Riassunto esame Economia, prof. Cugno, libro consigliato Management della distribuzione, Sciarelli
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E’ possibile pervenire a una schematizzazione del processo di approvvigionamento da parte dei consumatori privati
(acquisti al dettaglio) per le differenti categorie di beni:
Problematico Acquisti orientati alla fiducia Acquisti orientati alla reputazione
e alla professionalità del dettagliante e al prestigio del dettagliante
Banale Acquisti orientati alla fiducia Acquisti orientati alla convenienza
nel dettagliante del dettagliante
Prodotto anonimo Prodotto rinomato
Le profonde trasformazioni ambientali avvenute negli ultimi anni hanno investito contemporaneamente il piano
demografico-sociale, culturale-tecnologico, politico-istituzionale ed economico, per poi riflettersi sulle imprese
(industriali, commerciali, di servizi ecc), condizionandone le decisioni competitive.
Il comportamento di consumo rispecchia il sistema di valori cui fa riferimento un determinato insieme di individui, che
adottano un certo stile di vita e privilegiano, a seconda della tipologia di acquisto, uno specifico mix di servizi
commerciali. Il moltiplicarsi degli stili di vita “obbliga” le imprese ad adottare apposite strategie di marketing per far
fronte alle esigenze di un mercato sempre più frammentato e, allo stesso tempo, sovente poco disponibile a sostenere
il costo della differenziazione. Più in dettaglio, si avverte l’esigenza di definire una metodologia di segmentazione del
mercato più adatta alle esigenze di sviluppo delle imprese commerciali, finalizzata ad individuare gruppi di
consumatori il cui comportamento di acquisto sia sostanzialmente omogeneo e per i quali potrebbe sussistere un
bisogno di beni e servizi da soddisfare attraverso un prodotto commerciale specifico, non necessariamente già
presente sul mercato. Il punto di partenza della suddetta metodologia dovrebbe essere, quindi, l’analisi puntuale dei
modelli di consumo nelle diverse realtà territoriali, al fine di individuare l’insieme dei bisogni di servizi commerciali che
un mercato può esprimere, in modo palese o ancora allo stato “embrionale”.
Il sistema distributivo italiano, anche se lentamente, ha attraversato un processo di profonde trasformazioni,
accentuandosi negli ultimi anni soprattutto nel commercio “al dettaglio”, dove si sono manifestate innovazioni
particolarmente significative ed evidenti. Pur essendo ancora rilevante il numero di piccole imprese familiari, è
aumentata la presenza di realtà distributive che utilizzano tecniche di produzione e vendita del servizio e modelli
organizzativi e gestionali innovativi ed efficienti. Un’impresa commerciale può trovarsi nella situazione di dover
decidere tra una strategia di differenziazione “produttiva” effettuata lungo la dimensione orizzontale (innovazione
primaria) oppure verticale (innovazione secondaria).
Si è in presenza di una differenziazione orizzontale se le preferenze dei consumatori tra formule distributive alternative
a parità di livello dei prezzi si distribuiscono in modo non polarizzato; se invece le scelte, sempre a parità di
posizionamento di prezzo, si orientano in maniera netta verso una determinata formula commerciale, si è in presenza
di una differenziazione verticale incentrata sulle caratteristiche tecnico-qualitative del mix di prodotti.
Capitolo 2 - I canali di distribuzione
Se si osserva in particolare la distribuzione di un qualsiasi tipo di bene, si nota che generalmente vi partecipano, oltre
alla stessa impresa industriale, una o più figure di operatori commerciali e di ausiliari e, direttamente o
indirettamente, i consumatori. L’insieme di istituzioni che concorrono a far defluire le merci dalla fabbrica al mercato
viene generalmente denominato canale di distribuzione.
E’ possibile fare riferimento a tre diverse concezioni di canale: 1) il type channel, che considera i differenti stadi del
processo di distribuzione (produzione, ingrosso, dettaglio, consumo); 2) l’enterprise channel, che include solo le 2
imprese giuridicamente indipendenti che operano nel canale (impresa industriale, commerciante all’ingrosso,
rappresentante, negoziante al dettaglio, consumatore); 3) lo unit channel, infine, che ricomprende tutte le unità
operative che espletano attività distributive, a prescindere dalla loro autonomia sotto il profilo giuridico (stabilimento
di produzione, deposito regionale, grossista, rappresentante, deposito locale, dettagliante, consumatore).
Il canale di distribuzione, quindi, può essere definito come un insieme di unità operative, interdipendenti, ordinate in
sequenza, che svolgono le “operazioni distributive” necessarie per trasferire la proprietà o il possesso di un bene dal
produttore al consumatore finale, generando un flusso logistico, di informazioni, promozionale e monetario.
Una delle cause principali della nascita delle imprese commerciali va ricercata nella riduzione dei costi di transazione
per fornitori e clienti, derivante dalla maggiore economicità e produttività connessa con la specializzazione delle
“operazioni”, che peraltro non si ripartiscono in modo netto e univoco tra le diverse unità operative che compongono
il canale. La specializzazione del lavoro in ambito distributivo va intesa come ripartizione, mai uguale per intensità e
durata, del complesso di operazioni che alimentano il processo distributivo.
La condizione che “impone” il ricorso a differenti tipologie di imprese commerciali è rappresentata dal divario di
assortimenti, di solito esistente tra la produzione e il consumo. L’assortimento di beni più efficace e conveniente
muta, difatti, nel passaggio della merce tra i diversi attori del processo produttivo e pone severe limitazioni al
fenomeno dell’integrazione verticale nella distribuzione: più marcata è la disomogeneità di luogo, di tempo, di
quantità e di varietà dei prodotti tra produzione e consumo, maggiore sarà la necessità di unità operative intermedie e
“terze” all’interno del canale.
Nel processo distributivo si distinguono quattro stadi fondamentali, rappresentati dalla produzione, dal commercio
all’ingrosso, dal commercio al dettaglio e dal consumo, che possono generare differenti tipi di canali o filiere
distributive. I canali possono difatti distinguersi in diretti, brevi, medio-lunghi e lunghi, in funzione degli stadi
ricompresi e delle modalità di collegamento tra gli stessi.
