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Il libro di Castro Pozo “Nuestra comunidad indigena” è il primo risultato importante di
questi discorsi, in quanto è un’etnografia in cui la comunità indigena viene considerata come la
comunità socialista per eccellenza, in cui tutto funziona in una sorta di “socialismo naturale” dovuto
alla cultura indigena. Ci saranno addirittura degli studi sull’Impero inca come un impero socialista:
c’è un’ansia di ricostruzione dell’indigenità attraverso la lente marxista, che sarà miope rispetto a
quelli che sono i vero problemi, in quanto le popolazioni indigene non sono ferme nel tempo, ma
vivono e partecipano all’attualità, e anzi in questo periodo sono già molto attive anche dal punto di
vista politico. Anche qui il discorso dell’archeologia ha una presa importante del discorso della
costruzione dell’identità nazionale, ed è vincolata al discorso antropologico.
Nel 1910 c’è l’incontro con Machu Picchu e il fondamento della costruzione di quella che
sarà l’idea del concetto di “lo andino”, un’idea che nasce da Julio Tello e che sostiene l’esistenza di
una sorta di cultura panandina che dalla Colombia all’Argentina presenta delle caratteristiche simili
che si ripetono. Quest’idea di panandinità verrà esasperata dallo strutturalismo, che vorrà cercare
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“lo andino” in ogni comunità, ricercando sempre le stesse cose con dei precetti ben precisi in testa.
Tello è l’archeologo principale nella storia dell’archeologia peruviana, che scopre Chavín, sito
considerato fino a pochi anni fa il sito più antico della cultura preinca, sito a partire dal quale si
irradia il concetto di una “cultura madre” in cui tutti i concetti andinisti vengono espressi e a partire
da cui viene costruito il concetto di “lo andino”. Nel ripensamento che l’antropologia andinista farà
di sé stessa una delle prime cose che verranno distrutte è quest’idea di “lo andino”: non esiste un
andino, ma tanti andini. È vero che l’Impero inca aveva unificato un po’ la cultura andina, e che la
colonia aveva unificato il mondo andino, ma questo non implica che ci sia un’unica cultura andina
come “cultura madre”. Questo è anche il momento fondativo a livello ufficiale degli studi
antropologici in Perù.
8.11.2016
Dall’indigenismo all’antropologia
Soprattutto nella zona andina, quelle che oggi sono le comunidades campesinas, durante la
colonia riescono a mantenere una sorta di “semi-indipendenza”: riescono a mantenere la proprietà
della terra, a costruirvici, a sopravvivere. Tutte queste funzioni che si mantenevano in epoca
coloniale vengono frammentate nel post-indipendenza, nell’ambito della repubblica: è qui il non
mantenimento delle promesse dell’indipendenza e dei suoi ideali liberali, che non hanno creato dei
cittadini. Dopo l’indipendenza, paradossalmente, anche questi spazi che esistevano durante il
periodo coloniale, quindi, si perdono, per cui peggiora la situazione dal punto di vista delle
comunità, e non solo della nobiltà indigena, che dopo la rivolta di Tupac Amaru e con le riforme
borboniche, vede tutto cambiare. Anche perché l’indipendenza porta dei progetti acculturazione e
omogeneizzazione per cui l’idea è di essere tutti peruviani, senza che esista l’indigeno o il creolo.
Nel Novecento, tra gli anni Trenta e gli anni Ottanta/Novanta si verifica il “momento clou”
dell’antropologia andinistica. I diversi approcci teorici e tematici non sono delle scatole chiuse, sia a
livello temporale che a livello di influenze teoriche (lo strutturalismo è anche un po’ marxista e
indipendentista, ad esempio). Gli studi andini sono studi molto eterogenei, dal punto di vista teorico
e anche metodologico, in quanto spaziano non solo nell’ambito antropologico ma anche in quello
archeologico, storico, etnostorico, e, in questi anni, sono molto autoriflessivi: guardano poco
all’esterno e al comparativismo, e l’ambito andino in certi momenti diventerà una sorta di
monoblocco a sé stante che va avanti da solo nello studio e nella storia dell’antropologia.
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Carlos Iván Degregori è un antropologo molto importante sotto molti punti di vista, perché è
stato partecipe anche della vita politica e sociale peruviana in maniera forte (era parte della
comisión de la verdad y de la conciliación, dei movimenti di antropologia periferica decoloniale);
lavorava in San Marcos, una delle grandi università limeñe ed è l’autore, insieme da altri, degli
unici due manuali moderni di storia dell’antropologia andina: uno dei due è “No hay País más
diverso”, manuale dal titolo preso da una frase di Arguedas, un antropologo-scrittore molto
importante. Marisol de la Cadena è un’altra antropologa importante, che insieme a Degregori si
chiede in vari articoli come, in questa realtà antropologica molto eterogenea, potessero convivere
gli studi marxisti insieme a quelli strutturalisti, piuttosto che gli studi basati sull’indigenismo con
quelli basati sulla teoria della dipendenza, e quindi paradigmi teorici molto diversi che però spesso
si sono interrelazionati, sovrapposti. Il Perù, a parte il primissimo momento degli anni Venti e
Trenta, con la dittatura di Leguía, una sorta di indigenismo statale, e quindi delle politiche vere e
proprie di implementazione di quelle che sono le teorie indigeniste prodotte in ambito non
governativo. Questo avviene soprattutto con Valcarcel, ministro dell’educazione ed educatore del
IEP. Si forma l’Istituto Indigenista Interamericano e i vari istituti locali, tra gli anni Quaranta e gli
anni Cinquanta, a cavallo della Secondo Guerra Mondiale. Il discorso indigenista, che andrà
scemando e sostituito da altri paradigmi, rimane comunque nel discorso antropologico, fondandolo
e costruendolo; non sparirà del tutto, ma acquisirà significati nuovi e si rinnoverà attraverso
politiche e influenze diverse.
