Filosofia del diritto - lezioni
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di perfezione. La loro causa è Dio. Siccome i gradi di perfezione nel mondo sono imperfetti, la
distribuzione dei gradi è opera di Dio.
Via del finalismo. Essere Finalizzati significa avere una propensione verso il conseguimento di
• certi precisi fini. Una realtà è finalizzata quando è orientata verso un certo obiettivo. Una cosa
è finalizzata se agisce costantemente per raggiungere uno scopo. Si può dire che è finalizzato
anche un oggetto realizzato dall’uomo quando questo oggetto risponde a determinati obiettivi
in modo sistematico. Il telefonino è finalizzato a chiamare e costantemente risponde a questi
obiettivi. Quando diciamo che una certa cosa risponde costantemente a un obiettivo ciò
comporta tre conseguenze inevitabili:
A. Bisogna conoscere il fine da perseguire
B. Occorre conoscere i mezzi che ci permettono di raggiungere il fine
C. Occorre operare concretamente per mettere in atto i mezzi che ci permettono
di raggiungere il fine
Se devo andare in aereo da Milano a Roma faccio il biglietto. Nel compiere questo gesto sto
facendo un atto finalizzato che presupponeva la conoscenza del fine, dei mezzi, attraverso un
comportamento concretamente perseguito che serve per raggiungere questo fine. Se manca uno
di questi tre passaggi cesso di operare come una realtà finalizzata. Questa descrizione si può anche
riassumere dicendo che il finalismo si esprime in tre modalità:
A. La direzionalità
B. La cooperatività
C. La funzionalità
Esiste un finalismo quando si osservano queste caratteristiche:
Direzionalità: i processi naturali si ripetono sempre attraverso certi schemi che passano da fasi di
organizzazione più modesta a fasi più complesse.
Cooperatività: gli elementi naturali si coordinano e cooperano fra loro.
Funzionalità: nell’organismo le parti agiscono come un tutto integrato.
La realtà del finalismo riconosce una serie di fatti molto complessi. Per poter esserci un finalismo è
necessaria la compresenza di questi fattori. Il finalismo è estremamente complesso. Tommaso dice
che osserviamo che alcune cose che esistono in natura, pur mancando di conoscenza, di
intelligenza, agiscono per un fine. L’apparato boccale della farfalla che serve per suggere il nettare
è complicato e ha sempre la stessa funzione, ma non può essere ritenuto intelligente. Tuttavia
questo apparato funziona secondo obiettivi ben precisi. Le parti cooperano per conseguire i fini
specifici dell’apparato e per garantire la sopravvivenza della farfalla. Tutto ciò che non ha
conoscenza non può muoversi verso un fine. Un qualcosa che non ha conoscenze non po’
muoversi verso un fine a meno che non sia governato da qualche ente dotato di conoscenza e
intelligenza. Se vedo una freccia scoccata che colpisce il bersaglio o la freccia è dotata di una sua
intelligenza, oppure qualcuno l’ha scagliata. Quindi, siccome nella natura esistono realtà prive di
intelligenza che non conoscono un fine ma che operano in vista di un fine ben preciso non se ne
può che ricavare che esiste un essere intelligente dal quale dipendono tutte le cose presenti in
natura. Esiste una volontà capace di orientare tutte quelle realtà che di per sé stesse non
sarebbero in grado di orientare la volontà stessa. Nella natura tutta una serie di cose operano per
uno scopo ben preciso. Questo tipo di ragionamento ha trovato delle assonanze anche nel
pensiero contemporaneo. Il fisico Kustler scrive: “Supponiamo che nel corso dei prossimi voli
lunari venga esplorata la faccia sconosciuta della luna, quella che non vediamo mai. Supponiamo
che gli astronauti scoprano una fabbrica automatica che produce alluminio. Esistono attualmente
sulla terra fabbriche totalmente automatiche. Essi ne dovrebbero forse concludere che il caso ha
creato tale fabbrica o che degli esseri intelligenti sono discesi sulla luna prima di essi e l’hanno
costruita? Ambedue queste possibilità sono reali, ma sarebbe logico che il caso ha unito le
molecole in modo da creare siffatta fabbrica? Nessuno accetterebbe questa interpretazione. In un
essere vivente troviamo un sistema infinitamente più complesso di una fabbrica automatica. Voler
ammettere che il caso ha creato tale essere mi sembra assurdo. Se esiste un programma, non
posso ammettere programma senza programmatore. Questo discorso cerca di essere un modo per
sintetizzare il senso dell’argomento finalistico che attende ancora aggi di essere smantellato con
argomenti logici. Nella realtà esistono esseri finalizzati ma risulta impossibile spiegarli senza
ricorrere a un ente che li ha creati.
Filosofia Dic. 11
Testi d’esame: Vanni Rovighi; “Conoscere la verità” di Aguilar Gonzalez; Fides et Ratio; Veritatis
Splendor; Assoluti morali di John Finnis.
Riprendiamo il tema delle vie con le quali la filosofia ha tentato di dimostrare l’esistenza di Dio dal
punto di vista razionale. Integriamo quanto detto con la posizione del magistero della Chiesta
Cattolica. Essa afferma che “Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con
certezza con il lume naturale della ragione umana partendo dalle cose create”. Questa
affermazione (dogma di fede) non afferma che la conoscenza di Dio è automaticamente alla
portata di tutti, ma dice che l’esistenza di Dio può essere conosciuta dalla ragione umana, quindi
anche in una fase che può essere precedente alla rivelazione. La rivelazione invece fornisce delle
importanti informazioni sulle caratteristiche di questo Dio. L’uomo ha questa capacità perché è
creato a immagine di Dio. “Tuttavia, nelle condizioni storiche in cui si trova, l’uomo incontra molte
difficoltà per conoscere Dio con la sola luce della ragione”. L’uomo, ferito dal peccato originale,
non soltanto sperimenta una ferita nella sua volontà, ma sperimenta anche dei limiti nella sua
capacità di comprendere. “Per questo l’uomo ha bisogno di essere illuminato dalla rivelazione di
Dio non solamente su ciò che supera la sua comprensione, ma anche sulle verità religiose e morali
che di per sé non sono inaccessibili alla ragione”.
La filosofia ci dice delle cose sulle caratteristiche di Dio. Il primo aspetto da notare è che la
conoscenza di Dio avviene per via remotionis, cioè avviene attraverso il fatto che l’uomo con
raziocinio percepisce una serie di realtà che vede nel mondo creato. L’uomo si accorge di vivere
nel tempo. Quando diciamo di Dio per via remotionis intendiamo dire che quando parliamo del
concetto di eternità parliamo di un concetto che non sperimentiamo direttamente, ma viviamo la
dimensione del tempo, della finitudine. L’uomo arriva a dire qualcosa di Dio dicendo di lui
esattamente ciò che non è presente qui adesso in modo pieno. Siamo nel tempo, ma Dio è
eternità. Dio è l’essere sussistente. Su questo essere possiamo dire alcune cose e caratteristiche.
Questo essere sussistente è un essere comune a tutte le cose, cioè se è identificabile con le cose
create? Se si dovesse affermare ciò dovremmo sposare una concezione panteista: l’idea che il
mondo si identifica con Dio stesso. Questa concezione presenta vari problemi, tra cui il fatto che le
cose create sono caduche, non sono causa a se stesse. Altro tema è la creazione. Come si può
parlare di Dio Creatore? Molti filosofi che hanno creduto all’esistenza di Dio non sono stati in
grado di parlare di lui come creatore. Il mondo greco ci presenta un dio plasmatore ma che non è
la causa prima. L’atto creativo di Dio è un atto libero o necessario? Aristotele non riusciva a
concepire un Dio che crea liberamente. Nella descrizione di Dio di Aristotele la dimensione
dell’amore non è originata da Dio ma è subita da Dio. Dio è amato dalle creature ma non ama le
creature del mondo. Nella rivelazione cristiana Dio è amore. Il Dio cristiano non è un architetto che
ha dato un colpo al mondo. Dio ha creato con amore il mondo e continua ad amarlo. La creatura
esiste perché continuamente voluta dal Creatore. Questo rapporto continua per tutta la storia.
Plotino e S. Bonaventura contestano l’idea di Aristotele secondo la quale Dio non conosce il
mondo che crea. Mettono in luce come l’atto creativo di Dio non può essere concepito che come
un atto libero. Se così non fosse bisognerebbe concepire un dio limitato in una delle sue qualità
più importanti, cioè la libertà. La conseguenza importante del fatto che la creazione è un atto
libero e non necessitato è che il vero e il bene sono predicati trascendentali dell’essere. In altre
parole significa che la realtà creata è vera e buona intrinsecamente in quanto è stata liberamente
voluta da Dio. Il creato, proprio perché voluto da Dio, non può che essere buono e vero in sé
stesso. In virtù di questo fatto è possibile concepire il mondo creato come buono e vero ed è
possibile concepire anche il concetto di Provvidenza.
Problema della verità nella Veritatis Splendor (1993).
Il titolo di questa enciclica è già un’anticipazione di quella che è la tesi di Giovanni Paolo II: lo
splendore della verità. L’idea che la verità abbia una sua forza in grado di imprimersi in noi. A
questo titolo si può opporre l’oscurità della verità, che per molti pensatori di oggi rimane qualcosa
di difficilmente conoscibile. Ci occuperemo di gnoseologia per fare una riflessione sul modo in cui
l’uomo conosce. Fare filosofia della conoscenza significa filosofare sul modo in cui l’uomo conosce.
Il conoscere è un atto che compiamo in modo fisiologico. Vediamo la realtà senza aver fatto
filosofia della conoscenza. L’attività del conoscere è un’attività innata nell’uomo. Di questa
enciclica del ’93 ci interessano gli scopi. Esistono due ragioni. Il primo motivo è di carattere interno
alla Chiesa. Il cristianesimo ha tra i suoi obiettivi fondamentali anche la necessità di indicare
all’uomo una strada. Bisogna rifuggire dall’idea che il cristianesimo sia soltanto l’affermazione di
un fatto. È certamente l’affermazione di questo fatto ma si pone anche il problema di diventare
una prassi. Se fosse solo il ricordo di un avvenimento del passato assomiglierebbe di più a una
teoria. Invece il cristianesimo è una comunicazione di esistenza (Kierkegaard). C’è la necessità di
proporre all’uomo concreto una strada percorribile nella vita concreta di tutti i giorni. C’è poi un
motivo esterno per cui è stata scritta l’enciclica. La Chiesa intende, quando fa riflessioni di natura
antropologica, aprirsi a tutta l’umanità e offrire la sua riflessione a ogni uomo di buona volontà.
Questo perché è buona norma ascoltare e conoscere ciò che la Chiesa ha da dire quando si occupa
di questioni che riguardano la vita dell’uomo. Soffermiamoci sul primo motivo, quello interno.
Joseph Ratzinger fa notare come la religione cristiana in origine venisse chiamata “via” o “strada”.
Questo significa che il cristianesimo impegnava e impegna l’essere umano allo sforzo di condurre
un certo stile di vita. La fede non è una teoria ma è una prassi. È sì necessaria una dottrina, ma non
è solo una teoria astratta. È necessariamente una prassi. In questo senso il tema della fede include
il tema della morale. Non si può ridurre il credere a generici e fumosi ideali. Oltre a degli ideali è
necessario che la dimensione del credere abbia anche delle indicazioni per la vita di ogni giorno.