La distinzione tra commercio all’ingrosso e al dettaglio non può avvenire solo sulla base del volume delle singole
operazioni di compravendita effettuate, ma anche e soprattutto in rapporto alla natura della clientela servita dalle due
categorie di operatori: il cliente dell’ingrosso compra prevalentemente per rivendere, anche trasformando
ulteriormente i beni, mentre quello del dettaglio utilizza i prodotti acquistati per il diretto soddisfacimento dei suoi
bisogni.
I fattori economico-tecnici che, direttamente o indirettamente, influenzano le scelte degli operatori rispetto ai
successivi momenti del processo distributivo, possono essere raggruppati nei seguenti punti:
- caratteristiche del prodotto (sotto il profilo merceologico e tecnico, fisico e economico);
- struttura del mercato (concorrenza);
- caratteristiche ambientali (regolamentazione pubblica);
- caratteristiche aziendali (capacità finanziaria e organizzativa)
La distribuzione è un’attività complessa, che esige un elevato livello di specializzazione. Per tale ragione, solo le grandi
imprese industriali generalmente dispongono delle capacità organizzative necessarie per gestire l’intero processo
distributivo. Più i circuiti commerciali sono brevi, più aumenta la quantità di operazioni che ognuno dei componenti
del canale deve svolgere, servendosi a tal fine di un’ampia e articolata struttura organizzativa interna. Ogni scelta
distributiva ha, dunque, profonde ripercussioni organizzative e richiede non pochi sforzi di adeguamento e di
coordinamento delle strutture commerciali dell’impresa.
Capitolo 3 - Lo sviluppo della varietà tipologica nel commercio al dettaglio 3
I modelli più diffusi per la classificazione delle differenti formule distributive si basano essenzialmente sull’incrocio di
almeno due variabili, tra le quali le più utilizzate sono:
- grado di specializzazione (ampiezza e profondità) dell’assorbimento;
- tecnica di vendita adottata;
- ubicazione del punto di vendita;
- livello dei prezzi o dei margini di contribuzione;
- tasso di rotazione delle scorte;
- dimensione dell’esercizio commerciale.
La distribuzione al dettaglio in Italia si caratterizza per la presenza di imprese commerciali moderne ancora inferiore
alla media europea. Nel grocery, in particolare, opera infatti un gran numero di piccoli negozi despecializzati,
nonostante si sia assistito a una robusta contrazione degli esercizi tradizionali, travolti dallo sviluppo dei supermercati,
ipermercati e discount.
• L’ipermercato si distingue in termini di innovatività per il fatto di ricomprendere, all’interno di un unico grande
spazio espositivo, una quantità eccezionale di differenti prodotti di uso corrente. Più in dettaglio, la struttura
dell’assortimento di un ipermercato prevede generalmente quattro macro raggruppamenti di prodotti: 1) l’area
deperibili (ortofrutta, carne, pesce, pane, pasticceria artigianale); 2) l’area generi vari non deperibili (alimentari liquidi
e in scatola, prodotti per la casa e per la persona ecc); 3) l’area tessile (abbigliamento, intimo, calzature ecc); 4) l’area
bazar (cartoleria, giocattoli, libri e riviste, “fai da te”, dischi ecc).
• La formula del supermercato si caratterizza, come nel caso dell’ipermercato, per il fatto di includere nei propri
assortimenti un elevato numero di referenze food e non food, adatte a soddisfare necessità di acquisto ricorrenti,
mediante superfici espositive non inferiori ai 400 mq.
• Il minimercato, o superette, si caratterizza per il grado di despecializzazione dei propri assortimenti, che includono
un elevato numero di generi alimentari e non alimentari di largo consumo per necessità di acquisto ricorrenti,
all’interno di superfici di vendita generalmente comprese tra i 200 e i 400 mq. Le caratteristiche peculiari di questi
punti vendita vanno cercate nella composizione dell’assortimento, costituito da un numero selezionato di referenze di
marca, caratterizzate da turnover molto elevati e margini commerciali contenuti, venduti prevalentemente con la
tecnica del libero servizio.
• La formula del piccolo dettaglio tradizionale è caratterizzata essenzialmente da assortimenti despecializzati, che
includono una quantità di categorie di beni di largo consumo limitata, considerata la poca superficie di vendita a
disposizione, cui si associano dosi molto consistenti di servizio di prossimità e di assistenza durante il processo di
acquisto.
• Il discount è nato per soddisfare le esigenze di una clientela predisposta ad effettuare acquisti razionali e
programmati, orientati alla massimizzazione del rapporto valore/prezzo. Un consumatore con queste esigenze può
rinunciare senza difficoltà alla garanzia contenuta nella marca industriale per affidarsi all’immagine dell’insegna
commerciale che, a costi molto più contenuti, riesce ad assolvere alla medesima funzione. Il principio fondamentale su
cui si fonda l’innovatività delle formule discount, come si è detto, è rappresentato dall’elevata convenienza, che non
deve essere mai messa in discussione dal consumatore. Per far ciò i discounter devono selezionare un numero limitato
di referenze non di marca da collocare, preferibilmente in esclusiva, presso quei consumatori che sostituiscono senza
sforzo la garanzia industriale con quella offerta dal distributore mediante la propria insegna.
Se nel settore cosiddetto grocery era possibile “confezionare”, nell’ambito della stessa formula, assortimenti in grado
di coprire la maggiore porzione di mercato, ciò non era praticabile, con la medesima efficienza ed efficacia, nel non
grocery. L’abbigliamento, le calzature, così come altri settori problematici, caratterizzati da una domanda fortemente 4
segmentata, richiedono livelli di specializzazione tali da rendere sovente impraticabile la strada della
standardizzazione.
• Le grandi superfici specializzate si caratterizzano, rispetto alle grandi imprese a succursali del grocery, per il maggio
grado di specializzazione degli assortimenti, che vengono circoscritti a un “tema” specifico (sport e tempo libero,
arredo casa, musica e cultura ecc) oppure a una categoria merceologica (elettronica di consumo, elettrodomestici,
calzature, libri ecc).
