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In Baudelaire la bellezza non solo include il ripugnante, ma è anche al di là del bene
o del male morale. Egli rinuncia al processo di conversione del brutto naturale in bello
artistico, in quanto la bellezza conserva delle visibili sembianze disgustose senza celarle. Lo
choc della bellezza provoca il riconoscimento del caos da cui parte la ricerca di un senso
dell'esperienza. E' una bellezza perturbante, che provoca sgomento, senza possibilità di
redenzione. Adesso il brutto non è più un elemento da scovare e combattere (come in
Schlegel), ma viene utilizzato per cogliere l'aspetto oscuro del bello, senza il quale
resterebbe superficiale e insignificante. L'introduzione del brutto ha lo scopo di conferire la
carica emotiva a una bellezza che rischia di involversi nel mero piacevole.
Il programma aristotelico di riscatto estetico si espande: adesso ogni cosa è degna di
attenzione estetica. E' in Germania, fra il 1830 e il 1857, che si elaborano le teorie sul brutto
più preganti. Questo processo viene avviato dalla pubblicazione di “Sistema di estetica
come scienza dell'idea del bello” di Weisse. In cui il brutto costituisce una parte
ineliminabile della bellezza. Vischer afferma che l'arte non riguarda il passato: contro Hegel
sostiene che il suo sviluppo avverrà nel futuro, apprendendo che la totalità armonica è ormai
perduta. Il brutto viene dunque esaltato come lievito del bello.
Nella quinta epoca, rappresentata dall'Estetica del brutto di Rosenkranz, ha le sue
radici nella filosofia di Hegel, il quale ha propiziato l'inclusione del brutto nelle teorie
estetiche. Il brutto si ricollega in lui alla valutazione del dolore che il cristianesimo
introduce in Occidente, alla concezione di una realtà dilaniata dai conflitti. In essa l'uomo,
trasformato in un anfibio, è costretto a vivere in due mondi, trascinato sia verso il basso
dalla fisicità, che verso l'alto dal suo desiderio di assoluto. Il cristianesimo metabolizza la
negatività grazie alla speranza di un regno divino in cui si troverà la bellezza unita alla
verità e al bene, riconoscendo che la natura è di per sé priva di bellezza: solo il soffio del
creatore e la grazia divina la rendono bella. In Hegel l'arte costituisce una manifestazione
dello spirito. Il fine dell'arte, secondo Hegel, non è né l’imitazione della natura né il
tentativo di suscitare sentimenti e purificare le passioni, né l’ammaestramento o il
perfezionamento morale: il vero scopo dell'arte è “rivelare la verità sotto forma di
configurazione artistica sensibile”. Il bello, la manifestazione sensibile dell'idea, conserva in
sé le tracce del negativo che ha dovuto superare. I segni di questo conflitto divengono
visibili nel momento in cui ci si avvicina alle più elevate forme di espressione artistica,
ovvero la tragedia (dolore, catarsi, conflitto fra individui che non si riconoscono in
un’assolutezza) e la commedia (brutto senza dolore), penetrate da tensioni e squilibri in cui
al brutto viene riconosciuto il ruolo di custode della negatività. L'uomo riesce ad emergere,
dunque, dall'inquietudine di vivere attraverso due diverse reazioni: o amplifica
quest'inquietudine con la tragedia, o la stempera con la comicità. Secondo Hegel si vive in
un'epoca monotona, dove l'arte richiama il passato. In un periodo di continui conflitti, il
singolo cerca rifugio in un proprio guscio. Non sono più presenti eventi tragici estremi,
come avveniva nelle fasi eroiche, quando gli individui erano abituati a identificarsi in una
potenza etica. Il punto di vista moderno, individuale e autonomo, causa una mancanza di
impegno da parte del singolo. In questo contesto il comico, più del tragico, esprime lo
sviluppo della soggettività. L'arte moderna riconosce sia il valore che la soggettività si
attribuisce, sia i contraccolpi negativi che questo cambiamento provoca sui rapporti sociali,
adesso sdrammatizzati, perché l'uomo non è in grado di prendere sul serio neanche la
propria esistenza. Ognuno riesce a conciliarsi con se stesso solo nella conquista della
serenità attraverso lo humour. L'arte significativa, adesso, è quella capace di ridere delle
brutture dell'esistenza senza eliminarle.
Con Rosenkranz il brutto diventa una sfida favorevole nei confronti del bello.
Un'opera d'arte è tanto bella quanto più grande è la disarmonia sui quali è riuscita a
trionfare. La conciliazione è generata dal conflitto. Secondo il filosofo, il brutto vale solo in
presenza del bello e, di conseguenza, non può essere isolato. In Rosenkranz prevale un bello
complesso, con un ordine che lascia spazio alla dinamica squilibrante del suo antagonista. Il
bello non deve assumere la forma di un deserto di gelida perfezione, o rischia di perdere il
senso che l'opera d'arte vuole trasmettere: deve dunque fronteggiarsi col brutto, la cui
sconfitta comporterà la gloria del bello. Questo rappresenta l'allegoria del trionfo della vita
sulla morte. Il raggiungimento di questo obiettivo è visibile nel momento in cui l'opera
d'arte risulta libera e segue regole proprie. Per quanto Rosenkranz attribuisca una funzione
attiva al negativo, al contrario di Hegel, conserva alcuni tratti classici. Ritiene infatti che il
bello, come il bene sia un assoluto, mentre il brutto, come il male, sia un relativo, rimanendo
fedele all'originale identità di due dei tre valori supremi. Rosenkranz paragona il brutto al
luciferino, e lo vede come eccesso. Per questo l'arte dev'essere capace di tenere a freno il
brutto. Al brutto è adesso consentito di vivere assieme al bello, purché rinunci alla propria
indipendenza. Esso non dimentica però il proprio potere: il bello non può quindi emergere
dalla lotta contro il bruto se l'artista sottovaluta il proprio avversario o se si abbandona alla
sua forza selvaggia, come accade spesso nel Romanticismo. Per questo motivo, soltanto i
grandi artisti sono capaci di esplorare queste zone di pericolo per poi descriverle. Affinché il
brutto non degeneri, bisogna essere grandi artisti: se questi si abbandonano alla follia, non
producono arte.