Fin dall’inizio i cristiani si differenziano dalle altre forme di religiosità proprio perché hanno da
testimoniare non soltanto con un messaggio ma anche con una testimonianza vivente. Un
cristianesimo che fosse solo ideale non sarebbe più cristianesimo. L’avvento del protestantesimo
ha intrapreso un po’ quella via. Vi sarebbe un fenomeno rilevantissimo come la rivelazione e
l’incarnazione, ma poi si lascerebbe vagabondare l’uomo senza indicare delle inclinazioni morali
certe. Da questo punto di vista questo compito di aiutare l’uomo a trovare la strada è il compito
che la Chiesa rivendica anche nell’epoca moderna. Sul secondo motivo bisogna partire da una
considerazione: il problema di cosa sia giusto e ingiusto è problema di ogni uomo e oggi più che
mai è una ragione che coincide con la stessa sopravvivenza dell’umanità. Se l’umanità smarrisce la
via, la sua stessa sopravvivenza è in pericolo. Esiste anche una ragione esterna della pubblicazione
di questa enciclica: la possibilità dell’uomo di conoscere la verità e i valori; la capacità dell’uomo di
riconoscere se un’azione è buona o cattiva. La modernità tende a mettere fortemente in dubbio la
capacità dell’uomo di conoscere la realtà. Si può descrivere questo fatto anche dal punto di vista
morale. Tutti i principi a cui facevamo riferimento vengono messi in discussione. Se l’uomo non
può conoscere la verità non può conoscere cosa è bene e cosa è male. Questo fatto è così diffuso
che molti pensatori hanno sostituito la domanda classica della riflessione morale che è “che cosa è
lecito fare all’uomo?” con la domanda “che cosa siamo in grado di fare?”. Questo salto logico pone
sullo stesso livello ciò che l’uomo può fare con ciò che è lecito fare. Oggi per poter mettere al
mondo un figlio si può utilizzare la fecondazione in vitro. Fino al 1978 non era possibile. Oggi sì. La
domanda morale è “è lecito fare questo ancorché è diventato praticabile?”. Oggi si tende a fare
questo capovolgimento logico: se è praticabile allora è lecito. In questo la riflessione morale stessa
viene spazzata via perché la caratteristica della riflessione morale sta proprio nel chiedersi se una
cosa che sono in grado di fare sia lecito e giusto farla. La domanda morale è sempre su qualcosa
che l’uomo è in grado di fare. Dobbiamo constatare che l’uomo contemporaneo tende a far
identificare la praticabilità di una certa azione con la liceità dell’azione medesima. Su tutte le
frontiere dell’etica si tende a fare questa identificazione: se si può fare perché non farlo. Questo è
uno dei paradossi della tecno-scienza. Oggi viene chiamato “imperativo tecnologico”: se è
possibile farlo non soltanto è possibile farlo ma devi farlo. Questa visione tecnica ha messo in crisi
il parametro della veridicità. Viene preso per vero solo ciò che è matematicamente dimostrabile.
Siccome la morale, per sua natura, non rientra fra le branchie del sapere umano dimostrabili con
una forma algebrica, la morale scivola inesorabilmente nel territorio dell’opinabile. La nostra
società tende a ritenere che solo che è dimostrabile matematicamente è vero. Se la morale
diventa opinabile ecco che il relativismo di diffonda a macchia d’olio. Bisogna invece fare
riferimento a assoluti morali, affermazioni valide in sé stesse. In questo scenario, in cui la morale è
il territorio dell’opinabile, il massimo grado del valore è la tolleranza di tutti i pensieri. Questo
relativismo si diffonde e ci si deve affidare alla saggezza del singolo, all’autodeterminazione. La
morale classica basata su un criterio di oggettività viene messa in crisi con la relativizzazione
generale e si propongono nuovi modelli di morale:
A. Modello teleologico (da telos, che guarda alla finalità dell’azione). La riflessione morale viene
spostata sul fine per cui si compie una certa azione
B. Modello consequenzialista. Si giudica della bontà di una certa azione tenendo conto delle
conseguenze della sua azione. Le conseguenze previste ci permettono di dire se quella persona
sta agendo correttamente o meno.
C. Modello proporzionalista. Bisogna perseguire l’azione che promette di garantirci in
proporzione il miglior rapporto tra male e bene. Non c’è più un’azione di per sé cattiva ma
anche un’azione cattiva può essere accettata dalla morale se promette dei risultati positivi.
Sono approcci caratterizzati da un dato originario comune: non possiamo conoscere una norma
che derivi dall’essenza stessa dell’uomo e delle cose. La morale classica dice che uccidere è
sbagliato di per sé perché l’uomo è un bene assoluto. Chi uccide l’innocente sta violando questo
valore. La moralità dell’atto umano non dipende più dal contenuto dell’atto in se stesso ma dalle
conseguenze dell’atto. Il concetto di buono in se stesso non esiste più ed è rimpiazzato da una
sorta di equazione quantitativa. Il buono è sempre relativo rispetto a un altro atto.
Filosofia Gen. 8
Nell’ultima lezione avevamo visto diversi approcci morali che superano l’impostazione classica a
proiettano l’attenzione della ragione non tanto sull’azione in se stessa quanto piuttosto sulle
conseguenze dell’azione (concezione teleologica, consequenzialista, proporzionalista). Sono tre
grandi modelli di riflessione morale che hanno conosciuto un certo successo che vengono criticati
dalla Veritatis Splendor. Questi modelli peccano di alcuni errori. L’elemento comune di questi tre
modelli è che si presuppone che l’essere umano non sia in grado di conoscere una norma
derivante dall’essenza stessa dell’uomo e delle cose. Quindi non è possibile questa essenza e
ricavare un giudizio morale di tipo assoluto. L’immoralità di una certa condotta non dipenderebbe
dal contenuto dell’atto compiuto ma dalle conseguenze dell’atto. l’attenzione del giudizio morale
viene spostato dall’atto alle conseguenze dell’atto stesso. Il concetto di buono e cattivo in sé
evapora e viene sostituito da una sorta di comparazione: buono è ciò che è migliore di
qualcos’altro. Questi tentativi del pensiero moderno rispondono a un desiderio legittimo di
cercare di superare i problemi rappresentati da una concezione relativista. Il relativismo è una
forma di pensiero molto diffusa: l’uomo rifiuta la capacità di conoscere le verità oggettiva. La
verità oggettiva è una verità evidente o conoscibile. Il relativismo nega che si possa riconoscere
una verità oggettiva. Vi rimando al messaggio che Papa Benedetto XVI diffuso in occasione della
giornata mondiale della pace: “I diritti umani hanno senso e sono fondati se a loro volta si fondano
sulla dignità della persona umana. Viceversa, nel pensiero contemporaneo, proprio per il prevalere
di questa deriva relativista, c’è la tendenza a negare la definibilità di una natura umana oggettiva,
cioè di un valore intrinseco della persona. Si preferisce dire che esistono i diritti fondamentali della
persona umana ma essi non poggiano su un assoluto, su un valore che sia oggettivo”. La riflessione
filosofia produce effetti molto pratici sulla vita. C’è una pluralità di definizioni dell’uomo
contraddittorie che fanno entrare in crisi l’oggettività dei valori dell’uomo. Questi tre approcci
cercano di superare le aporie del relativismo ma senza successo. L’enciclica ha certamente una
valenza pastorale ma sviluppa anche una riflessione di carattere squisitamente antropologico.
L’enciclica dita la lettera ai Romani: “Quando i pagani, che non hanno la legge, per natura
agiscono secondo la legge, essi pur non avendo legge sono legge a se stessi. Dimostrano che
quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e
dei loro stessi ragionamenti”. Esiste nei cuori umani un bisogno di verità. La riflessione sulla verità
non è una riflessione confessionale ma è aperta a tutti gli uomini. Questa riflessione sul problema
della verità in fondo non è un problema individuale, di coscienza? Perché discutere su queste
questioni, quando si può tranquillamente dire che ognuno la pensa come vuole? Nelle questioni
tecniche si impone un’oggettività quasi dogmatica, ma quando si passa al terreno della filosofia
tutte le conclusioni sono ritenute equivalenti. Il fare filosofia significa riflettere sull’uomo: per cui
la filosofia non deve creare sistemi coerenti al loro interno, ma sistemi coerenti con la verità e con
l’uomo. Il problema è un problema collettivo, che riguarda un bene comune. Fare una riflessione
sul problema della verità tocca anche questioni che riguardano il bene comune. Circa la struttura
dell’enciclica, abbiamo detto che essa partiva da una doppia prospettiva, una interna e una
esterna. L’enciclica parte dal commento di un brano evangelico di Matteo molto noto, l’episodio
del giovane ricco: “Ecco, un tale gli si avvicinò e gli disse: <> Egli rispose: <>. Ed egli chiese: <>.
Gesù rispose: <>. Il giovane gli disse: <>. Gli disse Gesù: <>. Udito questo, il giovane se ne andò
triste, perché aveva molte ricchezze. Gesù allora disse ai suoi discepoli: <>. A queste parole i
discepoli rimasero costernati e chiesero: <>. E Gesù, fissando su di loro lo sguardo disse: <>”. Come
tutti i brani del vangelo, vi è dentro una grande ricchezza. Al papa interessa piuttosto la prima
parte del dialogo. In questo brano c’è un evidente riferimento a uno dei problemi fondamentali
della riflessione filosofica. Il problema del senso della vita e di riflesso il problema del bene e del
male. Non siamo di fronte a una predicazione morale di tipo astratto, ma a prendere l’iniziativa in
questo dialogo è stato il giovane. Il giovane chiede cosa si deve fare per avere la felicità, la vita
eterna. Questa domanda è una domanda squisitamente umana. All’origine di tutto c’è una
domanda che tutti ci portiamo dentro sul senso della vita (non in astratto, ma in concreto). La
domanda sul senso della vita diventa anche una domanda sulla via da seguire. Vi è la percezione
da parte dell’uomo che comunque il senso è un problema di strada da percorrere. Il giovane ricco
chiede difatti cosa “deve” fare. Il giovane ricco è in una posizione già avvantaggiata. Ha già chiaro
quale è lo scopo della vita. Ha chiaro anche che la domanda di felicità può trovare una domanda
reale. Il giovane ricco non è disperato ma sa che esiste il senso della vita e che questo scopo è
perseguibile concretamente. Il fatto che il giovane abbia chiesto al maestro dei consigli manifesta
il fatto che l’uomo, da solo, non è in grado di trovare una risposta completamente esauriente circa
il senso della sua esistenza. La risposta, suggerisce il vangelo, è in Cristo, che ha la risposta giusta. È
una risposta che passa per la riaffermazione di valori che Cristo non rinnega. I precetti ripetuti da
Gesù vengono dall’antico testamento. Il giuramento di Ippocrate, redatto sull’isola di Cos,
contiene una serie di precetti che coincidono con quelli detti da Cristo. Ciò vuol dire che c’è una
riconoscibilità di quella legge naturale che il giovane ricco riconosce già da sé. Gli viene chiesto poi
un passo ulteriore che il giovane non è disposto a compiere. La domanda che ognuno ha nel cuore
è “cosa devo fare per avere una vita piena, felice?”. L’altro spunto di riflessione è la schermaglia
sul concetto di bontà. Tutti gli uomini ricercano il bene. Anche quando l’uomo insegue un male
sempre è convinto di fare qualcosa che gli porti un giovamento. Questo aspetto non deve mai farci
dimenticare che l’uomo non si identifica con il bene. L’unico buono senza limitazioni è Dio.
Raggiungere una vita morale significa tentare di assomigliare a Dio. I dieci comandamenti sono
una sorta di identikit di Dio. C’è un legame intrinseco tra i precetti morali e il bene dell’uomo. I
precetti di Dio rispondono alle buone esigenze dell’uomo. Seguendo i principi morali l’uomo
realizza la vita buona. Il Dio cristiano è razionale. Quando dice all’uomo “non uccidere” dà non
solo un comando ma un mezzo per vivere bene. Ciò che è buono però non sempre è facilmente
raggiungibile. Spesso si accompagna a una serie di rinunce e conflitti. La complessità dell’umano
deriva dal fatto che l’uomo può compiere il male pur sapendo che una certa azione è male. Una
volta che ho riconosciuto il bene e il male non ho ancora messo in atto una vita morale perché
posso essere incoerente. Questa riflessione estrapolata richiama il tema della legge naturale. Chi
cammina sulla via del decalogo è una persona sulla via di Dio. Cercando Dio si cerca una vita
morale e viceversa.
La riflessione sulla verità coinvolge il tema della libertà. La riflessione sulla libertà, dopo la caduta
del muro di Berlino, è riconsiderata. C’è una concezione della libertà oggi molto diffusa che fa
coincidere la libertà con l’arbitrio. Essere liberi significa oggi poter fare ciò che si vuole. Questa
riduzione è distruttiva perché taglia in modo forte qualsiasi rapporto tra il concetto di libertà e
quello di verità. La domanda sulla verità è la chiave di lettura per cogliere il significato del concetto
di libertà. La verità può essere trovata nel nostro essere uomini in quanto tali, cioè nella nostra
essenza. La verità non è un concetto altro all’uomo, ma trova fondamento in una corretta
antropologia. Il discorso sulla legge naturale non nasce con il cristianesimo ma è presente
genericamente nei filosofi classici. La legge naturale è una legge razionale. La legge naturale è –
per Tommaso d’Aquino – la luce dell’intelligenza infusa in noi da Dio. La ragione umana rientra
nella condizione umana. Questa natura umana ha una imperfezione intrinseca, non è onnisciente,
non è la ragione di Dio. Oltre questa difficoltà intrinseca, la modernità è viziata dal diffondersi di
una mentalità neomanichea, cioè il corpo dell’uomo viene considerato come un involucro
biologico del tutto alieno rispetto ai beni morali più profondi. L’idea per cui da una parte c’è il
corpo dall’altra c’è lo spirito è un errore che viene da lontano e che consuma un grave tradimento
ai danni di una corretta antropologia, perché descrive l’uomo in una realtà in cui l’uomo sarebbe
svincolato dall’anima e dalla dimensione dei valori. Questo modo di procedere è erroneo perché
l’uomo è una totalità psicosomatica. Chi fa questa divisione tra beni di ordine morale e di ordine
premorale. Secondo questa concezione ci sarebbero dei beni morali (l’amore per Dio, la
benevolenza verso gli altri, le virtù), e ci sarebbero dei beni premorali (salute, integrità fisica, ecc.).