• La caratteristica distintiva del dettaglio focalizzato va ricercata essenzialmente nelle specificità dell’assortimento,
formato da un numero ristretto di linee e varianti di prodotto appartenenti a un determinato settore merceologico,
oppure accomunate da una particolare “funzione d’uso” o, ancora, dallo stile di vita di un gruppo di clienti potenziali.
Queste attività solitamente scelgono di localizzare i propri negozi all’interno delle aree commerciali cittadine o negli
shopping centre pianificati, al fine di assicurare i flussi di traffico necessari per sostenere lo sviluppo equilibrato
dell’attività.
• Il dettaglio ambulante (food e non food) rappresenta una tipologia distributiva sotto molti aspetti simile al
commercio tradizionale, con la differenza che la vendita viene effettuata presso punti di vendita mobili.
L’ambulantato, nelle sue diverse forme, contribuisce ad arricchire la gamma di quelle iniziative distributive
despecializzate, che mirano a coprire i segmenti di mercato maggiormente “attratti” dalla convenienza.
Gli spostamenti da un mercato spaziale all’altro, infatti, contribuiscono in modo considerevole ad aumentare la
probabilità di operare in presenza di flussi di traffico consistenti, riducendo i rischi e i costi dell’inattività.
Tra le principali formule di dettaglio che esercitano l’attività di vendita senza convogliare il consumatore potenziale
all’interno del classico punto di vendita a posto fisso, rientrano, oltre evidentemente all’ambulantato, le seguenti
tipologie distributive:
- vendite tramite catalogo postale, distributori automatici, telefono e televisione;
- vendite “porta a porta” e sistemi di marketing multilivello (network selling);
- commercio elettronico (e-commerce).
Le polarizzazioni di offerta di servizi commerciali costituiscono raggruppamenti , più o meno ampi, di imprese
indipendenti, operanti nella medesima localizzazione in virtù di un processo aggregativo spontaneo, oppure per
effetto di un’iniziativa pianificata. E’ evidente che una razionale organizzazione spaziale dei punti di vendita comporta
benefici concreti, sia per le imprese commerciali sia per la clientela. Grazie al principio dell’attrazione cumulativa,
infatti, il volume di affari conseguibile da ciascun negozio nell’ambito di un centro commerciale è superiore a quello
ottenibile isolatamente; mentre, nel contempo, la maggiore varietà di articoli offerta sul mercato soddisfa al meglio
quel bisogno di confronto richiesto in special modo per gli acquisti di determinate tipologie di beni problematici.
L’elemento che rende innovativo il centro commerciale al dettaglio pianificato rispetto a quello spontaneo risiede,
dunque, nel suo essere impresa a tutti gli effetti, dotata di autonomia strategica e operativa, che ingloba le realtà
aziendali di cui è composta.
Si possono dare vita alle seguenti tipologie di shopping centre:
- centri commerciali di integrazione (quantitativa e/o qualitativa);
- centri commerciali di sopperimento o di sostituzione.
A differenza di uno shopping centre, un retail park generalmente è composto da un insieme di tre o più imprese
commerciali al dettaglio, specializzate nella vendita di prodotti non alimentari, che si rivolgono a segmenti di mercato
abbastanza ampi, composti da consumatori resi sostanzialmente omogenei da un interesse comune cui viene data
grande rilevanza (sport, passione per l’elettronica di consumo, per l’arredamento ecc). L’iniziativa non è promossa e
gestita da un’unica società come accade negli shopping centre; inoltre, i punti di vendita che fanno parte di un parco 5
commerciale tradizionale non sono collegati internamente tra loro, mentre dispongono invece, all’esterno, di una
superficie comune destinata a parcheggio.
Capitolo 4 - Lo sviluppo della varietà tipologica nel commercio all’ingrosso
Non sempre è sufficientemente chiara la distinzione tra impresa grossista e dettagliante. Non è tanto la dimensione
aziendale in assoluto o del quantitativo di prodotto venduto, oppure la natura del mercato di riferimento o, ancora, la
disponibilità di una speciale autorizzazione o la possibilità di emettere “scontrini” fiscali anziché fatture, quanto la
differente impostazione della struttura operativa, che permette la fornitura, in condizioni di economicità, dei classici
servizi commerciali di natura sia logistica sia informativa. Il problema sostanziale che accomuna le imprese del
dettaglio a quelle dell’ingrosso è, infatti, innanzitutto quello di raggiungere, attraverso l’attività di gestione, livelli di
efficienza e produttività compatibili con gli obiettivi del gruppo dirigente.
Schematicamente, si può dire che l’attività dei grossisti indipendenti, che hanno deciso di raccogliere la sfida di un
mercato (quello dei beni banali) sempre più competitivo, si è orientata verso queste scelte di gestione:
- adozione della tecnica del cash & carry e progressiva focalizzazione di marketing sul target di clientela dei non
commercianti (alberghi, comunità, ristoranti ecc);
- attività tradizionale in aree di mercato meno evolute in aggiunta al rifornimento del grande dettaglio per i
prodotti freschi o per le “rotture di stock”.
- Sviluppo di articoli a marchio proprio da vendere nel mercato interno, ma soprattutto all’estero dove il made
in Italy è particolarmente apprezzato.
In Italia l’ingrosso tradizionale è costituito in prevalenza da piccole e medie imprese a carattere familiare, operanti in
mercati spaziali locali e gestite in condizioni di efficienza e redditività non sempre adeguate al grado di intensità della
concorrenza. Sovente, infatti, le modeste dimensioni aziendali rappresentano un limite per il conseguimento degli
standard di produttività e di competitività richiesti dal mercato, impedendo di fatto lo sviluppo dell’attività. Questa
situazione ha creato non pochi problemi di sopravvivenza alle imprese dell’ingrosso tradizionale meno imprenditive, le
cui funzioni e attività in molti casi sono state integrate dall’industria e/o dal grande dettaglio succursalista e associato.
Adottando la formula cash & carry (= paga e porta via) le imprese grossiste hanno ottenuto uno snellimento generale
delle attività operative a fronte del diverso mix di servizi offerto alla clientela e, di conseguenza, consistenti riduzioni
dei costi di gestione (a parità di condizioni) in virtù del ridotto fabbisogno di personale dovuto al drastico
ridimensionamento delle attività di spedizione e di vendita, dei minori costi di trasporto e della diminuzione degli
oneri e dei rischi amministrativi e finanziari derivanti dalla concessione di crediti alla clientela.