La Guerra Mondiale segna anche in America Latina un forte cambiamento negli studi e nelle
ricerche scientifiche e sociali non sono antropologiche, imponendo una serie di modelli nel
postguerra. Il postguerra segna un cambiamento forte nell’organizzazione mondiale politica e
sociale, perché inizia la Guerra Fredda e soprattutto inizia la divisione del mondo in bue blocchi
(sotto l’influenza dell’URSS e sotto l’influenza statunitense), e l’America Latina in questo
momento (oggi non più) è il principale interesse del governo statunitense: le nazioni
latinoamericane subiscono nella seconda metà del Novecento un’ingerenza fortissima a livello
politico, sociale, economico in quella che è la loro indipendenza nazionale. Tutto questo passa
attraverso le ricerche scientifiche, e non solo perché i grandi finanziamenti della ricerca scientifica
arrivano spesso dalle fondazioni statunitensi con un interesse politico e sociale ben preciso
(combattere il comunismo o evitare che il comunismo si diffonda in America Latina), ma anche
perché queste influenze passano anche attraverso singoli antropologi, che vengono mandati dal
governo statunitense con precisi obiettivi.
Uno dei punti di partenza è l’idea de “lo andino”, che è un’idea che piano piano si costruisce
nel discorso indigenista, che ha origini probabilmente in un discorso omogeneizzante de “lo inca”, e
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che sostiene l’esistenza di un’essenza andina: la cultura e la società andina può in questo senso
essere interpretata e categorizzata attraverso dei modelli ben precisi che sono quelli del pensamiento
andino o de “lo andino”, come viene definito. Quest’idea che esistessero delle categorie quasi pre-
esistenti che datano un periodo mitologico indefinito, ha informato le ricerche antropologiche;
questo discorso de “lo andino” è presente in tutti i paradigmi teorici che si sono relazionati e che
hanno lavorato sul campo andino, pur essendo il vessillo principale della ricerca strutturalista, una
ricerca strutturalista che arriva dai discorsi di Lévi-Strauss (che in quegli anni si trova in Brasile).
Quello andinista è uno strutturalismo particolare, che arriva da antropologi statunitensi (e
non antropologi francesi), e che, rispetto all’idea strutturalista ipersincronica che costruisce strutture
sulla realtà contingente della close corporte community (comunità chiusa che si autosustenta e si
autogenstisce) dove tutto è perfetto, dove tutto funziona, dove l’organizzazione sociale è
perfettamente collegata con quella attuale, dove l’organizzazione ecologica e economica sono
perfettamente coordinate, e in cui il legame tra uomo e territorio è strettissimo e procede per
mantenere quest’equilibrio nella comunità, c’è anche un minimo di profondità storica. Questa
profondità storica non è una visione che poi sarà (come quella dell’antropologia contemporanea)
una visione che considera i processi storici e quindi il cambiamento delle comunità: lo
strutturalismo andinista non è interessato al cambiamento, ma a ciò che fa mantenere e funzionare la
comunità. Questa profondità storica, quindi, ricerca le origini di queste categorie andine in quello
che è il passato preispanico e il processo culturale, costruendo la categoria generica di “lo andino”.
Queste categorie sono quindi viste a priori: si va sul campo e, avendo in mente i modelli e le
categorie, si cercano quelle categorie, dando per scontato che esistono queste strutture che
governano la comunità andina e ne sono il motore organizzativo. Tutto questo si basa su un
fortissimo interesse di quello che è il legame tra l’uomo e il suo territorio, e quindi sulla visione
ecologica dell’organizzazione sociale, rituale, economica, ecc. Stiamo parlando di comunità che
vivono in luoghi spesso di difficile gestione dal punto di vista umano, per cui la capacità di
adattamento dell’economia, della società e della cultura andina nei confronti di un territorio così
complesso (e quindi con una visione anche materialistica dell’analisi antropologica) diventa il
centro focale dell’analisi etnografica.
Sicuramente, l’idea di “lo andino” proviene dal concetto di “area culturale”, concetto
dell’antropologia statunitense che si mette in pratica negli Handbook of South American Indians,
pietra miliare di tutti gli studi latinoamericani, prodotti in ambito statunitense in inglese. I