Si ritiene se con un certo atto vengono lesi i beni premorali l’azione non è moralmente ingiusta. Ci
si sofferma su una distinzione che ha lo scopo di assolvere tutta una serie di atti con questo
escamotage. Ciò che conta è l’intenzione del soggetto. Se il soggetto ha agito con una intenzione
buona, questo sarebbe di per sé sufficiente a rendere buona l’azione che ha compiuto. Questo è
un errore. L’atto umano è sempre scindibile in tre aspetti: scopo, mezzo e circostanze. Per valutare
la bontà di un’azione morale occorre che tanto l’oggetto che lo scopo siano buoni. Uno scopo
buono non è sufficiente a rendere buona un’azione che sia oggettivamente cattiva (cioè, il fine
non giustifica i mezzi). In questo modo l’etica e morale si riduce a scienza delle buone intenzioni.
Per definire se una azione è giusta o sbagliata occorre accordarsi su chi sia l’uomo. L’etica prende
le mosse da una corretta antropologia. Il problema è che si presuppone l’impossibilità di una
conoscenza metafisica. Questo errore del pensiero moderno si ripercuote sulla riflessione morale.
Si dice che oggi non conosciamo l’essenza delle cose; quindi non conosciamo chi è l’uomo; quindi
non possiamo elaborare un sistema morale di carattere oggettivo. Le etiche moderne (Teleologia,
proporzionalismo, consequenzialismo) rinunciano al concetto di essenza e si rifugiano in un’etica
della discussione. Parliamo di etica della discussione perché assistiamo alla creazione di nuovi
modelli etici che legano mani e piedi al criterio del consenso. È impossibile conoscere chi è l’uomo.
È impossibile ricavare un criterio oggettivo. Allora si passa a un’etica della discussione per
conoscere il consenso dei più. Questo consenso definirà i contenuti di un’etica che però è in sé
stessa transitoria, perché il consenso è per sua natura un concetto in trasformazione. Un esempio
di assoluto morale è uccidere l’innocente. Oggi, con l’etica del consenso, uccidere un innocente è
sempre sbagliato? Discutiamone. Se dalla discussione vien fuori che esiste un consenso per
derogare il principio modifichiamo il principio. Questo è lo scenario dell’uomo contemporaneo. La
discussione non può essere considerato come ciò che genera la verità. La verità non è il risultato di
un dibattito, ma precede il dibattito. Questa affermazione oggi è profondamente provocatoria.
L’idea diffusa è che la verità è qualcosa creata dal confronto. Questo dal punto di vista logico non
sta in piedi. L’incontro fra pluralità può generare il compromesso per la convivenza, ma non la
verità. Non si può dire che un confronto genera la verità. Anche nella società democratica e
pluralista il confronto non genera verità, ma può essere a volte il sepolcro della verità. La verità
non può essere messa ai voti. Se la democrazia è solo un sistema nel quale la maggioranza decide
ogni cosa si creano presupposti per scelte di tipo totalitario. Il problema vero è cosa si può fare per
evitare che i sistemi di oggi imbocchino una deriva relativista. Per evitare ciò bisogna filosofare e
riconoscere valori non sottoponibili alla dialettica maggioranza-minoranza. La verità precede il
dialogo.
Rapporto fra riflessione morale e la natura umana. Un problema sollevato spesso nei secoli e nel
’900 è sulla possibilità dell’uomo di vivere una vita morale. Di ciò si trova eco nell’obiezione dei
discepoli a Cristo nel brano trattato. I discepoli dicono che allora è impossibile per un uomo ricco
entrare nel regno dei cieli. Allora una vita buona è qualcosa di bello ma di umanamente
impossibile. Questa è un’obiezione molto solida. Nella vita di tutti giorni tutte queste cose restano
sulla carta. Di solito si dice che chi parla di queste cose è poi incoerente. Quest’idea ha fatto sì che
quei concetti (proporzionalismo, teleologismo, consequenzialismo) sembrano proporre un
cammino più alla portata dell’uomo. È una sorta di diminuzione dell’esigenza morale a un livello
più basso. Alcuni pensano che sia impossibile formulare norme negative assolute (non rubare; non
uccidere). Queste dottrine dicono che è impossibile formulare delle norme negative assolute ma
bisogna valutare un atto a seconda dell’intenzione e dalla previsione delle conseguenze. Se ci si
pensa bene l’effetto di queste dottrine è da un punto di vista esistenziale esattamente il contrario.
Caricano l’uomo di un peso insopportabile: prevedere davvero tutte le conseguenze dei nostri atti.
Nessun uomo può valutare le conseguenze delle azioni che compie. È molto più semplice
riconoscere l’oggettività di un’azione. Mentire sul luogo di lavoro è sbagliato. Se entro nella
prospettiva proporzionalista entro in una spirale senza fine per valutare tutte le conseguenze.
L’altra deriva di queste dottrine è quella di tipo situazionistico. Sono concezioni che ritengono che
non esista un’oggettività morale ma che invece l’uomo debba risolvere i suoi problemi morali con
un’etica delle circostanze. A seconda della situazione si deciderà il da farsi. In queste dottrine
diventa importante il ruolo giocato dalla coscienza. Alcune dottrine negano la possibilità che si
riconoscano razionalmente dei precetti morali negativi. La soluzione è affidare il problema dei
precetti morali negativi alla coscienza individuale. A ogni individuo spetta scegliere e valutare se
quella azione è giusta o sbagliata per lui. Questa deriva comporta un problema insormontabile:
soggettivismo morale. Per questa dottrina non c’è un sistema i valori oggettivi. Nel pensiero
moderno i precetti morali negativi devono essere affidati alla interpretazione individuale della
coscienza. Questo passo fa sprofondare un sistema morale nelle sabbie mobili del soggettivismo.
Ognuno, a questo punto, rischia di interpretare la norma morale a suo uso e consumo.
Filosofia Gen. 15 A
Veritatis Splendor. In quest’enciclica sono riaffermati alcuni concetti fondamentali che ci
introducono al problema gnoseologico. Il titolo connota la presa di posizione. Si inserisce in una
concezione classica, Per buona parte della filosofia classica fino al XV sec. era dato per assodato
che la verità fosse conoscibile. La relazione del pensiero umano e del pensiero con la realtà erano
un elemento scontato. La verità si manifesta all’uomo. Ciò ha anche un’implicazione teologica: la
vera luce dell’uomo è Cristo. Inoltre, la verità non è facile ma è possibile. L’obbedienza alla verità
non è facile. Si inserisce in questo caso la ferita del peccato originale e si inserisce anche una realtà
intelligente, che la tradizione cristiana chiama satana, padre della menzogna. Una delle
caratteristiche di colui che opera per la perdizione delle anime è la menzogna. La verità si intreccia
in maniera stretta con una dimensione esistenziale drammatica della storia umana. La diffusione
della menzogna e dell’idea che la verità non sia conoscibile ha questa paternità. Questo rende più
difficile il cammino dell’uomo. Nella profondità del cuore di ognuno permane sempre la nostalgia
della verità assoluta e la sete di giungere alla pienezza della sua conoscenza. Il fatto che l’uomo si
contraddistingue sempre per una forte attività di ricerca è significativo dell’esigenza e della natura
dell’uomo. La verità si trasforma in una domanda inevitabile e trova una risposta in Cristo. Infatti
la domanda morale del giovane ricco è una domanda per tutti gli uomini, anche i non cristiani. C’è
l’invito a non conformarsi alla mentalità di questo mondo. Il compito che la filosofia ci insegna è
ragionare con la nostra testa. Il problema del non conformarsi al tempo presente è una grande
sfida del filosofo. La non conformità alla mentalità di questo mondo trova nell’enciclica un
riferimento al passo del vangelo, in riferimento al tema della legge naturale. Parlando della
ricchezza i discepoli si spaventano quando il loro maestro dice che “è più facile che un cammello
(tipo di corda) passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli”. Nello stesso
tempo lo sconcerto riapparirà quando Gesù afferma la dottrina sulla indissolubilità del
matrimonio. Cristo dice che non è lecito lasciare la propria moglie o il proprio marito. Allora i
discepoli rispondono che non conviene nemmeno sposarsi. La legge mosaica consentiva formule di
divorzio (ripudio). Cristo si contrappone alla legge mosaica chiamando in causa proprio la legge
naturale, una legge preesistente alle convenzioni degli uomini. Gesù si rifà alla legge naturale. È
interessante ribadire come vi è un legame in tutta la tradizione cristiana con una verità che non è
tale perché affermata dalla divinità, bensì il contrario: è affermata dalla divinità perché vera. Si
esce da una concezione che anche altre religioni hanno. La verità è vera perché razionale. La verità
non si impone con la forza, ma con la sua corrispondenza alla realtà. Esistono fatti che possiamo
affermare essere veri in senso assoluto. Il punto di vista del pensiero critico della filosofia moderna
ha cercato di dimostrare che queste verità non sussistono. Nella tradizione cristiana la veridicità di
un concetto è intrinseco. La verità del matrimonio viene prima della legge mosaica. Un’altra
affermazione dell’enciclica è “conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”. In questa frase sono
presenti in concetto di verità e di libertà. In questa frase c’è un capovolgimento rispetto al modo
col quale siamo abituati a pensare oggi. C’è una sequenza logica molto interessante. La verità
rende libero l’uomo. Nella mentalità corrente viene ritenuto vero il contrario. L’autenticità della
persona risiede nel suo essere libero. Sperimenta la libertà, agisci con autonomia, scegli ciò che
vuoi e così realizzerai la tua natura umana. Qui invece viene data priorità alla verità. La verità
genera libertà. Il giusto è un passaggio necessario per essere uomini liberi. Si confrontano due
concezioni fra loro irriducibili. Da un lato la natura dell’uomo è la libertà e la libertà si manifesta
nel suo arbitrio. In questa concezione il concetto di verità in senso oggettivo non c’è. Invece
l’enciclica manifesta l’esigenza del confronto con la verità per trovare la libertà. Ciò significa che i
criteri di riferimento del bene e del male non sono criteri che possono essere creati dalla coscienza
individuale. La mia coscienza ha il compito di applicare dei criteri oggettivi alla vita concreta di tutti
i giorni. La mia coscienza deve riconoscere che esiste il precetto. La coscienza permette di
confrontare la verità con la mia circostanza concreta, non è la fonte del criterio di giudizio. Henry
Newman diceva che la coscienza ha dei diritti perché ha dei doveri. Ulteriore considerazione è il
rapporto tra libertà e legge. Si richiama un brano dell’antico testamento con riferimento
all’episodio del peccato originale. C’è l’albero in questo giardino. Nel giardino ci sono l’uomo e la
donna che hanno a disposizione l’intero spazio, ma con questa prescrizione: “potrai mangiare di
tutti gli alberi del giardino ma non devi mangiarne dell’albero della conoscenza del bene e del
male. Quando tu ne mangiassi, sicuramente moriresti”. Adamo ed Eva hanno a disposizione tutti i
frutti. L’unica cosa chiesta è non nutrirsi dei frutti dell’albero della conoscenza del bene e del
male. Questo albero di cui l’uomo non può coglierne i frutti rappresenta il peccato originale, che
consiste essenzialmente in questo: nel desiderio e nell’atto da parte dell’uomo di voler stabilire
autonomamente i contenuti della legge morale. Quando il serpente per convincere Eva della bontà
del frutto proibito la convince dicendo che mangiandone potrebbe “diventare come Dio”. Questo
diventare come Dio è riferito e riferibile alla facoltà dell’uomo di diventare norma a sé stesso, il
legislatore del bene e del male. L’uomo ritiene di non aver più bisogno di un Dio che ha l’autorità,
che insegna cosa è bene e cosa è male, ma vuole diventare egli stesso l’unica fonte in grado di
stabilire cosa è giusto e buono. Qui ritorna il senso di quella domanda provocatoria che Gesù fa al
giovane ricco: “perché mi chiami maestro buono?”. Gesù vuole ricordare che solo uno è buono,
Dio. Dio, essendo la bontà, sa perfettamente quello che è buono per l’uomo. La modernità è il
tempo in cui si cristallizza questo tentativo dell’uomo di diventare norma a sé stesso (negazione
della metafisica, relativismo, scetticismo). La conoscenza dell’uomo diventa un problema. Questi
sono alcuni tratti dell’enciclica. Questo percorso nasce da questa ambizione, ybris, tracotanza
dell’uomo. Non è male che l’uomo conosca; il problema è volersi sostituire alla legge naturale per
ridefinire i criteri del giusto e dello sbagliato. Tutta la dinamica della redenzione risulterebbe
inspiegabile se non si tiene per ferma l’esistenza di una colpa originale: il peccato originale. Ogni
uomo rivive la tentazione di Adamo e Eva. Quello che accade nella mia vita non risulta spiegabile
se no riconosco una misteriosa ferita che gli uomini si portano dietro da secoli. Il mistero del male
si inserisce in questa visione e nella esistenza di satana. Se l’uomo ha la ferita originaria ogni uomo
è potenzialmente capace di ogni delitto.