L’acquisto di molti prodotti continua, però, ad essere percepito in determinati mercati come problematico, rendendo
poco efficace per le imprese del dettaglio succursalista la politica di compressione della varietà; oppure facendo
diventare eccessivamente rischiosa, in rapporto ai rendimenti potenzialmente ottenibili, la scelta di “accompagnare”
le necessità dei diversi mercati spaziali attraverso l’approfondimento delle gamme di prodotto inserite in
assortimento. Per queste ragioni, infatti, si può ipotizzare che il dettaglio specializzato, gestito da imprenditori
particolarmente esperti nel “leggere” le specificità locali, potrà godere di considerevoli vantaggi competitivi.
Là dove, invece, i mutamenti intervenuti sul fronte dei consumi e dei comportamenti di acquisto danno vita a
fenomeni di “banalizzazione” con riferimento a determinate categorie di prodotto (biancheria, elettrodomestici ecc),
si creano problemi di competitività non certo marginali per gli operatori in questione, che dovranno misurarsi con le
imprese del grande dettaglio o con i prodotti dell’associazionismo verticale od orizzontale. In queste circostanze per il
grossista indipendente si prefigurano le seguenti prospettive strategiche:
- sviluppo (meglio se in forma associativa) nei mercati esteri meno evoluti; 6
- focalizzazione sui mercati nazionali attraverso lo sviluppo, sempre più frequentemente in forma associativa,
di formule innovative in aggiunta al business tradizionale;
- apertura, nel territorio nazionale, di punti di vendita al dettaglio in mercati spaziali meno evoluti di quelli di
origine.
Soprattutto il mercato estero per molte imprese grossiste è diventato un’opportunità di sopravvivenza; è fuor di
dubbio che la strategia dell’attesa nei confronti del mercato, specialmente quando la pressione della concorrenza
cresce mettendo continuamente in discussione qualsiasi posizione di vantaggio acquisita nel tempo, non possa essere
la più efficace; restare “alla finestra” ad aspettare il cliente costituisce oggi un comportamento estremamente
rischioso e scarsamente produttivo.
Se la standardizzazione del “gusto” per determinati beni ha suggerito l’associazionismo imprenditoriale quale possibile
soluzione, la particolare complessità del processo di acquisto, che ancora caratterizza lo shopping di determinati
prodotti per i consumatori, rappresenta una preziosa fonte di vantaggio competitivo per le imprese indipendenti del
dettaglio e dell’ingrosso.
E’ evidente che il passaggio dalla fase dell’elaborazione progettuale a quella della sperimentazione operativa di
iniziative associazionistiche di livello avanzato comporta il superamento di ostacoli e difficoltà che non sempre si
riescono a eludere in mancanza di omogeneità di valori “etici” (fiducia, rispetto reciproco ecc) e di grado di maturità
culturale tra gli associati (capacità di dare il giusto valore ai costi e ai benefici del “lavorare insieme” in una prospettiva
di medio-lungo termine); nella realtà accade più frequentemente che predomini l’individualismo e la diffidenza nelle
aziende di valore, a scapito dello sviluppo di relazioni di cooperazione interimprenditoriale.
Naturalmente, la concorrenza da un lato, e le esperienze positive dall’altro, possono contribuire a creare le condizioni
per un’evoluzione dell’atteggiamento verso forme di associazionismo più complesse anche in quei settori
dell’economia tradizionalmente meno inclini a questo genere di iniziative.
L’ingrosso ambulante via mare è una particolare formula di commercio all’ingrosso ambulante, il cui scopo è
soddisfare una clientela potenziale molto frammentata, che gestisce con difficoltà e, quindi, a costi elevati, sia le
attività di approvvigionamento sia quelle di reperimento fisico delle merci a destino. Il perché della nave si intuisce
facilmente; nessun altro mezzo di trasporto, infatti, consentirebbe di disporre degli spazi necessari per allestire e
assortire, con un minimo di stock fisiologico, tanti punti di vendita quanti sono i grossisti specializzati necessari per
formare una “gamma di prodotti” adeguata, alloggiando nel contempo a bordo equipaggio, imprenditori e
collaboratori. Altra peculiarità esclusiva della nave sarebbe quella di consentire l’accesso a mercati mal serviti o
addirittura esclusi dai collegamenti ferroviari o aerei. Il successo concreto di quest’innovazione è legato sia alla
capacità dei promotori di assemblare all’interno della nave un numero di imprese che rappresentino realmente per
varietà, qualità e prezzi, un campione significativo dell’assortimento presente sul mercato; sia alle competenze
profuse nella gestione dell’intera operazione di allestimento e funzionamento della nave.
Portando la nave all’estero , inoltre, e in particolare in quei paesi che presentano caratteristiche climatiche opposte
alle nostre, si avrebbe anche il vantaggio di poter vendere prodotti ormai fuori stagione sul mercato domestico; senza
considerare le opportunità derivanti dalla commercializzazione del “fuori moda” dei paesi in via di sviluppo.
Nell’ambito dei mercati generali accade che all’interno di queste strutture si concentri un numero più o meno grande
di imprese grossiste specializzate nella vendita di prodotti in prevalenza alimentari, ma anche non alimentari
caratterizzati da un’elevata deperibilità (ad es. fiori freschi). In questi spazi commerciali si concentrano strutture
specifiche, che gli operatori del settore possono utilizzare per operare in un unico grande polo di offerta, conseguendo
considerevoli benefici sul fronte delle attività operative soprattutto logistiche e di marketing. La realizzazione e la
gestione di queste iniziative viene di solito affidata a soggetti di emanazione pubblica, che si presume siano i migliori
garanti del rispetto delle particolari norme igienico-sanitarie previste per lo stoccaggio e la manipolazione a tutela
della qualità di tutti i prodotti alimentari freschi.
