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IMMAGINE, GENERE, DIFFERENZA
14. La Feminist Film Theory
14.1.
Alla nascita e allo sviluppo della teoria femminista del cinema contribuiscono
3 fattori. Il primo è il momento delle donne, che prende corpo all’inizio degli
34
anni ’70 e che si impegna sia in un’attività di riflessione, sia in una lotta aperta
contro le strutture sociali dominate dall’uomo. Emerge il bisogno da parte
delle donne di superare la propria condizione e di conquistare nuovi spazi. Il
secondo fattore è il diffondersi del cinema indipendente e la crescente
presenza femminile tra i film maker. Il terzo fattore è la riflessione sulla
rappresentazione. L’attenzione ai modi in cui un discorso impone una visione
del mondo consente alle donne di capire sia in quali immagini sono costrette
a riflettersi, sia in quali collocazioni sono confinate.
I modi di procedere del film offrono “un modello del posizionamento del
soggetto nell’ideologia”. Per la teoria del cinema la riflessione femminista non
è una tappa qualunque: è qui che un certo numero di temi fanno il loro
ingresso in campo. La Feminist Film Theory svolge tra gli anni ’70 e ’80 una
funzione trainante.
Cinema patriarcale, cinema delle donne
14.2.
Nella prima metà degli anni ’70 parecchi interventi denunciano il modo
parziale e distorto in cui il cinema corrente raffigura la donna. In questa
azione si distinguono 3 saggiste, Marjorie Rosen (1973), Joan Mellen
(1973) e Molly Haskell (1974): i film tendono a ricondurre i personaggi
femminili a stereotipi fissi; bisogna invece battersi perché anche il cinema
riconosca quello che le donne sono.
Quel che bisogna chiedersi è perché il cinema mette in scena delle figure
fisse e in che misura un film sia sempre una rielaborazione dell’esistente.
Uno stereotipo non è solo un’immagine banalizzata: è anche uno strumento
per raffigurare una realtà nei suoi tratti tipici, in modo da farla riconoscere a
prima vista. Le figure femminili appaiono monocordi, richiamano l’universo del
mito, popolato da presenze, senza sfumature. Attraverso delle figure “fisse e
eterne” si dà un modello di spiegazione unico a eventi sempre diversi. Ma
questa stessa caratteristica conferisce al mito anche una certa fragilità: le
figure “fisse e eterne” si rivelano alla fin fine delle semplici invenzioni.
L’ideologia sessista non si manifesta nell’impoverire la presenza femminile,
ma semmai nel riportarla a un universo senza tempo, popolato da entità
assolute e astratte. Bisogna riconoscere l’esistenza diffusa e capillare di un
cinema patriarcale, basato sulla riconduzione della donna a un ruolo mitico.
Un film non presenterà mai il mondo com’è: lo può solo rappresentare.
Appellarsi all’immediatezza o alla neutralità dello sguardo è allora del tutto
deviante: fa dimenticare che la sola maniera di attaccare il cinema patriarcale
è mettere in evidenza la natura linguistica. È quello che fanno registe come
Doroty Arzner o Ida Lupino. Quello che vediamo emergere allora è un vero
e proprio contro-cinema. Doroty Arzner nei suoi film sviluppa il tema della
trasgressione e del desiderio, ma soprattutto il tema di una sistematica rottura
dei procedimenti in uso nel cinema patriarcale. Arzner “riscrive” letteralmente
il cinema patriarcale, facendo emergere le contraddizioni del sistema di
rappresentazione dominante. 35
Le dinamiche del piacere
14.3.
Mulvey compie un doppio spostamento: da un lato dedica la sua attenzione
non soltanto al modo in cui la donna è raffigurata nei film, ma anche al modo
in cui la donna è chiamata in causa come spettatrice; dall’altro affianca
all’analisi dei testi una riflessione condotta con gli strumenti della psicanalisi.
La domanda di partenza riguarda i piaceri offerti dal cinema. Questi
sembrano soprattutto 2: la scopofilia, legata alla presenza di un oggetto come
fonte di eccitazione; e il narcisismo, legato alla presenza di un oggetto come
fonte di identificazione. Entrambi i piaceri nascono dalla visione. Grazie
all’apparizione di un mondo immaginario, il desiderio di possesso opera in
parallelo ai processi di identificazione.
Nel cinema classico, chi sullo schermo ripercorre di continuo con i propri
occhi la scena è l’uomo, mentre la donna è colei che si mostra alle occhiate
altrui; l’uomo agisce, controlla gli eventi, mentre la donna è una presenza
passiva. Questa doppia situazione fa sì che lo spettatore scelga come
oggetto di identificazione l’eroe, e come oggetto di godimento l’eroina. Lo
spettatore passa necessariamente attraverso il personaggio maschile per
prender possesso di quanto desidera.
La donna che appare sullo schermo pone però anche un altro problema: la
sua mancanza del pene scatena la paura della castrazione. Dunque, se per
un verso costituisce una presenza affascinante, per un altro verso è una
presenza minacciosa. L’uomo ha due vie per sfuggire a una tale ansia. Può
affrontare una riattivazione del trauma della paura della castrazione, ed
esplorare la donna, svalorizzarla, demistificarla. È la strada del voyeurismo e
del sadismo, percorsa da Hitchcock. Oppure può negare questa paura, e
trasformare l’oggetto minaccioso in un oggetto di culto, da preservare e
coltivare. È la strada del feticismo, imboccata da Stenberg. In entrambi i casi
l’uomo ritorna padrone della scena.
