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FLESSIBILITA’- CONTRATTO A TERMINE
Nell’attuale contesto economico, è più facile che si manifestino delle esigenze
imprenditoriali e datoriali contingenti che richiedano forme di contratti di
lavoro diverse dal contratto a tempo indeterminato.
Aldilà delle novità intervenute, è possibile distinguere tre aree di flessibilità
dell’impiego:
il contratto a tempo determinato;
1- la somministrazione di lavoro;
2- il contratto di apprendistato.
3-
Altre forme di flessibilità, come il job scharing ed il lavoro occasionale
verranno sfoltite; rimarranno solo queste tre aree.
1- Contratto a tempo determinato
Per contratto a tempo determinato, s’intende una forma contrattuale
diffusasi a partire dagli anni ’90 con varie discipline: l. n. 196/1997 (pacchetto
Treu, d.lgs. n. 276/2003 (riforma Biagi), riforma fornero l.n. 92/2012, d.l. n.
34/2014 (Jobs act 1).
L’area di flessibilità più importante è la prima, perché costituisce la deviazione
più forte rispetto alla fattispecie standard (contratto a tempo indeterminato).
La flessibilità del rapporto di lavoro a tempo determinato è legata al tempo, in
quanto si tratta pur sempre di un rapporto di lavoro subordinato, al quale però
è attribuito un termine di durata.
Dal punto di vista normativo, si assiste ad una coesistenza di regimi giuridici
diversi, fino a che non prevarrà il decreto Renzi.
Nonostante l’ultimo intervento normativo (d.l. n. 34/2014) sia stato più chiaro,
sussistono ancora problemi interpretativi.
Disciplina:
Per coloro che sono stati assunti prima del 2012, la normativa di riferimento
risiede nel D.lgs. 368/2001.
Tale decreto si pone in attuazione di una direttiva europea. Non si applica
tuttavia al pubblico impiego. Nel contesto europeo, la Corte di Giustizia ritiene
che tale discorso dei contratti a termine, così come attuato in Italia, si
trasformi in precarietà.
Nelle direttive si stabilisce che il contratto a tempo determinato è
un’eccezione, mentre quello a tempo indeterminato è la forma comune.
Come tutte le eccezioni che derogano ad una regola devono essere fondate
su presupposti forti:
art. 1, c.1, del d.lgs. 368/2001 deve esserci una ragione di carattere
- tecnico, organizzativo, produttivo o sostitutivo (es.:sostituzione con
diritto a conservazione del posto- maternità) . 1
Si tratta della cd. causalità: le ragioni per cui si appone un termine al
rapporto di lavoro devono essere oggettive e temporanee (non c’è scritto
ma è cosi).
La ragione, cioè, non deve essere legata al normale svolgimento
dell’impresa, ma deve esserci alla base un evento temporaneo ed
eccezionale, una ragione che il datore di lavoro deve poter provare in un
ipotetico giudizio.
La causalità è necessaria e va formalizzata; infatti nell’ipotesi in cui tale
ragione causale non venga individuata, il contratto di lavoro a tempo
determinato si converte ope legis in contratto a tempo indeterminato, cioè la
fattispecie standard.
Il vantaggio per il datore di lavoro che assume a termine è quella di evitare il
licenziamento. Il contratto a termine non è soggetto a licenziamento, il datore
di lavoro non è neanche tenuto a comunicare quando ha termine il contratto
in quanto il lavoratore ne è già consapevole, in quanto è scritto nel contratto.
E’ una comodità per il datore di lavoro che può assumere a vita a termine
senza licenziare.
Caso poste italiane: hanno ottenuto la conversione del rapporto di lavoro a
termine in quanto non avevano spiegato le ragioni.
Dal 2001 è stato introdotta la causalità, che ha dato luogo ad una
liberalizzazione dei contratti a termine. Infatti, mentre prima c’era una
disciplina rigida, in quanto erano i contratti collettivi che individuavano i casi in
cui si poteva stipulare un contratto a termine (es.:spettacolo etc.), dopo il
2001, sono possibili in ogni materia.
Con la legge Fornero permane la necessità del requisito causale all’art. 1
c.01, (ove si dice che il contratto a tempo indeterminato è la forma comune di
contratto di lavoro), ma viene introdotta la deroga dell’acausalità in alcune
ipotesi: quando si tratta del primo rapporto di lavoro a tempo determinato e se
non si vada oltre i 12 mesi (se un lavoratore non è stato mai utilizzato, per il
primo contratto, il datore di lavoro può non formalizzare le ragioni).
Va detto che ciò, tuttavia, non comporta quale automatismo un aumento delle
assunzioni.
Quindi, in sostanza, la legge Fornero si innesta sul d.lgs. n. 368/2001, in
quanto permane la causalità con una sola possibilità di deroga.
Esistono altre deroghe, ma sono state stabilite dalla contrattazione collettive.
I casi in cui si può fare un contratto acausale sono, ad esempio, le ipotesi di
avvio di un’attività imprenditoriale o un investimento.
Con il decreto Poletti, il discorso della acausalità si estende a tutte le ipotesi,
diventando quindi la regola. Al criterio qualitativo si sostituiscono dei criteri
quantitativi:
durata massima del contratto pari a 36 mesi
- possibilità di proroga fino ad un massimo di 5 volte
- 2
il numero complessivo dei contratti a termine non può eccedere il limite
- del 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato (onde evitare
che l’azienda sia costituita interamente da lavoratori a termine.