I mercati generali a loro volta possono essere classificati nelle seguenti tipologie principali: 7
- mercati generali alla produzione: sono situati generalmente in prossimità delle aree di produzione e
concentrano nell’ambito delle proprie strutture sia produttori sia “raccoglitori”, la cui attività consiste nel
porre in essere le scelte più efficaci in chiave di marketing degli operatori agricoli più piccoli e meno propensi
a curare direttamente la commercializzazione. I clienti che gravitano su queste strutture sono in prevalenza
grossisti o buyer della grande distribuzione organizzata;
- mercati generali al consumo: si trovano presso i grandi agglomerati urbani e presentano un’offerta costituita
in gran parte da grossisti. Il target di riferimento, invece, è composto soprattutto da piccoli dettaglianti, che
operano nella zona circostante al mercato e trovano molto utile servirsi da strutture del genere per il
completamento dei propri assortimenti.
Nel comparto non grocery, le categorie merceologiche di cui ha bisogno il consumatore per vivere sono molto
numerose e, pertanto, difficilmente gestibili da un solo esercizio commerciale. Una soluzione potrebbe essere cercata
nella riduzione dell’ampiezza e della profondità degli assortimenti; ma ciò creerebbe possibili riflessi negativi sul grado
di soddisfazione della clientela. Per questi motivi le grandi imprese commerciali a succursali difficilmente investono in
tali mercati.
Supportando, invece, la riqualificazione e il riposizionamento di poli di offerta concentrata già esistenti, verrebbero a
crearsi le condizioni per far operare, con maggiore efficienza, numerose imprese commerciali grossiste indipendenti e
tra loro integrate in termini di assortimenti e servizi.
L’aggregazione localizzativa di imprese che rimangono autonome, rappresenta quindi una condizione molto
favorevole per la creazione di economie di scala sul fronte dei servizi alla clientela, ma soprattutto sul fronte dei servizi
logistici e informativi. Il grado di completezza dipenderà, ovviamente, dai settori presenti nel sistema e dal numero di
imprese operanti in ognuno di essi; quanto maggiore sarà la presenza di imprese indipendenti specializzate,
soprattutto nei settori problematici, tanto maggiore sarà la capacità dell’assortimento di offrire “valore” alla clientela.
Capitolo 5 - Il commercio elettronico
La definizione basilare di commercio elettronico appare ancora controversa, mentre ampiamente condivisa è la
distinzione tra le diverse forme di commercio elettronico che può essere effettuata in funzione dei soggetti
partecipanti allo scambio: si parla ormai comunemente di commercio elettronico business-to-business per riferirsi a
transazioni che due o più imprese realizzano online; di commercio elettronico business-to-consumer per designare le
transazioni che vedono per protagonisti le imprese e i consumatori finali. Relativamente più recente è lo sviluppo del
commercio elettronico consumer-to-consumer, che si è affermato grazie al successo dei grandi siti di aste online come
eBay) che si limitano a creare le condizioni infrastrutturali per favorire l’incontro tra due o più utenti finali, ma non
intervengono nella scelta e nell’esecuzione della transazione commerciale.
Il canale digitale ha creato nuove opportunità per le imprese, generando anche le molteplici benefici potenziali per i
clienti. Volendo descrivere in termini generici i vantaggi derivanti dal commercio online, li si può distinguere a seconda
che li si consideri nell’ottica del cliente o in quella dell’impresa offerente.
Per il primo, il canale telematico consente di:
- superare le distanze e i confini geografici; con pochi click il cliente può ottenere le informazioni sui prodotti e
venditori;
- superare i vincoli di orario dei negozi fisici;
- ridurre le condizioni di asimmetria informativa; il cliente può vagliare e confrontare più alternative in minor
tempo e con minor costo, anche grazie alla possibilità di utilizzare motori di ricerca, siti comparatori ecc;
- accrescere il proprio grado di indipendenza dalle aziende e dai “consigli” dei venditori;
- interagire con il produttore per ottenere informazioni e/o per effettuare l’acquisto di prodotti personalizzati,
realizzati, cioè, in funzione delle sue specifiche esigenze specifiche. 8
Nell’ottica dell’impresa, il canale elettronico permette di:
- dilatare i confini geografici della propria attività;
- collegarsi in modo più stretto e immediato con i consumatori finali, riuscendo a esplorare il variegato
universo della domanda e a monitorare l’evoluzione del mercato, attraverso la rilevazione diretta, in tempo
reale, delle scelte effettuate dalla clientela;
- integrare il processo di vendita nel sistema informativo, migliorando la gestione contabile, finanziaria e
logistica degli ordini.
La penetrazione dell’e-commerce in Italia è notevolmente inferiore rispetto a quella registrata nelle altre economie
europee avanzate e il divario sembra destinato a crescere nel tempo poiché l’Italia registra un tasso di crescita più
elevato rispetto a quello degli altri paesi, ma non tale da compensare il gap di partenza.
Tra gli ostacoli di tipo economico, si devono in primo luogo considerare gli elevati costi della funzione logistica. In
Italia, i costi di spedizione risultano ancora mediamente elevati, soprattutto in rapporto al valore unitario di alcune
categorie di prodotti, come quelli banali per i quali, di fatto, l’ostacolo logistico è ancora fortemente avvertito.
La precondizione che deve sussistere per accedere al commercio online è la disponibilità, da parte dell’utente, di un
certo livello di reddito discrezionale da destinare alla copertura degli investimenti infrastrutturali che Internet richiede
(PC e modem) e delle spese correnti (costi di connessione). Tuttavia, anche in presenza di livelli di reddito adeguati, vi
possono essere manifestazioni di resistenza, sia culturale sia psicologica, alla realizzazione degli acquisti online
dipendenti dal basso livello di alfabetizzazione tecnologica della popolazione e dalla preferenza verso le forme
tradizionali di shopping. Questa preferenza è peraltro legata anche ad alcuni fattori, tra cui la necessità di un contatto
interpersonale, face-to-face, con il venditore, e di un contatto fisico, multisensoriale, con il prodotto che accelerano il
processo di formazione della fiducia.
Permane inoltre, un’altra barriera culturale, quella linguistica. La scarsa conoscenza dell’inglese, difatti, limita il
comportamento degli utenti, impedendo loro di apprezzare tutte le potenzialità del commercio online.
