e il

numero dei servizi è decisamente sproporzionale rispetto ai ricoverati. 13

Quest’ultimi sono privati di ogni intimità e lo squallore delle strutture va

considerato anche come esperienza soggettiva che distrugge la personalità e

l’individualità dei malati.

Il lavoro era l’unica alternativa alla vita di reparto, e anzi ritenuto un grande

privilegio. I lavori erano indispensabili per la sopravvivenza dello stesso istituto,

che si rivelano sfruttamento di una mano d’opera a bassissimo costo.

L’ergoterapia, giustificata dai medici in quanto in grado di dare ai malati un senso

di disciplina, di attività terapeutica in quanto riproduce la vita esterna, si rivela

un inganno se si considera che alcuni erano addetti alla camera mortuaria: come

si può sostenere che l’accudire i morti con i quali si è condivisa una vita senza

speranza sia un’attività terapeutica?

Con la nuova “terapia morale” le malate venivano impiegate nel guardaroba, nelle

cucine e nella lavanderia, gli uomini nel lavoro agricolo e in attività operaie. Ove

permesso alcuni erano legati persino durante le ore di lavoro. Il lavoro a costo

zero del paziente veniva visto come una vera e propria cura.

Calandoci nel vissuto di chi era ricoverato, ecco la testimonianza di una donna:

Finchè lavoravo le infermiere erano buone ma quando non lavoravo mi trattavano

come una bestia. E quelle mattine che non me la sentivo di lavorare le infermiere mi

offendevano. Magari non mi picchiavano mi offendevano e le offese fanno più male

delle botte. Mi facevano lavorare per forza ma pagare non è che mi pagassero: mi

sfruttavano e basta.

Per il recluso, raccontare può equivalere a un ritorno del soggetto a sè stesso e

alla casa da cui si è allontanati. È superare lo spaesamento.

Le “cure” praticate in nome della scienza sono sadiche e punitive. La questione

etica in psichiatria diviene un delicato elemento di discussione, specie se si

accompagna a trattamenti che fanno dubitare il rispetto della dignità del

paziente, come la terapia elettroconvulsionante e la psicochirurgia.

Da un lato si obietta che si tratterebbe di interventi terapeutici violenti, dall’altro,

si dice che, in ogni modo, la loro efficacia non è compromessa, anche se gli effetti

collaterali a distanza di tempo sarebbero evidenti. In entrambi i casi, comunque,

ci si troverebbe di fronte a cure non etiche. 14

Malariaterapia: le zanzare venivano messe in una gabbietta a rete molto

 sottile, fatte infettare e successivamente messe a contatto con il malato di

demenza a cui veniva trasmessa la malaria. Questo metodo terapeutico in

breve tempo si è divulgato in tutto il mondo e sembra abbia prodotto buoni

risultati.

Insulinashockterapia: il metodo consisteva nell’inoculazione di forti dosi di

 insulina, tali da indurre un come ipoglicemico ed il risveglio del paziente

avveniva tramite somministrazione di una soluzione di acqua e zucchero.

Psicofarmaci: vennero presentati come facilitatori e punto cruciale del

 dialogo, dell’incontro, tra paziente, infermiere e medico, e presto iniziarono

a dilagare anche fuori delle mura manicomiali. Da un lato vengono

presentati come una cosa buona, dall’altro la tossicomania né è l’aspetto

cattivo.

Elettroshock: la prima applicazione di questa pratica venne effettuata nel

 1938 alla Clinica neuropsichiatrica dell’Università di Roma, diretta dal

professore Cerletti. Negli anni Cinquanta le applicazioni vengono praticate

con il paziente sveglio, più o meno consapevole di quello che lo aspetta. Non

è di grande importanza se la classificazione patologica del paziente rientri o

meno tra quelle consigliate dalla stessa scienza per questo metodo

terapeutico. L’importante in questi anni è tentare. Al risveglio si spera di

vedere risanata la persona, ma non è così. Non ci si deve demoralizzare, si

ripeterà l’applicazione a distanza di qualche giorno e così via, fino a

raggiungere dieci, venti e più applicazioni.

Col tempo la tecnica iniziare andò incontro a progressive modifiche, volte

ad ottenere preva

Dettagli
A.A. 2017-2018
24 pagine
SSD Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-FIL/02 Logica e filosofia della scienza

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher christine.sparapani1 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storia della metafisica e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università Europea di Roma o del prof De Monte Ettore.