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STORIA DEL PENSIERO FILOSOFICO SULLA MORTE
LA FILOSOFIA GRECA
1. I PRESOCRATICI
Secondo la tesi molto discussa di G.E. Lessing gli antichi non temevano la morte, in quanto essa non era
rappresentata dallo scheletro (che rappresentava invece l'anima degli uomini malvagi), ma veniva raffigurata
con le fattezze di un giovane che porta una torcia rivolta verso il basso. Questa iconografia suggerì a Lessing
che gli antichi avessero una visione serena della morte. Tesi che fu smontata e contestata, per esempio da
Schelling che parlando della inesorabile finitezza dell'esistenza che permea come un dolce veleno le opere
artistiche dei greci e un altro studioso di nome Ernin Rohole scrive che nulla era così odioso ai credi come la
morte e che la morte getterebbe un’ombra su tutta la produzione del pensiero il greco e quindi vi era un profondo
pessimismo. Nel mondo greco c'era una lettura positiva dell'esistenza, ma nel contempo erano terribilmente
consapevoli dell'incertezza della vita e dell'incombere della morte, soprattutto nella tragedia greca. Il mondo era
così bello e piacevole che la morte spaventava non poco. Se da una parte abbiamo una lettura dell'esistenza in
chiave positiva, decaduta poi con l'ebraismo e il cristianesimo, dall'altra c'è il terribile spavento di esservene
sottratti e di sparire. Questo lo possiamo trovare in Omero nell'Odissea in cui Achille dice: “Non consolarmi
dalla morte Ulisse! Preferirei vivere con cibo scarso che governare l'impero dei defunti”. Anche Saffo dice che
la morte non è cosa buona, perché se così fosse anche gli dei avrebbero piacere di morire ed invece non la
provano nella loro immortalità.
Questa coscienza della morte come né pacifico sonno né migliore e più felice esistenza nell'aldilà, i defunti
diventano ombre senza sangue vaganti nel mondo sotterraneo, spaventava i greci più di qualsiasi altra cosa al
mondo ed essi gli opposero l'ideale eroico, il morire da eroi. Bisogna però smitizzare questa idea, in quanto la
visione dell'eroe non era la visione principale nel mondo greco. L'eroe era onorato e glorificato perché costituiva
l'esempio, ma non era in sé una risposta alla morte. La risposta era la disperazione e l'eroe era colui che sfidava
la morte nelle sue azioni sacrificando la propria vita, avvicinandosi agli dei con la sua immortalità. L'eroe accetta
la sua condizione umana con malinconica sottomissione. Lettura che non vale solo per l'eroe, ma per la mentalità
complessiva.
Quindi il bisogno di una risposta più pungente, oltre a quella omerica, diventa sempre più spontanea, quindi i
filosofi che analizzeremo sono il tentativo di trovare una soluzione a questo fato, a questo orientamento
dell'esistenza.
a) PITAGORA E LA VISIONE ORFICA
La prima è grande risposta viene dalle sette visioni orfiche con Pitagora, il quale parlò di trasmigrazione delle
anime o, come detto in greco, “metempsicosi”, cioè l'anima conosce una sua catarsi, una sua purificazione,
finché troverà la sua finale riunificazione con la divinità. Quindi l'anima è prigioniera del corpo e trasmigra da
un corpo all'altro fino a raggiungere il suo compimento. E qui iniziano, come dice Pierre Hadot, i così chiamati
“esercizi spirituali” affinché l'anima conservi la propria purezza. Nelle scuole pitagoriche si cerca di fermare il
processo di reincarnazione per raggiungere la metempsicosi. Dato che ciò che si succede nella vita precedente
ricade su quella successiva, la filosofia di Pitagora diventa una pratica-mistica che cerca ordine nella matematica
e nei calcoli geometrici. La gente viene attirata da questa tendenza esoterica pitagorica e con questo grande
consenso delle masse, avrà un enorme riconoscimento anche storico con Platone.
b) TALETE
sophoi,
Nei i filosofi della natura, cercano una risposta all'enigma della morta. Talete pone al principio della
propria tesi l'acqua, compiendo così uno scardinamento passando da una visione mistica-religiosa ad una più
naturalistica. All'acqua come genesi di tutte le cose, si aggiunge un'insolita osservazione, cioè che tutte le cose
sono una sola e questo c'interessa particolarmente, riferendoci alla questione della morte, in quanto se tutte le
cose sono una sola, l'implicazione sottintesa è che si derealizza anche il mutamento più radicale, come la morte,
nel suo principio. Noi siamo acqua, secondo Talete, e torneremo ad essere acqua. Siamo come un’onda del mare
che ricade, una volta innalzata, in esso. Possiamo immaginare che la contemplazione del mare fosse un elemento
arché
rilevante nella zona della ionia e italica. L'immortale (il principio) dell'acqua in Talete a cui tutto torna,
attenua la dimensione del mutamento, anche quello più radicale, come dicevamo, cioè la morte.