Un ultimo ostacolo che occorre superare per favorire il pieno decollo dell’e-commerce è quello di natura legislativa. La
mancanza di un impianto normativo chiaro e universalmente valido determina di fatto, data la natura “globale” della
rete, una situazione di incertezza legislativa che può disincentivare gli operatori economici ad assumere iniziative sul
mercato virtuale e i clienti finali a fare acquisti online, soprattutto oltre frontiera.
C’è, tuttavia, un’altra classe di fattori che ostacola la diffusione dell’e-commerce, che è da ricercare all’interno delle
stesse imprese: sono queste ultime, difatti, che devono attivarsi per realizzare quei cambiamenti indispensabili per
sfruttare appieno le diverse potenzialità che il canale digitale esprime.
E’ ormai evidente che la semplice creazione di un sito aziendale non garantisce né flussi di traffico adeguati al suo
interno, né l’acquisizione di un vantaggio competitivo rispetto alla concorrenza. Un sito web può essere strutturato
secondo differenti livelli di complessità.
Al primo livello, il sito si presenta come una semplice vetrina, dove l’utente può reperire informazioni sull’azienda e/o
sui suoi prodotti, visionando il catalogo elettronico.
Al secondo livello, l’azienda utilizza le potenzialità della rete digitale per effettuare transazioni (commercio
elettronico); a questo scopo, deve affrontare e risolvere una serie di problemi gestionali più o meno complessi come,
per esempio, quelli relativi agli aspetti logistici e finanziari della transazione, quelli relativi alla costruzione di un
legame fiduciario con il cliente ecc.
In corrispondenza del terzo livello, infine, l’azienda riesce a sfruttare le potenzialità interattive della rete digitale non
soltanto per effettuare transazioni, ma anche per stabilire nuove forme di comunicazione con il clienti, migliorando la
qualità della sua relazione con il mercato, e per questa via, il valore offerto al cliente. Il sito web, la posta elettronica, i
forum di discussione, sono strutturati per consentire all’impresa di attivare flussi informativi bidirezionali che le
consentono non soltanto di fornire informazioni al mercato, ma, attraverso il dialogo e l’interazione con i clienti, di
esplorare il variegato universo della domanda, monitorarne le tendenze evolutive e raccogliere informazioni sempre
più dettagliate sui comportamenti di acquisto. 9
La proposta di valore di un’impresa che intende commercializzare online i propri prodotti deve essere articolata
intorno a più elementi, che è possibile rappresentare schematicamente nel modello delle “sette C”: contenuto,
contesto, scelta (choice), convenienza, comfort, servizio al cliente (customer service), comunicazione.
- CONTENUTO: ampiezza del sito, qualità editoriale, frequenza di aggiornamento;
- CONTESTO: multimedialità dell’informazione, personalizzazione del contesto di acquisto;
- SCELTA: profondità dell’assortimento, ampiezza dell’informazione sul prodotto, varietà dei processi di ricerca,
personalizzazione dell’offerta;
- CONVENIENZA: varietà promozioni di prezzo e non di prezzo, chiarezza indicazioni relative alla consegna;
- COMODITA’: navigabilità varietà modalità di ordine e di pagamento, fiducia e garanzia;
- SERVIZIO AL CLIENTE: servizi postvendita;
- COMUNICAZIONE: dialogo con l’azienda e con altri utenti.
Capitolo 6 - La regolamentazione delle attività commerciali e lo sviluppo della struttura distributiva in Italia
Sono passati più di quarant’anni da quando, nel 1971, in Italia fu varata la disciplina normativa di accesso al
commercio vigente prima della riforma del 1998: la nota Legge 426.
L’emanazione della legge 426/1971 rappresentò la prima decisione concreta in direzione di una strategia di
rinnovamento del comparto commerciale in Italia. Le principali novità introdotte da questa legge, che interessa nello
specifico il commercio al dettaglio in sede fissa, furono le seguenti:
- creazione di uno strumento di programmazione e gestione delle autorizzazioni per l’esercizio dell’attività
commerciale (piano di sviluppo e adeguamento della rete distributiva);
- istituzione di un “albo professionale” (Registro Esercenti il Commercio, R.E.C.) presso la Camera di
Commercio, a cui dovevano da quel momento iscriversi tutti coloro che, essendo in possesso dei requisiti
teorico-tecnici necessari, volevano svolgere queste attività. L’obiettivo della suddetta legge era quello di
programmare una graduale modernizzazione quali-quantitativa del comparto, favorendo il dettaglio moderno
solo in casi di cessazione, ampliamento e trasformazione delle attività e quelle iniziative commerciali avviate
al di fuori degli insediamenti urbani.
Con il Decreto Bersani (Gazzetta Ufficiale n. 95 del 24 Aprile 1998) si è portato a termine un lungo processo di riforma
che ha creato i presupposti per un ulteriore sviluppo della distribuzione in Italia. Più in dettaglio, la riforma introduce
le seguenti innovazioni principali:
- soppressione del Registro degli Esercenti il Commercio (REC);
- riduzione delle tabelle merceologiche da 14 a 2 (alimentari e non alimentari);
- liberalizzazione dell’accesso al dettaglio per gli esercizi cosiddetti di vicinato;
- conferimento alle Regioni di ampi poteri normativi e amministrativi;
- blocco temporaneo delle aperture degli esercizi commerciali al dettaglio di maggiori dimensioni;
- nuova disciplina degli orari di vendita per il dettaglio;
- incentivi finanziari per favorire la fuoriuscita dal settore
La riforma, quindi, ha voluto offrire l’opportunità ai piccoli imprenditori del dettaglio di manovrare, finalmente senza
condizionamenti esterni, le principali leve di gestione su cui si basa la produzione del vantaggio competitivo in questo
genere di attività:
- assortimento: il venir meno degli obblighi “tabellari” consente, infatti, di adeguare ampiezza e profondità
degli assortimenti alle mutevoli necessità dei consumatori potenziali; 10
- localizzazione: non essendo più necessario ottenere l’autorizzazione comunale per esercizi con superficie di
vendita fino a 250 mq, gli imprenditori più dinamici possono sperimentare nuove iniziative in mercati spaziali
con caratteristiche differenti;
- orario di apertura: la maggiore libertà di scelta rispetto al passato consente a coloro che non lo ritengono
necessario o che non possono permettersi di prolungare il periodo di erogazione del servizio fino al massimo
consentito dalla nuova legge, di migliorare i livelli di produttività ed efficienza dell’iniziativa, attraverso un
continuo processo di fine tuning del ciclo produttivo ai ritmi di consumo manifestati dallo specifico mercato
di riferimento; tenendo conto, evidentemente, dei limiti imposti alla flessibilità dell’impiego delle risorse
umane dalla legislazione sul lavoro dipendente
In conclusione, l’attuale struttura del sistema distributivo italiano è il risultato di un processo di trasformazione,
ancora in corso, indotto da diversi fattori: il rallentamento dei consumi delle famiglie, i nuovi orientamenti e
comportamenti di spesa dei consumatori, l’avvento di moderne formule commerciali, l’introduzione di nuove
tecnologie. Tutti elementi che hanno accelerato i processi di sviluppo dell’efficienza e della competitività, ma hanno
anche prodotto situazioni di crisi, che hanno causato la chiusura di molte imprese sprovviste dei mezzi e delle capacità
di riposizionarsi in un nuovo contesto maggiormente concorrenziale. Si è passati, quindi, seppure gradualmente, da un
apparato commerciale di tipo “tradizionale” (numero limitato di tipologie distributive, prevalenza di piccole imprese,
basso livello di modernizzazione) a uno caratterizzato da maggiore varietà di formule distributive livelli di concorrenza
più elevati.