Filosofia 15 Gen. B
La filosofia della conoscenza – gnoseologia
Ha origini nella tradizione greca, ma l’origine di questa branca della filosofia va ricollegata
piuttosto alla filosofia anglosassone, perché è in questo contesto che si sviluppa e conosce la sua
massima espressione.
Quando si parla di gnoseologia si fa riferimento ad un atteggiamento che viene chiamato
atteggiamento critico. Perché? Perché con questa formula si vuole definire la posizione di quei
filosofi che si proponevano di non accettare nulla come dato e stabilito in modo assoluto. In
pratica l’atteggiamento critico cerca di erodere il più possibile delle certezze all’interno della
riflessione umana. Questo obiettivo si espone ad una serie di considerazioni critiche a partire dalla
considerazione che non è possibile criticare tutto.
In generale il pensiero critico è un pensiero che trae la sua origine da quella corrente di pensatori
che ha l’obiettivo di emancipare l’uomo da qualsiasi punto di riferimento oggettivo attraverso il
DUBBIO UNIVERSALE. Si vuole arrivare alla totale assenza di presupposti. Questo progetto che ha
preso le mosse intorno al XIV secolo,e in realtà non è stato raggiunto. Questo fallimento trae
origine dal fatto che i presupposti nel pensiero umano e nella conoscenza, sono sempre necessari.
Qui siamo in un circolo vizioso, perché pretendo di arrivare ad una affermazione certa,” lo
strumento col quale l’uomo conosce è inaffidabile”, ma x arrivare a questa affermazione devo
utilizzare lo strumento che considero inaffidabile. Quindi il pensiero critico si imbatte contro
questo paradosso, è una specie di processo alla ragione umana, fatta utilizzando la stessa ragione
umana. Il filosofare deve sempre fare i conti con alcuni presupposti. Ad es. : per fare gnoseologia
io devo esercitare l’atto del conoscere e successivamente analizzare questo atto del conoscere.
Ma se le cose stanno così, vuol dire che io devo presupporre che l’atto del conoscere sia possibile.
La gnoseologia mi darà delle risultanze nel fatto che io osserverò criticamente il processo del
conoscere, ma questo processo del conoscere non lo posso sottoporre ad una critica radicale. Non
è possibile una teoria della conoscenza che non parta dalla constatazione che l’uomo conosce.
Questo atteggiamento critico ha manifestato segni di contraddizione che porta a riconsiderarlo in
un senso più ragionevole.
Partiamo da una considerazione di carattere etimologico: ATTEGGIAMENTO CRITICO - CRITICA-
CRITICARE. Criticare vuol dire scegliere, giudicare secondo un ideale. Non è possibile criticare se
non esiste un ideale a cui si fa riferimento. Quindi atteggiamento critico vuol dire giudicare con un
criterio. In questo senso abbiamo una accezione della gnoseologia, assolutamente condivisibile
perché significa elaborare un giudizio critico con la nostra testa.
Tra gli autori che hanno avuto un ruolo importante nell’atteggiamento critico , un posto
importante occupa HOCKHAM, padre del NOMINALISMO.
Questo autore è stato utilizzato anche in letteratura per questa sua posizione filosofica che si può
riassumere con questo concetto : noi non abbiamo conoscenza della essenza delle cose , ma noi
conosciamo soltanto i nomi (riferimento al romanzo “Il nome della rosa”). C’è una critica serrata
anche a questo modo di desumere da una serie di indizi certe cose, perché i segni che l’uomo vede
nel mondo, in realtà hanno un significato plurimo, cioè non hanno un significato oggettivo. Il
nominalismo fa questa critica alla conoscenza della persona umana, perché noi conosciamo la
superficie. Al contrario nel pensiero classico si ritiene che si possa conoscere l’essenza delle cose.
Ad esempio c’è una frase in Romeo e Giulietta che recita: “ se anche le rose cambiassero il loro
nome, continuerebbero ad avere lo stesso profumo”.
Se i nominalisti hanno ragione, l’uomo non conosce nulla, conosce solo delle rappresentazioni
della realtà che ciascuno di noi si fa. E a partire da queste considerazioni, che la gnoseologia
diventa problematica, nasce cioè l’atteggiamento critico. Il processo del conoscere diventa
inaffidabile. Questo modo di porsi comporterà una conseguenza molto importante che culminerà
nella riflessione di Cartesio COGITO ERGO SUM. Una delle conseguenze immediate è che i filosofi
affermeranno il primato del pensiero sull’essere: qui l’unico punto di riferimento che ha l’uomo
infatti è il pensare. Da questo filone di pensiero l’essere umano viene ridotto al pensare.
Nell’impostazione classica invece, è sempre stato sostenuto il primato dell’essere perché il
pensare è una qualità dell’umano che per manifestarsi ha bisogno dell’esistenza. Invece dal
nominalismo e da Cartesio si capovolge la prospettiva : il pensiero è l’elemento rivelatore
dell’esserci e del non esserci, ma non si confronta con l’essenza delle cose che non si possono
conoscere.
Le conseguenze sono state evidenti, perché se hanno ragione i nominalisti, non è possibile arrivare
ad un giudizio di verità. Non ho più alla mia portata dei criteri di giudizi oggettivi. La riflessione è
collegare questi aspetti teoretici con la vita di tutti i giorni. Cartesio nella storia della filosofia ci
dice che l’essere si risolve nella sua coscienza, intesa come autocoscienza, capacità di pensiero.
Per cui se si accetta questa impostazione del primato della coscienza sull’essere, la conseguenza
che se ne ricava è che la nostra ragione è come se fosse in una stanza chiusa, perché non potendo
conoscere l’essenza delle cose, la ragione dell’uomo non attinge le informazioni dall’esterno, ma
solo dalle proprie idee. Quindi c’è una incomunicabilità tra l’intelligenza dell’uomo e la realtà che
la circonda. Questa concezione spiega molti modi di vivere della società odierna. Kant si inserisce
dentro questo filone e si impegna a costruire una filosofia costruita con l’obiettivo di contrapporsi
alla concezione classica ( S Tommaso, Aristotele parte della filosofia pre-cristiana). Il meccanismo
della conoscenza è in relazione con la realtà ma attinge anche ad altri concetti.
Filosofia Feb. 15
Eravamo arrivati ad introdurre il concetto di gnoseologia. Abbiamo visto il ruolo giocato da
Guglielmo da Ockham che ha dato inizio a una certa corrente. Per gnoseologia si possono
intendere due modi di intendere questo problema:
Modo classico. Sana riflessione per capire il meccanismo col quale l’uomo conosce la realtà.
A. Per filosofia della conoscenza non si intende nulla di rivoluzionario ma solo qualcosa che fa
parte della metafisica.
Problema critico. A partire da Guglielmo da Ockham parte l’idea critica nel senso dirompente
B. del tempo. alcuni filosofi contestano radicalmente la possibilità stessa di conoscere la realtà. È
una critica alla affidabilità della conoscenza. Ecco il perché del concetto di problema critico:
mettere in dubbio tutto il processo della conoscenza e affermare che la nostra conoscenza non
è affidabile. L’uomo non è in grado di conoscere la realtà.
Ockham si segnala per il suo pensiero nominalistico: per lui l’uomo conosce solo il nome delle
cose. Tutto è convenzione. Non è possibile conoscere l’essenza delle cose. L’unica capacità
conoscitiva che Guglielmo riconosce è quella conoscenza diretta che l’uomo ha delle cose
individuali. Posso vedere e toccare un certo oggetto determinato ma è l’unico livello della
conoscenza praticabile. Guglielmo di Ockham nega la conoscenza di tipo astrattivo. Quando
l’uomo astrae entra in un territorio che è fonte di inganni. Questa concezione ha avuto riscontri
nei secoli successivi, influenzando altre teorie, tra cui l’empirismo. L’empirismo dice che l’uomo
conosce gli oggetti in quanto direttamente conoscibili o grazie a una specie di intuizione o in forza
di una intuizione razionale. In ogni caso, si inaugura nel pensiero filosofico una concezione scettica
rispetto alla capacità dell’uomo di conoscere la realtà. Ciò dà origine a una concezione fortemente
critica (dubitativa circa la possibilità dell’uomo di conoscere). L’autore che porta a compimento
questa concezione è Immanuel Kant. Con Kant si opera una “rivoluzione copernicana”. Nel caso di
Kant si capovolge il rapporto tra la persona e le cose conosciute. In altre parole, mentre nella
concezione classica la realtà sta al centro e intorno ruota l’intelletto. Nella teoria classica l’essere
umano deve adeguarsi e dipende dalla realtà che osserva; l’oggetto condiziona la mia intelligenza
e io compio un atto conoscitivo vero quando ciò che dico è conforme alla realtà che osservo. Con
Ockham e Kant si passa a una concezione capovolta: la realtà ruota intorno. Questo non è solo un
cambiamento simbolico, ma è un cambiamento stanziale. Se accetto una concezione della
conoscenza di questo tipo, cambia anche la definizione della verità. La verità non sarà più
l’adeguarsi dell’intelletto alla cosa, ma è fortemente condizionata dal soggetto che percepisce. La
realtà ha una oggettività per il mondo classico; la realtà dipende dal punto di vista per i critici. I
prodromi erano già stati creati da Cartesio. Nel “cogito ergo sum” di Cartesio c’è una
prefigurazione di quel capovolgimento successivo. In questa affermazione c’è il primato del
pensiero sull’essere. Prima viene l’atto del pensare e poi l’essere. Il fatto che sto pensando è
conferma dell’essere. Il pensiero classico invece diceva il contrario “primum vivere, deinde
philosophari”. Prima si esiste, e solo dopo si può discutere. Per compiere qualsiasi atto prima si
deve esistere. Cartesio pone con questa affermazione una svolta radicale. Introduce il primato del
pensare sull’essere. Il capovolgimento scettico pone le basi per una relativizzazione dell’oggettività
del conoscere. In verità, l’essere comanda sulla mia conoscenza, non il contrario. Il fatto del
pensare a un oggetto non determina l’esistenza dello stesso, anzi, la richiede. La realtà esiste
indipendentemente dal nostro atto del conoscere. Oggi siamo sempre più portati a pensare che è
il nostro pensiero che genera la realtà. Cartesio è anche ricordato per il dubbio metodico, il dubbio
cartesiano. Il dubbio cartesiano (il dubbio sistematico) è proprio un sintomo di questa concezione.
