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La stessa espressione pone l’accento sul diritto e non sull’uomo.
Si dovrebbe porre la libertà come precedente al diritto, e si dovrebbe piuttosto arrivare a parlare
di uomo dei diritti.
Questa è la soluzione minimalistica che la modernità ha trovato per evitare il problema di cosa sia
l’uomo risolvendo invece il problema dal punto di vista positivistico. Ci si è accordati sul diritto
piuttosto che sulla antropologia.
Nel dibattito bioetico emergono antropologie diverse e dicotomiche che confliggono all’interno
del diritto, diverso sarebbe vedere come le nuove questioni bioetiche possano modificare l’idea di
uomo. L’uomo costruisce i saperi ma non si ha un sapere condiviso di uomo.
La libertà viene posta come oggetto formale indeterminato che il diritto può e deve garantire,
senza però saperla definire.
Squeri mantiene il punto di partenza della proiezione della Grazia all’interno del libero dono
d’amore (cit. 11 e 12), ma mira a eliminare i riferimenti alla retorica della donazione.
La donazione non è quindi un automatismo di cui Dio è istanza garante suprema, ma si ha una
relazionalità antropologica che è complessa in quanto chiama in causa la libertà dell’uomo.
La metafora cristiana del dono di Dio tende a perdere parte del suo potere, in quanto
l’universalismo del dono perfetto di Dio sembra troppo modellato su un egualitarismo puro. Pare
questa anche una lieve critica al livello giuridico al pluralismo e alla multiculturalità.
Il problema della libertà dell’uomo confligge con l’idea del puro dono; il religioso è una forma di
possibile totalitarismo, una forma di concezione di verità dogmatica, che prescinde dalla libertà
dell’uomo.
La teologia tomistica e la concezione della scienza moderna sono in questo parificabili: entrambe
si impongono sull’uomo dall’esterno che può solo riceverne gli effetti. L’emergere dello scambio,
e dell’autorealizzazione dell’umano consentita dalla modernità, sono elementi di difesa da questo
dispositivo.
È nella percezione della differenza tra i concetti di dono e di scambio che si colloca
l’elemento di permeabilità tra i due in senso da dono a scambio, che emerge la libertà.
La libertà fondamentale, divina e del fondamento giuridico, come libertà qualitativa, non si
colloca nello scambio (che ha libertà quantitativa) ma nella differenza tra i due registri. È in
questa differenza che riposa il significato della libertà.
La critica a Derrida e a Marion cerca quindi di mantenere gli insegnamenti che questi hanno
impartito, cercando di arrivare a una concezione dell’antropologico in cui questi due elementi
non siano dicotomici e contraddittori ma convivano: l’uomo dona e scambia, e le due figure sono
ambivalenti e ciascuna riducibile all’altra, la percezione della differenza però fa emergere la
libertà dell’uomo, che non esisterebbe in un regime che preveda una sola possibilità di relazione,
o solo scambio o puro dono.
Il diritto occidentale si colloca appunto in questa intercapedine intermedia. La proposta etica del
costituzionalismo e del diritto pubblico potrebbe essere oggetto di una analisi simile a quella che
Sequeri fa in relazione al dono.
La critica al dono puro può essere tranquillamente riportata all’idea di diritto puro (Kelsen).
Sequeri media i due elementi e colloca la libertà al centro del discorso: la prima caratterizzazione
dell’uomo è appunto la libertà.
Si pone a questo punto il problema di definire cosa sia la libertà.
L’enunciazione delle libertà nelle norme dei diritti fondamentali è necessaria, se si recupera la
concezione negativa dell’umano (Hobbes – homo homini lupus). I lati negativi sono l’aspetto
troppo formalistico delle pari opportunità; questo è un rivestimento, che non è però il contenuto
proprio della libertà.
Emerge il rapporto della libertà con il male (di nuovo la concezione antropologica, peraltro
giustificata, di Hobbes che ha portato a una determinazione essenziale), e la legge si pone come
elemento terzo in relazione a questo rapporto tra libertà e male.
Il discorso sul dono di Sequeri può essere trasposto sul problema del male. Il problema del male è
rilevante anche per il rapporto legge – libertà.
Isoardi, “Cristianesimo e Antropologia”, recupera dal Concilio di Trento due domande
riferite alla particolarità antropologia della religione cristiana: il discorso su Dio è anche un
discorso sull’uomo attraverso l’incarnazione del Dio stesso.
Le due domande sono riferite una alla questione dell’unione ipostatica cristologica e quindi Chi è
Gesù, chi è l’uomo-dio? La seconda questione è relativa alla soteriologia: cosa ha fatto questo
uomo-Dio per noi?
La risposta che viene data, e che reintroduce al tema del dono, è l’articolazione del
discorso in due poli, uno relativo alla grazia, l’altro la creazione (pag.5).
Il discorso teologico è una critica alla grazia intesa come un dono.
La questione più antropologica di chi sia l’uomo, e quindi chi sia Gesù, è invece legata all’ambito
della creazione.
Nella tradizionale impostazione amartiologica, ripresa nella manualistica post tridentina non si
ha una connessione tra i due aspetti del discorso. Si hanno due trattati teologici fondamentali,
uno per ogni ambito.