Alla base vi è il fine di superare la crisi e la disoccupazione, fissando dei
principi che incentivino le imprese a fare nuove assunzioni.
La disciplina si applica ai nuovi assunti a partire dal maggio 2014.
Novità:
Conversione legale: nelle ipotesi in cui si superi il 20%, non vi è più la
conversione legale del rapporto di lavoro a tempo determinato in rapporto
di lavoro a tempo indeterminato, ma una sanzione di carattere
amministrativo- pecuniario, per ogni giorno di violazione del contratto.
Si tratta di una modifica molto importante, perché allo stato attuale la
conversione non potrà mai esserci, anche se qualche autore vorrebbe
sostenere che ci possa essere la conversione; la giurisprudenza potrebbe
recuperare anche la causalità, ma allo stato attuale non ci sono interventi in
tal senso.
Proroga: Il 368/2001, prevedeva la possibilità di una sola proroga, ed era
necessario che ci fosse il consenso del lavoratore, che la durata iniziale del
contratto fosse inferiore a tre anni, che ci fossero ragioni oggettive e che si
riferisse alla stessa attività lavorativa di cui al contratto a temrine.
Con il Decreto Poletti la proroga è possibile fino ad un massimo di 5 volte
nell’arco temporale di 36 mesi e soprattutto non va motivata la ragione della
proroga; è sufficiente che si riferisca alla medesima attività lavorativa.
Il principio di non discriminazione resta fermo: anche per i contratti a
termine deve esserci un trattamento economico retributivo proporzionato.
La vera discriminazione è che chi lavora a tempo determinato non ha un
impiego stabile rispetto a chi ha un lavoro a tempo indeterminato.
Il settore pubblico non è coinvolto dalle riforme Poletti e Fornero (stessa
cosa anche per quanto riguarda la riforma del jobs act 2, in quanto il pubblico
impiego sarà disciplinato da decreti che saranno emanati dal Ministro Madia).
Qualche autore ha sostenuto che l’applicazione si estendesse anche al
pubblico impiego, in virtù del regime di privatizzazione. In realtà, per ragioni
politiche, si tratta di una disciplina diretta a regolamentare esclusivamente il
settore privato.
All’art. 36 del testo unico (d.lgs. 165/2001) rimane la regola della causalità,
riguardo al contratto a termine. Le pubbliche amministrazioni possono
assumere a tempo determinato, ma deve esserci la causale che deve essere
o eccezionale o temporanea.
Inoltre, nel pubblico impiego non è possibile la conversione legale del
contratto, perché deve espletarsi un pubblico concorso. 3
Es.: Un dipendente del Comune fa causa e riesce a dimostrare che non
c’erano ragioni eccezionali, non otterrà mai la conversione del rapporto da
tempo indeterminato a tempo determinato, ma solo un risarcimento dei danni.
Possiamo individuare un parallelo con le mansioni: nel settore privato se si
svolgono mansioni superiori per un certo periodo di tempo si può chiedere
l’acquisizione della carriera superiore, nel settore pubblico no, si può chiedere
solo la differenza retributiva, il risarcimento.
Il problema è che molto spesso si assiste ad una successione fraudolenta di
contratti a termine: il datore di lavoro assume per trentasei mesi, fa
un’interruzione di sei mesi e poi una nuova assunzione. Ci sono dei paletti
(tre mesi), superati i quali è possibile assumere di nuovo a termine. Per
questo si crea il precariato.
La direttiva 99/70/CE prevede che lo stato possa trovare la sanzione che
ritiene più giusta, che sia effettiva, dissuasiva e forte, l’importante è che si
garantisca il principio di non discriminazione e si prevengano gli abusi
derivanti dall’utilizzo di una successione di rapporti a termine.
L’Italia viene sanzionata perché anche il risarcimento è minimo, o i
risarcimenti non vengono proprio corrisposti. Dovrebbe essere un
risarcimento parametrato all’assunzione.
A volte, per eludere la normativa, il datore di lavoro cambia anche la tipologia
contrattuale.
Questo contratto dovrebbe essere bilanciato da quello a tutele crescenti.
In base all’art. 36, in caso di violazione del termine, dovrebbe risarcire il
dirigente che ha autorizzato l’assunzione, ma ciò non si verifica mai.
Tale discorso si intreccia anche con la somministrazione di lavoro( o lavoro
interinale (ad interim), tramite agenzia, affitto di manodopera, lavoro
temporaneo)
Esso implica la partecipazione di tre soggetti: due aziende (somministratore e
azienda utilizzatrice, legate tra loro da un rapporto di natura commerciale) e
un lavoratore.
L’accordo posto in essere tra l’agenzia di somministrazione e l’azienda è un
contratto commerciale che esula dal diritto del lavoro. Sulla base di questo
contratto l’agenzia stipula un contratto di lavoro col lavoratore.
E’ detto anche “affitto di manodopera”, perchè l’azienda utilizzatrice se ha
necessità di reperire alcune figure professionali, anziche farlo
autonomamente, si rivolge ad agenzie apposite.
Il contratto di lavoro è tra il lavoratore e il somministratore, l’agenzia.
La figura datoriale si duplica: dal punto di vista amministrativo il lavoratore è