Le conseguenze di questa concezione portano alla morte della filosofia. Se si afferma che viene
prima il pensiero, segue la morte di Dio e della metafisica, e la morte dell’uomo: l’uomo diventa un
soggetto incapace di conoscere ciò che lo circonda. Nell’Ottocento Nietzsche ha filosofato la morte
di Dio. Se la filosofia è soltanto critica, demolizione della possibilità dell’uomo di conoscere, alla
fine la filosofia mangia sé stessa. Se il pensiero è incapace di conoscere, è inutile continuare a
filosofia. Questo filone della filosofia non è stato l’unico del novecento. Si è assistito a un forte
ritorno a Tommaso d’Aquino. Questo ritorno al realismo critico (l’essere viene prima del pensiero)
è un segnale di come il criticismo esasperato ha esaurito la propria spinta. Alla fine vediamo
contrapporsi due concezioni filosofiche: chi crede che la realtà è la fonte di conoscenza, misura
della verità; e chi crede che misura della verità sia il soggetto individuale. Se precisiamo il rapporto
tra filosofia e gnoseologia dobbiamo superare l’idea per cui la gnoseologia deve essere considerata
al vertice della piramide tra le domande del filosofo. Il filosofo cerca invece di rispondere a
determinate domande che l’essere umano ha in sé. Il critico crede che il filosofo deve innanzitutto
filosofare sulla gnoseologia. Questo approccio è innaturale. Ognuno di noi prima conosce e poi
può discutere una riflessione su come è avvenuto questo atto. L’atto del conoscere viene fatto
senza aver fatto una riflessione filosofica. Il bambino prima impara e poi conosce l’atto del
conoscere. La gnoseologia va riconosciuta come una cosa utile e legittima ma non deve essere
collegata al vertice della metafisica. Per quanto riguarda la terminologia: abbiamo detto che si può
parlare di gnoseologia e filosofia della conoscenza, oppure critica. Quest’ultima definizione però
mette l’accento su questa dimensione demolitiva. Anche pensatori classici si sono interrogati sui
meccanismi della conoscenza. Aristotele ha scoperto un principio logico fondamentale: il principio
di non-contraddizione. Non si può affermare che A è e non è. Questo principio ci dimostra che
l’approccio corretto parte dall’essere. È l’essere che condiziona il giudizio. Tommaso d’Aquino
affronta il problema della conoscenza. Mette l’accento sulla centralità dell’oggetto: la conoscenza
è l’adeguamento della cosa conosciuta e dell’intelletto. Allo stesso tempo il luogo primario in cui si
trova l’atto del conoscere è nell’intelletto. Queste due affermazioni sembrano contraddittorie. Le
cose conosciute sono reali, ma l’atto del conoscere avviene nella mente. Bisogna cercare di capire
come si collegano queste due entità. Già Agostino aveva detto: “Si fallor sum”. Agostino faceva in
un dialogo serrato contro gli scettici. Gli scettici affermavano di non sapere nulla. Agostino
risponde che se si afferma di essere perennemente in una condizione di incertezza, allora si è in
una condizione in cui si può sbagliare. L’atto dello sbagliare presuppone l’esistenza. Quindi, essere
scettico e vivere nel dubbio è una prova dell’esistenza.
Nella teoria della conoscenza è fondamentale scoprire il primato della realtà. Non a caso è stato
osservato che educare significa introdurre alla realtà totale. Questa frase ci fa cogliere cosa
significa fare esperienza della realtà. Ogni essere umano porta nel mondo una serie di domande,
riassumibili così: cosa c’è intorno a me? Che senso ha ciò che mi circonda? Che valore ha ciò che
mi circonda? Chi sono io? Che senso e che valore ho io? Queste domande sono contenute in
ognuno. Bisogna educare il nuovo essere a rispondere a queste domande, a introdursi alla realtà
totale. Se manca questa attività educativa l’uomo non è in grado di darsi una risposta automatica a
questa domanda. Quando diciamo che c’è una mancanza di vera educazione si intende incapacità
di relazionarsi con la realtà. Devo fare i conti con la realtà: contro i fatti non valgono argomenti. I
fatti sono ostinati. Posso essere un bravo dialettico, ma i miei discorsi non modificano la realtà.
Ecco perché l’agire morale ha una sua concretissima dimensione: quello che l’uomo fa accade e
non può essere cancellato. Nella prospettiva della filosofia della conoscenza si può definire la
verità come “adeguamento della cosa e dell’intelletto”. Cosa e intelletto, quando c’è una
conoscenza vera, si identificano. Dobbiamo immaginarci che esiste una realtà conosciuta; oltre
quella c’è uno strumento conoscitivo che è l’intelletto. Se ragionassimo come la filosofia critica
diremmo che questa è un’ambizione da abbandonare. Invece sappiamo che l’essere umano ha
delle verità. Per compiere l’atto conoscitivo devo esistere. C’è una identificazione della cosa
conosciuta con l’intelletto. L’ente condiziona l’atto del conoscere. Questa definizione (verità come
“adeguamento della cosa e dell’intelletto) fa vedere che l’essenza della verità è la conformità tra
cosa e intelletto. Si adegua la mia intelligenza ad identificare la cosa reale. Questo atto implica che
l’intelletto si è adeguato alla realtà esistente. L’ente, nella concezione tomistica, è la realtà
conosciuta. In qualche modo dell’ente si può anche dire che equivale al vero. Una delle
caratteristiche dell’ente è di essere conoscibile. Siccome tutta la realtà è potenzialmente
conoscibile, una caratteristica dell’ente è la sua veridicità, nel senso di conoscibilità. Il giudizio sulla
realtà può essere operato proprio dall’intelletto. L’intelletto può riconoscere la veridicità dell’ente.
Quest’adeguamento dell’intelletto all’ente non è un adeguamento di tipo fisico-materiale, ma
“formale”, che riguarda la forma, l’essenza. Io conosco l’ente perché nel posseggo la forma, e
quindi mi conformo. Non esiste un triangolo perfetto, disegnato in maniera perfetta. Conosco
l’ente perché lo osservo e ne conosco la “forma”. Si può usare anche il termine di
“identificazione”. La conoscenza è l’identificazione tra ente e intelletto. Questo ci fa capire che
l’intelletto possiede una capacità che l’ente non possiede: uscire da se stesso per adeguarsi
all’ente. L’intelletto compie questa azione. La qualità dell’intelletto di uscire da sé è tipica
dell’intelletto e non degli oggetti conosciuti. Possiamo riassumere affermando che il processo di
adeguamento veritativo è una relazione intenzionale tra l’intelletto e l’ente. In questa relazione c’è
protagonista l’uomo che mette la volontà. La volontà conoscitiva è intrinseca all’uomo. L’atto del
conoscere è connaturale all’uomo. L’uomo è assetato di verità. Se l’intelletto ha questo ruolo
attivo nello stesso tempo è l’ente a reggere l’intelletto e non viceversa. L’ente vincola, condiziona
l’intelletto nella conoscenza. Kant invece pensava il contrario: l’intelletto regge l’essere. Tutto
questo discorso che appare molto tecnico ha delle ricadute nella vita quotidiana: se accetto questa
idea di verità allora la verità delle cose non dipende da quello che dico io, ma è il contrario. È la
verità di quello che io dico che dipende dalle cose. La veridicità di una sentenza del giudice
dipende dalla realtà delle cose. L’ente condiziona la verità. Molte volte il pensiero dominante ci
induce a credere che il giudizio soggettivo condiziona l’ente. Tutto ciò che è stato detto può essere
riassunto dicendo che “la verità è condizionata dall’ente al punto tale che l’entità della cosa
precede la ragione di verità”. Viene prima l’esse del giudizio di verità. Secondo Tommaso d’Aquino
ci sono discorsi razionali (vie) per dimostrare l’esistenza di Dio. Il problema di Dio presenta di
fronte all’uomo due alternative: o questo Dio esiste o no. Queste due alternative non possono
convivere. Non può essere vero contemporaneamente che Dio esiste e non esiste. La verità sulla
esistenza e la non esistenza non è data dal giudizio dei più. L’esistenza viene prima del giudizio
(che poi rimane libero). Il problema della verità precede il giudizio stesso.
In filosofia la verità si può descrivere con tre diverse modalità:
A. Verità come conformità dell’intelletto con la cosa
B. Verità come conoscenza vera
C. Verità come verità delle cose
In ognuna di queste tre definizioni c’è la concezione di adeguamento, di identificazione
dell’intelletto. Accanto a questa centralità della cosa, Tommaso dice “che la verità si trova
principalmente nell’intelletto piuttosto che nelle cose” (De veritate). Cerchiamo di capire come si
conciliano queste due affermazioni ( l’ente regge l’intelletto; la verità si trova principalmente
1 2
nell’intelletto piuttosto che nelle cose). Abbiamo il nostro ente, la realtà. Essa esiste anche se il
nostro intelletto non opera. L’atto del conoscere avviene nell’intelletto: sono io che conosco. Ecco
perché Tommaso dice che l’ente regge l’intelletto, ma contemporaneamente la cosa conosciuta è
primariamente nell’intelletto. Tommaso d’Aquino approfondisce il concetto di verità in relazione
ai diversi tipi di intelligenza. Distingue tra intelligenza umana e divina. Aggiunge che l’intelligenza
umana si divide in pratica e in speculativa. Per intelligenza umana pratica si intelligenza per mezzo
della quale l’uomo riesce a realizzare e costruire determinati manufatti. La caratteristica di questa
intelligenza è dar vita a realtà che non esistono. In questo senso l’uomo è artefice di determinati
manufatti. L’intelligenza speculativa dell’uomo riceve dalle cose la conoscenza che possiede. È
l’intelligenza condizionata dall’ente nell’atto conoscitivo. Questo tipo di conoscenza accoglie le
cose per come sono. Abbiamo visto che c’è anche un’intelligenza divina. Essa è l’origine di tutte le
cose che esistono ed è misura di tutte le cose, fin nella loro essenza. Questo tipo di intelligenza
presenta delle analogie con l’intelligenza pratica dell’uomo. Anche l’uomo è artefice delle cose che
costruisce. La differenza è che l’intelligenza divina è causa di tutte le cose, mentre l’intelligenza
pratica umana è rilevante nel fieri, nel produrre l’oggetto, perché deve attingere dalla materia che
già esiste. Questa distinzione serve per capire dove va la filosofia oggi. Una parte del pensiero
contemporaneo dice che dobbiamo limitarci a riconoscere una dimensione di verità possibile solo
al livello dell’intelligenza pratica, cioè al livello in cui l’uomo costruisce (tecnica). Secondo questo
pensiero al di fuori di questo livello dell’intelligenza umana la verità non è possibile. Invece la
concezione classica della filosofia riconosce la conoscibilità del vero anche al livello
dell’intelligenza speculativa. Questa conoscenza del vero può avvenire soltanto se si mantiene
ferma questa idea (e non si scivola nell’errore kantiano) che l’ente è al centro del processo di
conoscenza.
Filosofia 22 Feb. A
Il problema critico e la gnoseologia (parte del programma del testo di Aguilar G. )
Una delle questioni che abbiamo visto è che la riflessione sulla conoscenza può essere interpretata
o con un atteggiamento dove il problema critico è da intendersi come radicale negazione della
possibilità per l’uomo di conoscere la realtà, o l’atteggiamento nel quale l’uomo vuole compiere
una riflessione su come avviene il processo del conoscere, avendo una fiducia intellettuale iniziale,
e cioè che questo atto del conoscere è effettivamente in grado di farci entrare in contatto con la
realtà che ci circonda. Questa riflessione è utile perché abbiamo la possibilità di approfondire
meglio cosa conosciamo e come conosciamo. Osservando l’atto del conoscere, io posso verificare
se il conoscere avviene in modo corretto.
Oggi rispondiamo alla domanda : “chi mi assicura che conosco le cose come stanno?“
Vediamo quali potrebbero essere le risposte:
A. me lo assicurano le cose : risposta sbagliata perché non sono le cose che mi dicono che
capisco le cose come stanno ;
B. sono gli altri : sbagliata perché gli altri sono nella mia stessa posizione;
C. è Dio : sbagliata perché se per assurdo questa risposta fosse vera noi saremmo come
Dio;
D. l’unico modo è attraverso l’analisi sugli atti del conoscere, cioè sono gli atti concreti del
conoscere che mi permettono di capire se le cose le vedo così come stanno. L’atto del
conoscere va studiato nel momento in cui io conosco. L’epistemologia va a vedere
l’uomo mentre fa la ricerca, osservarlo e da qui assumere considerazioni di carattere
teoretico.
Come avviene l’atto del conoscere. Ci sono tre momenti:
A. apprensione ;
B. il giudizio
il raziocinio.
C.
APPRENSIONE
È quella fase della conoscenza attraverso la quale la mente umana percepisce il concetto. Se io
faccio una riflessione sul mio atto del conoscere mi accorgo che nel mio riconoscerla mi si
accende nella testa un concetto, io vedo un tavolo e per poter dire che quello è un tavolo,
nella mia testa si è materializzata l’idea del tavolo. IL concetto è un modo di essere;
GIUDIZIO
Consiste nella operazione per la quale la mente collega fra loro attraverso il predicato due o
più concetti. Nel giudizio rispetto all’apprensione, c’è di ulteriore l’elemento volitivo, della
volontà; io prendo con l’apprensione e lo collego col verbo essere ad un altro concetto. “
Questo tavolo è bianco “ è un giudizio.