Nella sesta epoca il brutto appare superiore al bello, in quanto riesce a rappresentare
ciò che è stato rimosso, la memoria del dolore, e cova in sé la promessa di una felicità e di
una bellezza momentaneamente irraggiungibili. Questa tesi è sostenuta da Adorno, che trova
la sua più grande esposizione in “Teoria estetica” in cui l'autore cerca di restituire dignità al
brutto. Questo capovolge la gerarchia estetica tradizionale, mutando nel bello come protesta
nei confronti di una realtà mostruosa e disumana, nell'attesa di una futura redenzione. L'arte
è “vera” in reazione al contesto in cui si trova. Il bello senza traumi è invece brutto, falso e
immorale. Se si vuole tendere a una vita migliore, bisogna evitare le soddisfazioni leggere
che promette il bello, invitando l'anima a compromettersi con la realtà, quella denunciata dal
brutto. L'arte ha il dovere di rivolgersi all'amorfo e al dissonante per rappresentare una realtà
dolorosa e ripugnante, per protestare contro l'orrore moderno. Lo scopo del brutto è quello
di integrare ognuno nell'universo mostruoso del presente. La bellezza si limita a celare
l'orrore di questo mondo capovolto. Invece di aspirare ad un'armonia che sarebbe dissonante
e fuori luogo, occorre analizzare le condizioni di violenza presenti nella realtà. Il brutto
racchiude in sé la speranza di una conciliazione futura. Il brutto non si sceglie, è la realtà
che lo impone. L'arte esprime dunque il grido di orrore che rivela lo strazio della vita e la
sua negazione. La bellezza si serve del brutto tradizionale come riserva di senso del bello.
Adorno non predica, dunque, il culto del brutto, in quanto sa che esso è frutto della violenza.
L'arte non deve glorificarlo così com'è nella sua immediata deformità ma deve essere in
grado di esprimerlo, elaborandolo, e di liberare la bellezza che racchiude in sé. Dunque,
secondo il filosofo, esso non deve essere immediato, ma elaborato. Per esprimere l'arte è
necessario rivolgersi al rimosso, al passato. Il brutto esprime tutti i sentimenti negativi,
sentimenti rimossi. A contatto con un brutto arcaico, la bellezza si manifesta tramite il
fremito che provoca la presenza continua di un ignoto che ci sovrasta. L'arte deve scuotere
l'animo. Occorre coraggio per evocare e rappresentare una realtà selvatica e non asservita
alle ideologie. Ciò che alcuni chiamano “negatività” di quest'arte, è ciò che la cultura ha
rimosso, ma è verso questa direzione che la vera arte si sente attratta. L'arte non deve essere
una consolazione, o rivelarsi falsamente ribelle. Grazie al rimosso, essa percepisce la
sventura invece di limitarsi a protestare inutilmente contro di essa. Spogliandosi della
ricchezza espressiva, l'arte immiserisce l'esperienza in quanto la mostra così per com'è, nella
sua crudezza. E' un'arte che ha lo scopo di rappresentare la realtà, di riesumare il dolore del
passato per prendere in atto il presente. In una società in cui il dolore è stato rimosso, l’arte
dev’essere celebrazione del dolore. L'arte moderna è in lutto, ed esprime il dolore per
quanto vi è di morto, mutilato e umiliato nella vita di ognuno. Al lutto si associa il divieto di
gioire dinanzi a qualsiasi opera. Questo colpisce sia artista che fruitore, entrambi costretti a
sottostare alle leggi di un'arte triste e catartica. Finché la sofferenza dominerà il mondo, il
godere immediato di un'opera d'arte rimarrà proibito. L'unica forma di piacere consentita è
quella rivolta alla speranza di una futura redenzione. Dopo Auschwitz è necessario cercare
un senso nel non-senso da cui si è circondati, ricordando l'orrore dell'esistente senza
rinunciare a un ideale di conciliazione. Concedersi al pathos permette di edificare un ponte
verso l'esterno per farvi entrare il mondo in forme non traumatiche.
Per Adorno la musica è l'arte per eccellenza, perché tramite essa l'uomo ritrova la sua
dimensione in una realtà estranea. E' però necessario affrontare questa realtà piuttosto che
ignorarla: grazie all'arte noi riusciamo a dargli una forma, a osservarla e contenerla.
Con Rosenkranz e Adorno il brutto viene inserito nel quadro della patologia
dell'uomo moderno. L'ar