Al centro, c’è lo sguardo: strumento del doppio piacere che il cinema attiva. Il
cinema classico attribuisce il possesso dello sguardo all’uomo e svalorizza la
donna. Questa maniera di disporre le cose va radicalmente mutata. Bisogna
mettere in evidenza la presenza della cinepresa. Poi bisogna allargare le
possibilità dello spettatore: non incanalare l’identificazione solo in un senso,
ma lasciarne aperte le opzioni. Bisogna rompere il meccanismo della
fascinazione: costruire un “dispiacere” filmico, se serve a rovesciare delle
abitudini che nasconodono la voglia di perpetuare una stretta gerarchia tra i
sessi. Differenza e identità
14.4.
La seconda metà degli anni ’70 vede un’esplosione del dibattito. Si affermano
4 grandi aree di ricerca.
La prima è di natura metodologica: in nome di una “lettura femminista” del
cinema, si approfondiscono gli strumenti dell’analisi semiotica e le nozioni
36
chiave dell’approccio psicanalitico. Approfondire vuol dire correggere,
integrare, ri-orientare: la nozione di soggetto dell’enunciazione, “a-sessuata”
in linguistica, viene correlata al genere. Ma approfondire vuol anche dire
arricchire con applicazioni nuove.
La seconda area di ricerca è più vicina a uno spirito militante: si tratta di
valorizzare il cinema delle donne, sia attraverso un riesame dell’opera delle
(poche) registe attive tra gli anni ’20 e ’50, sia attraverso un sistematico
appoggio alle film-maker contemporanee.
La terza area di ricerca è d’ordine storico: si tenta una rilettura sistematica del
cinema classico per mettere in luce le interne contraddizioni (es. messa in
scena esasperata di un sistema di valori, tale da rivelarne l’innaturalezza).
La quarta area di ricerca punta a mettere a fuoco un problema più generale,
quello dell’identità femminile. Il tentativo è di evitare definizioni
essenzialistiche, e di vedere invece l’identità come un costrutto culturale. È
quanto si dice della donna e il modo in cui le parla che la fanno essere quella
che è. La donna è confinata ai margini del circuito della parola. Per uscire da
un simile stato di cose bisogna considerare la differenza in tutti i suoi aspetti.
Si arriverà così a cogliere la complessità dei meccanismi su cui un soggetto
acquisisce la propria identità di genere; e insieme si scopriranno le peculiarità
e le potenzialità che derivano alle donne dai percorsi e dalle posizioni cui
pure sono costrette.
Jacqueline Rose nega che l’aggressività Melanie in “The Birds” provenga
semplicemente dall’uomo. Questa aggressività è invece il risultato del modo
in cui il film si struttura. Il suo segno distintivo è il campo/controcampo. In
questo gioco, qual è il ruolo della donna? Se la si avverte come oggetto
pericoloso è anche perché ha un rapporto privilegiato con l’Immaginario.
Perciò può essere ridotta al silenzio: ma rimane sempre un punto di
resistenza.
È indubbio che nei film di Hitchcock i personaggi non possiedono una loro
visione. Tuttavia è altrettanto indubbio che le eroine desiderano. Se è vero
che l’identificazione degli spettatori è sempre volta a chi agisce (l’uomo), è
anche vero che il ruolo attivo della donna (negato, e tuttavia latente) e
l’esistenza di sguardi femminili consentono un’identificazione multipla.
Jacqueline Suter sottolinea come il desiderio della donna gioca un ruolo
cruciale nella strutturazione della storia. Quanto più la raffigurazione del
corpo femminile si carica di valori estetici, tanto più serve sia a celebrare il
feticismo, sia a denegare la differenza sessuale.
Mary Ann Doane (1981) affronta il “cinema per le donne” in voga negli anni
’40. La sua tesi è che questi film, in sintonia con la cultura dominante,
tendono a denegare il desiderio femminile: da un lato lo mettono in scena
nelle vesti di un’eroina; dall’altro lo circoscrivono, lo svuotano.
L’identificazione con la donna viene così sviata. Alla spettatrice non resta che
desiderare di desiderare. I 4 grandi generi in cui si suddivide il “cinema per le
donne” confermano una tale diagnosi. Nei film che ruotano attorno a una
37
malattia, il desiderio delle donne è riassorbito nel rapporto istituzionale tra
paziente tra paziente e medico. Nei melodrammi di ambiente familiare il
desiderio è sublimato dalla maternità. Nelle commedie romantiche il desiderio
è riportato a una struttura narcisistica. Nei film gotici il desiderio è
accompagnato dall’ansia.
Tania Modleski ritorna invece su Hitchcock. L’idea del libro è che
Hitchcock manifesti una profonda ambivalenza nei confronti della donna: da
un lato ne fa oggetto di aggressione, a difesa estrema dei valori patriarcali;
dall’altro è affascinato dalla sua presenza. Questa ambivalenza riassume
bene i due poli entro cui si muove la risposta maschile alla femminilità: da
una parte abbiamo l’identificazione; dall’altra abbiamo