RAZIOCINIO
Nel quale la mente mette in relazione giudizi. Un esempio è il sillogismo :“ tutti gli uomini sono
mortali, Socrate è un uomo, Socrate è mortale”. La mia mente ha operato un collegamento tra
questi giudizi e ne ha ricavato una conclusione.
Domanda : “Dov’è che si coglie la verità sulla realtà ?”
• è possibile che sia nei concetti : no perché i concetti descrivono un modo di essere
astratto. Se io penso al concetto uomo, non è un concetto verso il quale io posso
applicare la categoria del vero e del falso.
• Solo quando predichiamo un concetto da altro, cioè solo quando c’è un giudizio,
collegamento fra concetti , allora possiamo interrogarci sulla sua veridicità.
Questa riflessione che cosa ci può aiutare a capire se noi conosciamo le cose come stanno ?
In ogni caso è un modo di ragionare che noi quotidianamente mettiamo in atto. Ci accorgiamo
che esso contiene implicitamente una serie di realtà oggettive. L’uomo è in grado di conoscere
alcune cose osservando semplicemente il processo del conoscere. Secondo il metodo del
realismo è proprio l’osservazione delle cose che accadono nella realtà che l’uomo può
desumere che l’intelligenza è capace di conoscere la realtà.
Quali sono le verità implicite nel giudizio?
• il giudizio è sempre su qualche cosa. E’ possibile formulare un giudizio sul nulla? No.
Allora ecco la prima verità implicita : per il solo fatto che l’uomo è capace di giudizi,
questo ci rivela che esiste qualche cosa. *
• La realtà giudicata è diversa da me. La realtà che giudico è cosa altra da me. C’è un
mondo che è fuori da me e un mondo mio interiore che sono io. Ma io non coincido
con la realtà giudicata. Quindi c’è: Io esisto, l’atto del conoscere e la cosa conosciuta.
*Il giudizio è sempre su qualcosa di determinato. Questo mi dice che nel giudizio c’è
implicitamente una pretesa legittima dell’intelligenza di conoscere le cose come sono.
• Un cosa concreta e determinata è che nessuna realtà determinata può essere
contraddittoria in sé stessa. Stiamo enunciando quello che è il principio di non
contraddizione.
Queste 3 verità implicite mi stanno dicendo che nell’atto del conoscere non c’è una
dimensione esclusivamente soggettiva, ma c’è una pluralità; tuttavia, siamo in un territorio
dove c’è molta oggettività. Le verità sono intelligibili anche se ancora devo verificare nel
dettaglio quali sono i problemi legati all’atto conoscitivo, come l’errore. L’errore è il problema
x cui io debba riscontrare che nel giudizio questo collegamento non corrisponde alla realtà. Il
giudizio quindi è su qualche cosa di determinato, ma determinato da me. Questo fatto, mi fa
riflettere anche che nell’atto del giudicare ci sono 3 ulteriori momenti:
A. ciò che giudico;
B. del giudicare
C. che giudica.
Alcune concezioni gnoseologiche compiono una confusione tra il soggetto conoscente e
l’oggetto della conoscenza (come avviene nell’idealismo che compie un ribaltamento) . Allora è
interessante che noi dobbiamo riconoscere che ci sono tre aspetti distinguibili. Questa
distinzione mi proietta di fronte ad un'altra realtà implicita e cioè che IO ESISTO. Quindi colgo
in modo implicito una realtà oggettiva, la realtà del mio esserci. Questa riflessione sull’atto del
conoscere è interessante se la applichiamo alle questioni pratiche.
Errore. L’atto conoscitivo è reso problematico dal fatto che la conoscenza dell’uomo è sempre
incompleta. Questo fatto ci apre di fronte ad una apparente contraddizione, cioè come se nel
giudizio si annidassero delle cose oggettive e delle realtà relative e variabili. In realtà questa
apparente contraddizione è superabile perché è la differenza tra ciò che è variabile e ciò che è
assoluto : l’oggetto della conoscenza è oggettivo, che attiene all’oggetto del giudizio; ciò che è
relativo è il modo del conoscere. Quindi ecco spiegato che nella riflessione gnoseologico esiste
qualcosa con un carattere di relatività e qualcosa assoluta. Queste due coesistono perché l’oggetto
reale del giudizio è oggettivo, anche se io avrò sempre di questo oggetto una conoscenza parziale.
Se viene commesso uno sbaglio nel giudizio, è il soggetto conoscente che deve trovare le cause
dell’errore. Quando non c’è errore nel giudizio c’è una conformazione della percezione alla realtà.
La materia del giudizio si conforma alla realtà. La mia condizione soggettiva influenza il mio
giudizio ma non è in grado di cambiare le cose come stanno. Il modo del conoscere è sempre
personale.
Quindi non c’è una contraddizione tra dimensione variabile e assoluta. E’ l’uomo che coglie in
maniera soggettiva una realtà che rimane oggettiva.
PROBLEMA DEGLI ASSOLUTI MORALI
Domanda principale :
Esistono dei comportamenti umani che possono essere definiti dei mali in sé stessi?
La contrapposizione che individua Finnis è tra due modi di intendere la morale
• Classica, che noi sosteniamo: il giudizio sull’atto morale porta sempre dentro di sé un
carattere di oggettività
Va superata l’idea che esistano dei giudizi morali.
•
Queste 2 correnti possono essere ricondotte a un ambito di teorie relative e un ambito di teorie
assolute, dove per relativo e assolute si vuole far riferimento al fatto che una delle caratteristiche
delle teorie relative è interpretare l’atto umano alla luce di una serie di fattori che potremmo
definire come le conseguenze, il fine dell’atto, il bene o il male atteso. Quando parliamo di morale
parliamo di atti umani liberi e volontari, cioè gli atti compiuti consapevolmente dalla persona. La
morale si interessa di capire se un atto compiuto volontariamente sia cattivo o meno. Nelle teorie
classiche , si suole distinguere il contenuto dell’atto (oggetto), il fine( scopo), circostanze. Nella
concezione classica, il libero arbitrio è un dato assodato, però questa è una libertà presupposto,
cioè la libertà necessaria per poter giudicare l’uomo. Nelle teorie relative invece, c’è solo la libertà
presupposto, la libertà è scelta, a prescindere dal contenuto della scelta.
Torniamo ai 3 aspetti della morale nelle concezioni classiche. Questi da un punto di vista umano,
in realtà vengono contestualmente. Nelle nostre azioni libere sono sempre contenuti questi 3
aspetti. Il fine dell’azione è l’obiettivo che mi prefiggo di raggiungere con quella azione. Le
circostanze sono le sfaccettature all’interno delle quali l’atto viene compiuto. Stare all’oggetto
dell’atto vuol dire attenersi a quello che si sta facendo. Nella valutazione dell’atto morale il primo
aspetto su cui interrogarsi è l’oggetto. Il secondo problema è quello del fine. Oltre allo scopo ci
sono le circostanze che sono quegli elementi accidentali che influiscono sulla valutazione morale.
Le teorie relative che riconoscono le fasi , dicono che non è possibile affermare che un certo atto
in virtù del suo oggetto è sicuramente cattivo, ma per valutare bene dobbiamo tener conto
soprattutto del fine e delle circostanze; Le concezioni classiche invece, affermano che un atto
umano se è cattivo per quanto attiene al fine e all’oggetto ,è certamente un atto immorale.
Domanda: ma se io avessi una situazione per la quale l’oggetto è discutibile, ma il fine è buono,
come devo giudicare questa condotta? Per le teorie assolute, perché un atto sia buono, deve
esserlo sia nel fine che nell’oggetto. Il fine non giustifica i mezzi. Il libro di Finnis è proprio
incentrato su questo problema, cioè se si possa ritenere che per un fine buono siano moralmente
giustificabili dei mezzi problematici. Le circostanze devono essere tenute in considerazione, ma
non sono così forti da capovolgere un giudizio morale su fini non buoni.
Filosofia Mar. 8
Articolo che si riferisce a un fatto di cronaca nera. Costituisce una riflessione intorno a diversi
aspetti analizzati: il senso della vita (la filosofia aiuta l’uomo a rispondere alle domande
esistenziali). In questo articolo il commissario Luigi Calabresi racconta quale fu la ragione per cui
aveva deciso di fare questo mestiere. Calabresi era un commissario che lavorava a Milano. Le BR
assassinarono Calabresi perché egli veniva accusato della morte di un anarchico. Molti giornalisti
firmarono un documento col quale dichiaravano che il commissario Calabresi era un assassino. Il
clima creato favorì anche l’attuazione di questa sorta di esecuzione con cui Calabresi fu ucciso.
Calabresi era cristiano. Questo articolo descrive il motivo per cui Calabresi aveva deciso di fare
questo lavoro. Il caso Calabresi è interessante dal punto di vista giudiziario: dopo 20 anni un uomo
incensurato si presentò alla caserma dei carabinieri accusando sé stesso e altro complici
dell’omicidio. Da questa dichiarazione e “chiamata in correo” partì il processo che investì Sofri.
Sofri fu chiamato in causa da Marino. Di fronte a questo fatto ci fu un processo. Sofri fu
condannato (si professò sempre innocente). Si sono svolti 8 processi su questo caso alla fine dei
quali Sofri, Bonpressi e Marino sono stati riconosciuti colpevoli. Ci interessa vedere chi era
Calabresi. In quegli anni a Milano (’69) si svolge una strage. Quando accade questo episodio del
terrorismo è agli inizi. Calabresi era noto come un poliziotto molto corretto, che trattava con le
manifestazioni.
Lettura fotocopia “Calabresi”
Queste parole sono state pronunciate nel 1966. Calabresi, parlando del suo tempo, descrive le
stesse tematiche che si affrontano oggi. L’altra considerazione è che questa testimonianza merita
attenzione perché non si può accusare Calabresi di mentire. In questo testo si presenta per quello
che è. Usa un linguaggio molto semplice e dice delle cose molto profonde. Calabresi dice che ha
scelto questa strada per vocazione. Nella vita il problema dell’uomo non è esercitare una libertà
assoluta, ma la vita è una risposta a una chiamata, un destino che corrisponde alla ragione per cui
sono venuto a questo mondo. Qualsiasi professione deve essere vista con una prospettiva ampia.
Calabresi sa che nel suo lavoro si guadagna poco e si hanno rischi alti. Calabresi sottolinea che è
cambiato il modo con cui si misurano le cose “un tempo il metro con cui si valutavano gli uomini
era diverso: si valutavano per ciò che erano, per ciò che rappresentavano, per la posizione e la
stima di cui godevano, per il gradino che occupavano nella scala sociale, e così via. Oggi invece
conta il successo, questa medaglia di basso conio che su una faccia porta stampato il denaro e
dall’altra il sesso”. Calabresi intuisce che la realtà si sta trasformando. Questa nuova realtà impone
che una persona si realizzi non se risponde alla sua vocazione, ma se diventa qualcuno conosciuto.
Sono parole impegnative. Quest’uomo parla di onestà e purezza. C’è un’idea di integralità della
vita: quello che sei veramente lo porti nella tua vita professionale. Se sei un tipo appassionato e
onesto, queste cose le porterai anche sul posto di lavoro. La vita cristiana viene portata
integralmente nella professione. Con quale metro si deve misurare l’uomo? Non è vero che il
conformismo deleterio si può combattere solo imboccando la strada della violenza e
contestazione violenta. C’è la necessità di essere controcorrente, serenamente. “Sentiamo più
degli altri il turbamento, apparteniamo a due mondi che si scontrano”. Questa affermazione torna
alle radici dell’esperienza cristiana: c’è un mondo diverso per colui che crede, e questo confronto è
a volte lacerante. Il cristiano è peccatore come il non credente, ma dà scandalo, perché la strada
del cristianesimo è difficile da percorrere. La strada cristiana o entusiasma o irrita. I giovani
controcorrente si scontrano con questo mondo che li esclude e li sopprime. L’eliminazione di un
uomo non si fa solo con la pistola ma anche con la diffamazione televisiva. “Sentiamo di avere un
gran vantaggio. Se il non credente fallisce e non realizza gli ideali suoi, cade nello sconforto più
completo, nella disillusione più amara”. Calabresi dice che anche le persone che non credono
hanno un ideale di vita e un progetto, però il nel momento del fallimento cadono nella disillusione
più amara. “Il giovane cattolico avrà le sue crisi passeggere, che però di risolveranno, perché c’è un
aiuto di ordine superiore che s’innesta nella sua realtà e nella sua umanità”. Questo tipo di
relazione fa vedere che la dimensione soprannaturale aiuta la natura dell’uomo. Non c’è nulla che
sacrifichi quello che siamo e facciamo. La vocazione consiste nella realizzazione di quello che si è.