La risposta di scuola è quindi con un punto di partenza dalla teoria della grazia, che prevale sul
momento della creazione, ed è che Gesù Cristo ci ha salvati. La Grazia è quindi riferita alla
salvezza, tuttavia strutturandosi con un discorso autonomo rispetto a quello della creazione.
Della grazia sono date due principali versioni: grazia come aiuto alla libertà (a partire da
Agostino), in cui la grazia è data all’uomo come un aiuto alla libertà, che innesca il problema del
rapporto tra grazia predestinazione, e la grazia come trasformazione ontologica (Tommaso), cioè
come mutamento di sostanza.
La grazia interviene sull’uomo: o aiutandone la libertà o trasformandone l’essenza. Da qui tutta la
teoria dei sacramenti e delle azioni.
Il problema sembra ignorare la questione antropologica circa la creazione e chi sia l’uomo, cui la
risposta è data a priori o comunque da altri.
Con questa impostazione del discorso, l’impostazione circa la grazia sembra non credibile, cioè
esteriore rispetto al profilo del discorso antropologico e quindi priva di un suo profilo razionale.
Manca un legame interiore tra il piano antropologico e il piano salvifico.
Può quindi diventare chiaro come lo schema della dottrina della grazia tomistica sia molto vicino
al sistema del dono, che c’è ma rimane non ricondotto se non a una sua natura impossibile da
comprendere, con una riconduzione al tema dello scambio.
Il problema è quindi quello del riequilibrio tra i due momenti, di grazia e di creazione, che
implica una rilettura della tradizione (Anselmo, Agostino, Paolo di Tarso, legato al problema
della ellenizzazione del cristianesimo).
(pag. 27) Si entra subito nella questione con la domanda: se Adamo non avesse peccato, il
figlio di Dio si sarebbe Incarnato?
Se la risposta è negativa nell’ambito del discorso sulla creazione si ha una definizione di uomo
come peccatore, cioè come uomo che opera il male.
Prevale quindi la grazia sulla creazione, almeno all’apparenza, prevalendo sul piano salvifico,
trovando quindi un ruolo necessario all’incarnazione di Gesù cristo, mentre sul piano
antropologico, della creazione, prevale il peccato.
Questo è il problema legato alla rilettura antimetafisica del cristianesimo: prevale una figura
dell’uomo come qualificato dal peccato.
Si pone una successiva questione: l’uomo è stato fatto da Dio: ma allora Dio è un peccatore? O
Dio non è infinitamente buono e ci ha voluti quindi peccatori?
La creazione sarebbe quindi imperfetta sin dall’origine, e questo Dio pare non avere caratteri di
perfezione che gli vengono attribuiti.
Il tratto di unione diviene quindi la libertà dell’uomo: la libertà è data all’uomo che ne fa
uso nel bene o nel male. Tutto il dispositivo della creazione sarebbe quindi legato al dono della
libertà.
La possibile conseguenza (paradossale) è che il male sarebbe quindi finalizzato al bene: cioè alla
libertà. Il peccato sarebbe quindi in un certo senso un male necessario, riferito alla fondazione
della qualificazione dell’uomo in relazione alla libertà.
Rimane però la questione che l’uomo sarebbe caratterizzato dal male e dal peccato, sebbene
finalizzato all’avere la libertà.
Al livello giuridico la legge si colloca a metà tra libertà e peccato: la legge interviene dove non
interviene Dio. La legge viene trasgredita da Adamo, e il risultato è sì il peccato, ma anche la
libertà. Per tematizzare una libertà piena è necessario riferirsi al discorso sul peccato, che però in
un certo senso prevale sulla libertà.
Per collegare la grazia e la creazione è necessaria una condizione di uomo come peccatore. La
salvezza portata da Cristo ha una sua giustificazione in ordine al peccato.
Portandolo in ordine giuridico arriviamo a Hobbes: l’uomo è malvagio, e da ciò deriva la
necessità della legge, e su ciò si fonda la divinità secolare Legge e Stato: lo stato ha bisogno
dell’esistenza del male per fare il bene.
Il Vaticano II arriva proprio a riconoscere il problema della cristologia, cioè della
collocazione di Cristo come momento secondario legato al salvare l’uomo peccatore. Emerge il
problema del rapporto interno alla doppia natura di Cristo, che sarebbe umano solo per finta in
quanto non ha peccato, laddove invece l’uomo è definito come peccatore.
L’azione salvifica di Cristo arriva, nell’ottica di grazia come trasformazione ontologica, a
modificare l’umano colpendo il peccato originale. Questo però non risolve il problema
cristologico.
Tommaso pone le basi del giusnaturalismo, con l’ordine statico “bisogna fare il bene e
non il male”; presenta le due strade, la prima è quella della legge divina nella Bibbia, come modo
per arrivare alla verità (bene/Dio); la seconda è quella della conoscenza della natura (attraverso
Aristotele).
Si pone così la teoria della grazia come trasformazione ontologica. Il problema è proprio il tenere
uniti i due piani di Legge divina e Natura, c