Capitolo 7 - Il Town Center Management
Le attività commerciali hanno sempre orientato le proprie strategie localizzative verso i centri cittadini, per loro natura
formidabili generatori di traffico. In particolare, la crescente pressione competitiva esercitata sui centri commerciali
cittadini dalle aggregazioni extraurbane di formule distributive pianificate (parchi e centri commerciali, outlet centre),
“costringerà” sia gli operatori economici interessati sia le autorità politiche competenti a intraprendere una strategia
di riposizionamento strategico che riguardi l’intera offerta di servizi delle città (Town Centre Management), al fine di
rispondere con maggiore efficacia alle istanze di un mercato sempre più esigente.
Un contributo importante in tal senso può venire dall’integrazione tra attività di shopping e servizi per l’impiego del
tempo libero (leisure).
Lo shopping può essere vissuto, a seconda delle circostanze, come un’attività necessaria e, quindi, negativamente
(task mode), oppure come uno svago (fun mode). L’obiettivo dell’integrazione con le attività di leisure non è
facilmente perseguibile in quanto nella realtà sussiste un panorama molto ampio e variegato di bisogni di svago, cui
corrisponde una gamma di alternative di “prodotto” altrettanto differenziata (cultura, socializzazione,
intrattenimento, benessere fisico).
Il problema, quindi, consiste nel cercare di individuare un equilibrato mix di formule distributive e di servizi di leisure
adatto a soddisfare in modo complementare, possibilmente nell’ambito della medesima shopping (leisure) expedition,
i bisogni di servizi commerciali e di svago di uno o più segmenti di domanda.
Si ritiene che debba essere cercato emulando le logiche di gestione che caratterizzano la formula del centro
commerciale al dettaglio pianificato (shopping centre). Tra le varie tipologie di shopping centre un’attenzione
particolare meritano i centri commerciali specializzati (speciality shopping centre), che rappresentano la risposta del
commercio alla crescente varietà dei comportamenti di consumo; in particolar modo per gli acquisti di confronto sono
necessari assortimenti molto profondi, che presentino al consumatore, in uno spazio di vendita ben definito, un
panorama quanto più completo possibile dell’offerta di beni esistente. 11
Capitolo 8 - Le decisioni strategiche fondamentali
Sull’impostazione della gestione e sui comportamenti imprenditoriali incide in modo rilevante il dato dimensionale,
che si collega alla disponibilità di piccole o grandi superfici di vendita e di un gruppo più o meno numeroso di esercizi
commerciali concentrato o diffuso sul territorio. Le società di maggior peso stanno, peraltro da tempo, perseguendo
anche obiettivi di espansione internazionale, con una penetrazione massiccia nei mercati mondiali più sviluppati.
Com’è chiaramente rilevato in dottrina, i confini dell’impostazione strategica della gestione sono differenti in funzione
dei seguenti parametri:
- forma aziendale dell’impresa commerciale (impresa indipendente, integrata o associata);
- forma distributiva prescelta (piccolo o grande dettaglio, ingrosso a funzioni piene o limitate);
- natura dei beni trattati (settore food o non food, beni di acquisto ricorrente, saltuario o eccezionale);
- numero e dimensione dei punti di vendita gestiti (unità o punti di vendita indipendenti, catene societarie o
volontarie);
- ampiezza e variabilità del mercato servito;
- esistenza di collegamenti in rete con altre imprese della filiera.
Prescindendo comunque dalla differente tipologia di imprese, si deve rilevare che un’impostazione strategica della
gestione, ovvero un orientamento a lungo termine delle scelte, non è molto comune. Al pari di altri tipi aziendali, la
gestione dell’impresa commerciale è caratterizzata dall’assunzione di scelte strategiche, tattiche e operative. Le prime,
che comportano il sostenimento di investimenti e che impegnano decisamente l’organizzazione, sono prese in
particolari momenti della vita aziendale e costituiscono forti innovazioni rispetto ai precedenti comportamenti
imprenditoriali. Le decisioni tattiche si concretano nella definizione delle politiche di gestione ovvero nella
determinazione degli obiettivi e delle azioni da realizzare nel breve termine, in funzione delle direttrici strategiche
prescelte. Politiche di approvvigionamento, politica delle scorte, politiche di marketing e finanziarie rientrano tra le
decisioni tattiche o di adattamento delle combinazioni prodotto/servizio da offrire al mercato. Le decisioni operative,
infine, sono quelle assunte giorno per giorno (ordini di acquisto, apertura dei conti correnti, disposizione delle merci
nel PDV ecc) nel rispetto delle politiche di gestione.