“Se gli scopi vengono riposti in cose puramente terrene, fossero le più nobili e le più belle, poi,
quando i tempi e la società non consentono di realizzarle, subentra lo sbandamento morale, la
delusione”. Calabresi conclude il discorso con una frase “così vorrò essere io con i miei figli, se la
fortuna mi aiuterà”, frase che non ha potuto mettere in pratica. Nella vita succede l’imprevisto,
l’imponderabile, la cattiveria degli uomini, fatti che possono frapporsi tra ciò che vogliamo e la
loro realizzazione. La riflessione verte anche sull’aspetto educativo: “Il genitore deve fare il padre
o la madre; quando vuole fare troppo l’amico o il fratello maggiore sbaglia”. Chiama in causa il
problema del ruolo dell’educatore. Richiama anche l’accenno alla maggioranza amorfa. Calabresi
non ce l’ha con coloro che hanno ideali, che comunque lui non condivide, ma ce l’ha con coloro
che non hanno nemmeno davanti a sé il senso della loro vita, si lasciano vivere, non si sono posti il
problema della vocazione. “Non è vero che si educa e ci si educa allo stesso momento”. Ci sono dei
momenti in cui i ruoli non possono coincidere. Nel rapporto educativo c’è l’affidarsi a qualcuno
che ha qualcosa da dare. Se non hai niente da dare lo stai prendendo in giro: non è educare. Il
nostro tempo è il tempo in cui la figura del padre è entrata in crisi.
Il problema del senso della vita può riceve risposte con degli ideali. Bisogna stare attenti che
questa idea non diventi ideologia. L’approccio ideologico è portatore di uno schema sociale che si
vuole imporre sull’uomo. Nella riflessione ideologica manca della domanda “Chi è l’uomo?”.
L’uomo non è ciò che io voglio far diventare con l’ideologia. Il liberismo, marxismo, nichilismo, non
si pongono una domanda su chi è l’uomo, sulla natura dell’uomo. Questa è la domanda a cui
Calabresi ha risposto nella sua vita. L’approccio ideologico non parte dalla natura ontologica
dell’uomo. Per il modello consumistico l’uomo è il consumatore. Quasi che la dimensione
dell’uomo si limitasse a quella di consumatore.
Oggi si crede che sia buono decidere seguendo “quello che ti piace”. Ma quello che piace non è la
vocazione. Tutto quello che è umano, per essere raggiunto, ha bisogno di disciplina: non basta
l’istinto, il desiderio, il piacere. Non è vocazione. La vocazione è una strada fatta di impegni e
rinunce, che porta però a soddisfare sé stesso. La vocazione è personale, ma non soggettiva. La
vita è vissuta pienamente quando si conserva l’apertura a ricevere dei segni. La vita può condurti
su strade diverse, ma ciò non è il fallimento della tua vita. La vocazione può nascere anche da
circostanze impreviste e diverse. Questo deve essere accettato come risorsa, non solo come
sconfitta. Nella prospettiva della fede c’è la Provvidenza. La lettura provvidenziale consiste nel
leggere i fatti della vita sotto un aspetto positivo, anche quando c’è il male. Questo è una fatica, e
uno scandalo per i non credenti. La testimonianza resa da Calabresi non si preoccupa delle
conseguenze che provoca nei vari lettori. È resa con serenità perché quando si vive una fede bella
e gioiosa non si può fare a meno di viverla con gli altri. Questo è un aspetto interessante per tutti
gli uomini. Calabresi, in questa pagina, ci fa vedere che c’è qualcosa di più.
Filosofia Mar. 15
Sviluppiamo la parte del programma che riguarda gli Assoluti Morali di John Finnis. Di questo testo
è importante la prefazione di Mons. Caffarra. Il problema che gli assoluti morali affrontano è un
problema di non poco conto, non solo per la morale, ma per la vita di tutti i giorni. Lo scopo di
questo libro è cercare di capire se esistano dei comportamenti umani che siano moralmente
rilevanti che hanno in sé il requisito del male. Si cerca di rispondere alla domanda per cui una
cerca condotta risulti essere sempre sbagliata. Questa domanda è tutt’altro che scontata. La
categoria degli “intrinseca mala” è per alcuni una categoria che non esiste. Si ragiona in una
morale relativista, per la quale il bene e il male non possono essere definiti una volta per tutti
negativi. In questa prefazione si evoca l’episodio del Critone, la vita di Socrate. C’è un passaggio
dove si individuano due differenti prospettive che si contrappongono fra di loro. Ci sono due modi
di rapportarsi con la giustizia: “l’uomo deve far trionfare la giustizia nel mondo”; “all’uomo è
chiesto solo e sempre di agire con la giustizia”. Questi due modi sembrano essere identici. Ma c’è
una differenza. Socrate aderisce al secondo orizzonte. La prima categoria sottendente che l’agire
morale debba essere valutato, misurato, in base ai risultati buoni, cioè solo in base al fine. Questa
prospettiva radicalizzata sposta la riflessione morale, da una riflessione sull’atto a una riflessione
solo sul fine. I discepoli di Socrate sbagliano nel pensare che qualsiasi mezzo sia lecito per fare il
bene. Socrate dice che il primo problema dell’uomo è se quella condotta sia giusta. In questa
riflessione morale, insieme all’oggetto dell’azione c’è anche il fine. In fine non può essere disgiunto
dall’azione. Questo libro analizza se è possibile giudicare un atto per buono o cattivo in quanto
tale. Gli assoluti morali di Finnis delineano alcuni comportamenti che sono sempre sbagliati,
indifferentemente dal fine preposto. Gli assoluti morali non sono numerosissimi. Si possono fare
alcuni esempi: l’uccisione di un innocente è un atto ingiusto, sempre e comunque. Posso dire
questo solo se riconosco una categoria di condotte umane. Per alcuni ci sono situazioni in cui
anche uccidere l’innocente non è ingiusto. Agire secondo giustizia non deve essere interpretato
come fatto individuale, perché esso ha anche una dimensione sociale. La riflessione morale è
importante anche per la politica, sociale. Per agire secondo giustizia bisogna collegarsi a un
insieme di valori e principi. Agire secondo giustizia non è rispettare le regole. In questo passo della
prefazione si ricollega l’agire secondo giustizia al sapere se quello che faccio è giusto o ingiusto.
Esistono atti che non possono essere mai compiuti dalla libertà umana (non in senso empirico ma
morale). Queste norme morali inderogabili sono poche. L’assoluto morale non è una tegola ma un
contenuto di chiara prescrizione. Bisogna respingere l’idea che l’assoluto morale sia una parenesis,
cioè solo una generica esortazione. Uno dei modelli culturali che si è contrapposto alla teoria degli
assoluti morali è il pensiero tecnico. La tecnica si propone come l’applicazione delle conoscenze
scientifiche. Si parla di “scienza” quando si fa riferimento a uno studio metodico galileiano la
realtà, con lo scopo di riconoscere l’esistenza di una serie di leggi (ripetibilità di certi fenomeni). La
tecnica rappresenta l’applicazione di quello che la scienza ha elaborato. C’è qualcosa di male nella
tecnica? No, in se stessa no. C’è qualcosa di male nella scienza? Neanche. Il problema sta nel
modello di interpretazione della realtà. Il pensiero tecnico fornisce sempre più spesso un modello
che ha la pretesa di orientare la riflessione dell’uomo in base a un criterio di efficacia e efficienza.
L’efficacia mette l’accento sul risultato. L’efficienza è la capacità di affrontare le sollecitazioni. Il
pensiero tecnico mette l’accento sull’efficacia e efficienza. Questi due elementi non sono negativi.
Il problema sta nel fatto che la domanda “cosa è giusto fare?” viene ridotta a questo orizzonte di
efficacia e efficienza. In questo modo la prospettiva è orientata solo al risultato. Infatti la nostra è
l’epoca della tecno-scienza (in cui scienza e tecnica sono confuse). C’è stata un’epoca (molto
lunga) in cui scienza significava osservare il reale. Oggi non è così per motivi economici: lo
scienziato oggi è colui che fa un progetto di ricerca orientato a un’applicazione tecnica. Non c’è più
colui che fa ricerca pura, ma ricerca diretta alla tecnica. Lo scienziato puro non esiste più e il
problema morale cade in maniera molto pesante sulla testa del tecno-scienziato. Si è sempre
invocata la scissione tra dimensione della scienza e dimensione della tecnica. Oggi la tecno scienza
ha fuso questi due momenti. Fare ricerca pura non pone in se stessa questione morale. Lo studio
della realtà non solleva obiezioni morali. Nessuno può fare del male se cerca la verità. Il problema
nasce dal fatto che il ricercatore non è più solo un osservatore, ma un manipolatore della realtà.
Nell’ambito delle staminali lo scienziato non può ignorare se sta facendo ricerca con cellule
embrionali o staminali, perché questo non è più osservazione della realtà, ma intervento sulla
realtà. Il problema morale ovviamente si pone. Questo fa vedere che la questione “agire secondo
giustizia” e “agire in modo efficiente” delinea due modi di pensare opposti. Il problema è un
problema fortemente razionale. Il pensiero tecnico orienta le scelte etiche in base a parametri che
vertono solo sugli effetti. Un primo punto di forza di questo modello è la sua ambivalenza. Se
osserviamo gli effetti dell’applicazione del pensiero tecnico notiamo che ottiene dei risultati
desiderabili. Si potrebbero raggiungere dei risultati, delle quote di bene (curare malattie). Questa
ambiguità è un punto di forza. Può indurre la gente ad accettare la violazione di certe norme
morali. Facendo un giudizio di merito, le staminali adulte sono l’unico strumento efficace ed
efficiente (le staminali embrionali non hanno curato niente e nessuno). L’altro punto di forza è che
il pensiero tecnico esprime il modo di pensare tipico del bambino: il bambino si organizza per
raggiungere quello che vuole. Il pensiero tecnico parte dalla focalizzazione di quello che vuole
raggiungere (le aziende farmaceutiche chiedono un prodotto per procurare l’aborto in modo
veloce). Il ricercatore organizza la ricerca per raggiungere questo risultato. In questo orizzonte il
modo e lo stesso oggetto diventa irrilevante. Si organizzano i mezzi per raggiungere questo fine,
che sono valutati non in base alla loro propria essenza, ma solo in base allo scopo da conseguire.
Sempre in quest’ottica si cerca di raggiungere il fine al minor costo possibile. Si punta alla
ottimizzazione delle risorse. In pensiero tecnico nasce dall’illuminismo. L’illuminismo è riassumibile
nella frase “ognuno ha il compito di promuovere il buon andamento delle cose del mondo e di
impedire il cattivo andamento delle stesse”. Ancora una volta l’attenzione della valutazione
morale si sposta dalla oggettiva valutazione della condotta a una valutazione che si sposta verso il
fine, in una prospettiva utilitaristica (Bentham). Per gli utilitaristi un’azione è buona quando
promuove il maggior bene possibile per la maggior parte delle persone che fanno parte di una
comunità. Non è più un problema di agire sempre in modo giusto ma di valutare volta per volta e
prevedere il maggior bene. In una formula più sintetica, il compito dell’uomo è promuovere il
maggior bene possibile. Se si mette su una bilancia “bene” e “maggior bene possibile”. Qual è la
proposta più esigente in termini morali tra queste due? Il maggior bene possibile è una porzione
del bene morale. Il maggior bene possibile, in scenari tragici, è contribuire al male per limitarlo. Il
problema morale è rinunciare al bene. La prospettiva del maggior bene possibile è una forte
tentatrice perché fa vedere un risultato possibile. Finnis critica queste dottrine facendo notare che
perdono di vista l’essenza oggettiva della condotta. Queste dottrine svolgono una sorta di
equazione matematica in cui da una parte c’è la previsione del bene e dall’altra la previsione del
male. Sono in guerra e mi si pone la questione se bombardare una città. Si può fare questa
equazione matematica tra effetti positivi e effetti negativi. Questa prospettiva, proporzionalismo,
è possibile perché si proietta l’attenzione non sul singolo atto (tirare bombe su civili) ma sul fine.