c) ANASSIMANDRO
Risulta particolarmente evidente se consideriamo un fatto, cioè che il primo testo filosofico pervenutoci è il
frammento di Anassimandro sulla transitorietà delle cose: “Donde le cose traggono la loro nascita, ivi si compie
anche la loro dissoluzione, secondo necessità. Infatti le cose reciprocamente pagano il fio e anche la colpa
dell'ingiustizia secondo l'ordine del tempo”. Nietzsche nella sua opere La filosofia nell'età tragica dei greci,
tradusse il frammento rendendolo così “Perché le cose devono pagare lo scotto secondo l'ordine del tempo” e,
ancora più rilevante, parlo di questo passo anassimandreo come l'affermazione di un vero pessimista. LA sua
interpretazione era che la morte come distruzione era lo scotto individuale che ogni persona deve pagare il
crimine di essersi distaccato dal fondamento eterno dell'essere. Secondo alcuni c'è una doppia colpa in
Anassimandro, cioè il fato di essere nati distaccati dal principio e l'altro, dopo la scissione del principio, la
tendenza all'autoaffermativa contro gli altri e la morte può essere l'unica risposta a questa colpa. Sempre
Nietzsche ritiene che Schopenhauer nella sua concezione della morte e del dolore della vita, data contro il
principio della volontà, diceva proprio questo, cioè che l'uomo nasce in questa scissione e la paga con il dolore
e la morte. Herman Diss scoprì una più antica del frammento trovandovi la parola “reciprocamente” che porta
a pensare che le cose pagano reciprocamente, l'una all'altra, l'ingiustizia compiuta e la colpa
dell'autoaffermatività. Questa tesi ovviamente non va invalidare l'altra tesi, ma ne aggiunge un carattere
ulteriore. Primo, le cose commettono un crimine ontologico esistendo in termini individuali e secondo che le
cose si fanno l'una all'altra reciprocamente ingiustizia nel privarsi reciprocamente della possibilità di esistere
(autoaffermatività ontologica). Anassimandro tenta di neutralizzare la morte, in quanto e in qualche modo pone
il suo dominio assoluto sulla vita di ognuno e Anassimandro cerca di stroncare questo dominio. Se Talete aveva
arché,
ipotizzato l'acqua come Anassimandro ha ipotizzato l'aperon, questo indefinito illimitato e immortale, al
quale con l'espiazione della morte, frutto della scissione e della colpa di autoaffermazione, ritorno. La grande e
sconvolgente domanda di Anassimandro era perché tutto ciò che esiste deve sparire. La morte è un inabissarsi
nel grande tutto immortale (aperon), risposta filosofica che è stata ripresa da tutti coloro che non accettavano le
risposte tradizionali-religiose delle tradizioni orfiche e sia coloro che non volevano e non accettavano la morte
come annientamento definitivo. Nell'ottica di Anassimandro non si accetta la morte nella visione del mondo, ma
nella visione dell'aperon in cui la morte non è una nullificazione.
d) ERACLITO
A Efeso anche Eraclito fu profondamente colpito dalla caducità delle cose. Nel suo dialogo con la morte,
individuabile nei vari frammenti pervenutici, nel suo stato così definitivo, nasce in lui l'idea che se nasciamo e
moriamo e proseguiamo in questo ciclo esistenziale, il mutamento è la caratteristica fondamentale dell'uomo e
chi discende nello stesso fiume sopraggiungono acque sempre
della realtà tutta. Nel frammento 22,b91: “A
nuove. Non si può discendere due volte nello stesso fiume e non si può toccare due volte una sostanza mortale
nel medesimo stato, ma a causa dell'impetuosità e della velocità del mutamento si perde e si raccoglie e va. Noi
scendiamo e non scendiamo da questo fiume, in quanto anche noi stessi siamo e non siamo”. Eraclito non rimane
paralizzato in questo stato di smarrimento per l'apparente e totale trasparenza delle cose, ma sebbene il divenire
sia una lotta di opposti, forma un’unità, come i due poli di un magnete. Quindi tale guerra degli opposti non è
molti anche uno e uno è anche in molti, la luce sono
un'ingiustizia, ma la più alta delle giustizie, perché “in
anche le tenebre e le tenebre sono anche la luce ecc.”. Il divenire e il mutamento Eraclito di dispiega in modo
guerra è madre di tutte le
armonico, ossia come sintesi degli opposti. Frammento degli opposti (22,b126): “La
cose e di tutte le cose regina”. che è opposizione si concilia e dalle cose più belle si genera
Frammento 8: “Ciò
per via di contrasti”. cioè ignoranti, non capiscono che ciò che è incoerente concorda
Frammento 51: “Essi,
con sé stesso, come l'arte della lira”. malattia rende dolce la salute, la fatica rende
Frammento 22,b111 “La
dolce il riposo”. ascoltando me, ma ascoltando il logos è necessario ammettere che
Frammento 22,b50 “No
tutte le cose sono unità”. Diversamente dall'aperon di Anassimandro al quale le cose ritornano per colpa, in
Eraclito c'è un principio capace di passare per tutte le cose e attraverso cui le cose possono passare di nuovo.
le cose sono un scambio con il fuoco e il fuoco è lo
Questo principio è il “fuoco”. Frammento 22,b90 “Tutte
scambio di tutte le cose”. Proprio per tutte le cose divengono e si scambiano nella logica instabile, la morte
stessa non è stabile né irreversibili perché l'anima dell'uomo è parte del fuoco perenne che si trasforma. L'uomo
si nutre dell'atmosfera esterna e della evaporazione interna che viene dal sangue, dell'umido e del secco che
porta delle oscillazioni nell'esistenza. Più l'anima è asciutta, più è vicina all'intelletto. Pi&u