Questo modo di ragionare è proporzionalista. Questa prospettiva viene duramente contestata da
Finnis con una serie di valutazioni. Secondo Finnis, una volta che si accetta la prospettiva
proporzionalista, si potrebbe riassumere l’imperativo morale con questa formula “tenta qualsiasi
cosa”. Questo modello porta a un soggettivismo estremo. Il proporzionalismo crede di poter
prevedere in modo minuzioso tutti gli effetti della propria azione. Le conseguenze degli atti non
sono tutte prevedibili. Le nostre azioni provocano conseguenze delle quali non siamo responsabili.
Nella riflessione morale la valutazione delle conseguenze è limitata. Se compio un’azione giusta
ma nelle conseguenze c’è un male, non è colpa mia. Un punto molto debole del proporzionalismo
è la pretesa di dominare tutte le conseguenze di una certa azione. Il grande vantaggio delle
dottrine classiche è di focalizzarsi sull’oggetto dell’azione. Nel giuramento di Ippocrate troviamo il
“principio di non maleficenza”, cioè evitare di fare del male al paziente. Questo è il primo principio
della medicina: non nuocere. Il testo del giuramento impone di vietare determinate cose. Con
questo si riconosce che c’è un agire medico, umano, che è in se stesso buono o cattivo, senza farsi
condizionare dagli effetti temuti o sperati di una certa azione. Negli assoluti morali non è vero che
gli effetti non vengono presi in considerazione. Ippocrate assume assoluti morali definitivi.
Filosofia Mar. 29 A
IL CONCETTO DI LIBERTA’ ( Anche su testo di Vanni Rovighi)
La parola libertà è una delle parole più polisense, utilizzata con significati talvolta contrapposti.
Questa ambiguità non è un fatto nuovo, addirittura Hegel faceva notare che questo concetto
veniva usato in maniera soggettivistica. Un primo aspetto su questa ambiguità è il problema del
significato della libertà in senso fisico e in senso empirico. Da un lato la dimensione empirica
allude alla potestà dell’uomo di poter fare una certa cosa. In questo senso il concetto di libertà, è
del tutto svincolato da una riflessione sulla natura dell’uomo, perché così non mi interrogo su
quale è lo scopo della vita. Invece la libertà verso la quale siamo indotti a riflettere è la libertà in
senso morale. Cioè la riflessione dell’uomo sul suo essere libero in relazione a una domanda:
“Questo atto che posso compiere contribuisce o meno alla mia realizzazione ?” Qui c’è un
passaggio che sposta la nostra attenzione dalla libertà in senso fisico a un concetto di libertà che
contiene una domanda antropologica e morale. Libertà può allora voler dire :
• essere capaci di poter fare una cosa (empirico fisico). Non si occupa del giudizio sul
merito dell’azione (getto un vaso di gerani in testa al passante )
• in senso morale, realizzare la natura umana.
In filosofia è opportuno distinguere atti eliciti e atti imperati.
ATTI IMPERATI : quando attengono alla sfera esteriore. Es: la costituzione italiana riconosce che
esiste nell’ordinamento una libertà religiosa. Quando si afferma ciò, a livello giuridico si intende
che la dimensione religiosa che l’ordinamento tutela è quella che si manifesta nella sue esteriorità:
processione, chiesa, simboli… Questi sono quella componente della libertà che si manifesta a
livello esteriore.
ATTI ELICITI: sfuggono alla prescrizione giuridica, riguardano la volizione interiore di un certo atto.
La mia adesione alla fede qui non è scalfita, perché è la mia volontà interiore.
Da un lato la libertà empirica è spesso un presupposto necessario x l’esercizio della libertà morale;
ma non è sufficiente, perché occorre che l’uomo scelga il bene. Nella società contemporanea si
tende a fermarsi alla libertà presupposto, al libero arbitrio. X S. Anselmo la libertà è
determinazione al bene.
E le azioni cattive come si spiegano? Se non sono compiute con la libertà presupposto non sono
neanche colpevoli. La caratteristica della libertà presupposto:
non ha valore morale. Il libero arbitrio è tipico dell’uomo.
Se si nega l’esistenza del libero arbitrio, anche il concetto di imputabilità viene travolto.
Filosofia Mar. 29 B
Abbiamo visto dunque che la libertà si articola in due livelli differenti che abbiamo chiamato
LIBERTA’ EMPIRICA o LIBERTA’ PRESUPPOSTO e libertà morale.
Rispetto alla libertà psicologica o libertà presupposto o libertà empirica abbiamo visto che
possieda alcune caratteristiche, cioè non ha alcun valore morale in sé non è in discussione il fatto
che sia una caratteristica ontologica dell’essere umano e non è né eliminata né diminuita
dall’esistenza del peccato originale.
Abbiamo anche visto che essa ha dei riflessi giuridici molto immediati a seconda che venga
accettata o respinta. Rispetto al rapporto tra stato e libertà è interessante chiedersi fino a che
punto sia vera l’affermazione che lo stato non debba mai intervenire sulla libertà presupposto.
Cioè secondo alcune correnti del pensiero contemporaneo, libertario, lo stato non dovrebbe mai
intervenire sulla libertà presupposto perché così facendo assumerebbe un comportamento
ILLIBERALE. In altre parole, abbiamo sentito più volte dire che lo stato che stabilisca che per
decreto che non si possa fare una certa cosa , indebitamente starebbe invadendo la sfera di libertà
individuale. Questa affermazione teoricamente non è sostenibile perché noi sosteniamo che la
libertà presupposto è talvolta esplicitamente inculcata in modo coattivo. Prendiamo ad esempio le
tasse: ci sono alcune condotte che lo stato esige e sulle quali interviene proprio sulla libertà
presupposto.
La domanda circa l’esistenza della libertà :
alcuni negano esplicitamente che l’uomo sia libero. La strada migliore che si può percorrere per
confutare questa affermazione è quella fatta da Vanni Rovighi secondo la quale la libertà empirica
è un dato di realtà esperienziale. E secondo lei un dato di realtà al max se ne può fare la
fenomenologia, cioè dal dato di realtà si può risalire alle sue cause prime. La questione posta in
relazione alla libertà con il problema del fine ultimo dell’uomo, ossia la valutazione se una certa
azione che posso compiere coincida o meno con la realizzazione della mia natura. Perciò x capire
se un uomo si stia comportando in maniera libera, devo prima cercare di capire bene qual è il fine
ultimo dell’uomo e in questo perfino Sartre ,padre del pensiero relativista dice : è la posizione dei
miei fini ultimi quella che caratterizza il mio essere. Cioè: è da quello che io decido essere il fine
ultimo della mia esistenza, che dipende tutto quello che io farò e che io sono. Allora questa
pienezza dell’essere è il fine ultimo da mettere in relazione con l’esercizio della libertà. E da questo
punto è interessante ripetere che c’è l’intuizione comune di molti filosofi che è : l’uomo ricerca il
bene e ricerca il buono , la sua felicità. Questo senso di felicità potrebbe essere assunto come fine
ultimo dell’uomo. Quindi potremmo dire che essere liberi potrebbe essere compiere delle azioni
che mi rendano felice. Però il problema è capire dove risieda questa felicità. I greci chiamavano
questa posizione EUDAIMONIA, cioè riferirsi al fine dell’azione umana come ricerca della felicità; la
scolastica chiama questa concezione BEATITUDO, la realizzazione piena di sé stessi.
Questo è un dato che possiamo allora prendere come oggettivo. Il problema è che questa pienezza
dell’essere non è intuitiva, cioè io non intuisco per istinto quali sono le azioni che se io compio mi
rendono felice, mi rendono libero, ma devo sforzarmi per cogliere ciò che sia effettivamente la
fonte della mia felicità. Ad es. : una realtà che sembra essere oggetto della felicità dell’uomo è il
piacere. Qualsiasi cosa io faccia , posso giustificarmi dicendo che così sono felice. In generale
anche le azioni contraddittorie. Essere fedele o meno alla propria moglie: se io dico che così
cercavo la felicità, sembrerebbe che questo soddisfi i requisiti di libertà. Questo non è perché il
piacere è una realtà che attrae immediatamente ma che, porta alla nausea, cioè porta ad un livello
di insoddisfazione più profonda che rivela che la natura umana non si identifica con la
soddisfazione del proprio piacere. Questo ci dimostra che la natura dell’uomo non può essere
identificata con la soddisfazioni di tutti i suoi piaceri anche se tutti questi elementi hanno
comunque importanza.
ASSOLUTI MORALI, JOHN FINNIS
Il capitolo col tema della contraccezione.
Quali sono le considerazioni che Finnis fa?
In questo tema si vede bene come l’applicazione di categorie morali che fanno riferimento al
riconoscimento di assoluti, cioè di principi non derogabili, da un lato, oppure l’applicazione di
un’etica relativa, producono delle conseguenze molto differenti nella valutazione sensibile come
questa.
Uno degli aspetti su cui delle volte c’è confusione è il terreno che contrappone il concetto di
artificiale con quello di naturale. In altre parole alcuni pensano, errando, che l’argomento
fondante per cui il magistero cattolico giudica illecite le condotte contraccettive, si fonderebbe
sull’artificialità. Ma questo è un ragionamento infondato poiché il problema è piuttosto quello di
un tradimento oggettivo del significato dell’atto sessuale. Questa dottrina si fonda
sull’affermazione che l’essere umano ha una natura,e se l’uomo esprime la sua umanità in modo
profondamente vero, la rispetta. Quindi l’elemento che contraddistingue l’intenzione
contraccettiva, è un elemento che separa l’effetto procreativo dell’atto e l’atto stesso. Allora se io
mi ponessi in una prospettiva che condividesse l’etica proporzionalista potrei trovare molte
obiezioni a questo modo di ragionare, perché il fondamento della liceità di un atto sta in un
ragionamento articolato sulle conseguenze, obiettivi e scopi ; allora obiettivi conseguenze e scopi
della scelta contraccettiva potrebbero essere più che fondati (pianificazione nascite..) ; però il
problema non è di disconoscere queste buone ragioni, quanto di ricondurre la riflessione morale al
fatto che esiste una natura intrinseca di quell’atto che si compie, e che questo atto viene
profondamente snaturato se viene artificiosamente svincolato dalle sue potenziali conseguenze
procreative. Quindi in questa provocatoria asprezza della dottrina cattolica, si rivela questa fedeltà
alla dimensione etica nella chiave degli assoluti morali.
Paolo VI in HUMANAE VITAE dice : “ Date le condizioni della vita odierna, e dato il significato che le
relazioni coniugali hanno per l’armonia fra gli sposi, non sarebbe indicata una revisione delle
norme etiche vigenti soprattutto se si considera che esse non possono essere osservate con
sacrifici delle volte eroici? “
Quindi Paolo VI pone davanti a sé una domanda che riconosce la difficoltà e il notevole impegno di
questa dottrina morale. Ma detto questo
aggiunge : “ Tale dottrina è fondata sulla connessione inscindibile che Dio ha voluto e che l’uomo
non può rompere, tra i due significati dell’atto coniugale , quello unitivo e quello procreativo;
infatti per la sua intima struttura, l’atto coniugale mentre unisce profondamente gli sposi li rende
atti alla generazione di nuove vite secondo leggi scritte nell’essere stesso dell’uomo e della donna.
Salvaguardando questi due aspetti, l’atto coniugale conserva integro il senso di mutuo e vero
amore e il suo ordinamento all’altissima vocazione dell’ uomo alla paternità.”
Aggiungerei che la illiceità degli strumenti contraccettivi è collegata all’intenzione con cui il mezzo
è utilizzato. Ad esempio la pillola in alcune circostanze può essere usata per scopo terapeutico. In
questa situazione non si verifica l’atto illecito.
In conclusione, questo esempio richiama l’effetto molto chiaro dell’accettazione della dottrina
degli assoluti morali che mette in evidenza la differenza che sussiste fra l’accettazione di questa
dottrina e l’acquisizione di una posizione di carattere proporzionalista.
Filosofia 19 Aprile A
Passo dell’enciclica sull’unione europea – Benedetto XVI
Discorso pronunciato in occasione dei 50 anni dei trattati di Roma, che sono trattati istitutivi
dell’Europa.
Il pontefice evidenzia come la fondazione di questa realtà di unione di stati è data da caratteri
morali, filosofico- giuridico, e antropologico. Nell’introduzione
dice “ Questo continente ha percorso un lungo cammino che ha condotto alla riconciliazione di
oriente ed occidente legati da una storia comune ma separati da una cortina di giustizia”. Qui il
papa si riferisce a questi due polmoni che nella storia del 900 sono stati separati in due blocchi in
I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher niobe di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Filosofia del diritto e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Europea di Roma - Unieuropea o del prof Palmaro Mario.
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