Con riferimento alle decisioni strategiche possiamo osservare che, molto spesso, esse sono rivolte
contemporaneamente allo sviluppo delle vendite e alla riduzione dell’incidenza dei costi. La conduzione di un’impresa
commerciale punta infatti, frequentemente, a un ampliamento del fatturato con un miglioramento dei margini di
profitto. Obiettivi di volumi e di margini guidano l’espansione dell’impresa, che deve avvenire tentando di rafforzare
l’economicità della gestione. Volendo schematizzare, si può osservare che le azioni di sviluppo sembrano concentrarsi
su tre diversi percorsi:
1- ammodernamento del punto di vendita e miglioramento dell’offerta;
2- razionalizzazione dell’organizzazione anche mediante l’associazionismo;
3- acquisizione di nuovi spazi di vendita e di servizio, di nuovi punti di vendita o di imprese operanti nello stesso
o in altri settori merceologici.
Tra questi tre percorsi il primo sembra tipico delle imprese che vogliono migliorare la loro posizione di mercato senza
sopportare grandi investimenti; il secondo si concentra sulla riorganizzazione aziendale e può sfruttare anche la leva
dell’associazionismo; il terzo è caratteristico delle strategie di sviluppo protese a far crescere la dimensione
dell’impresa commerciale.
Le scelte strategiche sono sempre il risultato della combinazione degli obiettivi da raggiungere e delle opportunità che
si possono cogliere nell’ambiente competitivo, in funzione, ovviamente, delle risorse e competenze disponibili. In
generale, tuttavia, si può ribadire che spesso sono le occasioni di attuazione delle strategie di sviluppo che finiscono
per condizionare le direzioni della crescita, che avviene approfittando di certe opportunità piuttosto che secondo un
predeterminato percorso strategico. In altri termini, è frequente che il presentarsi di possibilità di ampliare la 12
superficie del negozio o di acquistare nuove imprese o nuovi punti di vendita rappresenti la “strategia” di sviluppo, a
prescindere dalla volontà o dalla preferenza dell’impresa verso obiettivi di integrazione (orizzontale o verticale) o di
diversificazione della gestione.
Lo sviluppo dimensionale nel caso delle imprese commerciali assume un’importanza particolare per le economie di
scala che può produrre. Approvvigionarsi in maggiori quantità, suddividere i costi fissi su una base più ampia, poter
attuare campagne promozionali, sono tutti benefici che scaturiscono e si consolidano al crescere del volume di vendita
dell’impresa. La strategia di sviluppo più frequente è quella dello sviluppo orizzontale ovvero dell’ampliamento del
volume di affari nell’ambito dello stesso rapporto prodotto/mercato servito.
Tra le strategie di sviluppo orizzontale deve essere inserita anche quella di riposizionamento dell’impresa che,
mediante il mutamento dei livelli e dell’ampiezza dell’assortimento ed eventuali variazioni alla forma distributiva, può
scegliere di servire nuovi segmenti di mercato, modificando così il suo posizionamento strategico.
Quando non si vogliono sopportare i rischi delle acquisizioni o quando non si ritiene possibile e conveniente investire
rilevanti mezzi finanziari, una via di crescita meno impegnativa può essere rappresentata dall’associazionismo. Entrare
a far parte di gruppi di acquisto o avviare un rapporto di franchising può difatti agevolare lo sviluppo dimensionale con
rischi più limitati e meglio controllabili. Si tratta di migliorare l’utilizzo delle competenze e delle risorse di tutti gli
associati sfruttando, allo stesso tempo e a vantaggio di tutti, le economie di scala, di replicazione e di espansione.
Ancora più rara, perché riservata solo alle imprese della distribuzione meglio “attrezzate”, è la strategia di
internazionalizzazione che si concreta nell’acquisizione o nell’apertura di punti di vendita all’estero.
La strategia competitiva di un’impresa commerciale si fonda su una serie di scelte, che appaiono strettamente
collegate tra loro e che riposano, almeno in parte, sulle decisioni assunte all’atto dell’avvio dell’attività. In linea
generale, è possibile individuare, quale prima decisione strategica, quella di “posizionamento” a un certo livello
distributivo. L’impresa, difatti, a seconda dei mercati di approvvigionamento e di collocamento con cui vorrà
intrattenere relazioni commerciali, si può qualificare come grossista, semigrossista, impresa del grande dettaglio
organizzato o del piccolo dettaglio. La scelta del livello suppone la preventiva scelta dell’assortimento che si intende
trattare.
La definizione della strategia competitiva è, peraltro, strettamente collegata al grado di indipendenza gestionale
voluto dall’imprenditore e alla struttura finanziaria prescelta. A mano a mano che cresce il grado di integrazione in
organizzazioni di ordine superiore, decrescono i gradi di libertà nel disegno delle politiche di marketing e della stessa
struttura finanziaria.
E’ comunque opportuno osservare che nel caso della piccola impresa indipendente la realizzazione degli obiettivi di
gestione che, in generale, rimane sempre quella di far crescere il volume di affari, incrementare il reddito di esercizio,
conquistare una maggiore quota di mercato e migliorare l’immagine aziendale, appare strettamente legata alle scelte
di politica commerciale. In particolare, queste ultime appaiono orientate dalla duplice finalità di ampliare la base di
clientela servita, mediante l’allargamento dell’area di attrazione del punto di vendita, e di far aumentare lo “scontrino”
medio, facendo crescere il volume di ciascun atto di vendita effettuato presso il negozio.
Dato il limitato spazio disponibile occorre ottimizzare l’assortimento per ampiezza, profondità e consistenza. Una
maggiore ampiezza contribuisce ad ampliare il ventaglio di opportunità di acquisto proposto alla clientela, facilitando
l’accorpamento “sotto lo stesso tetto”, nella medesima spedizione di acquisto, dello shopping di beni di largo e
generale consumo; una maggiore profondità (incremento delle marche e delle referenze) consente invece di trarre il
massimo vantaggio dalla segmentazione di mercato, cui si associano bisogni di prodotti e servizi più specifici. Il
problema strategico dell’assortimento appare quindi cruciale nel successo dell’impresa commerciale. L’assortimento
deve essere valutato sotto i seguenti aspetti:
- la completezza del paniere richiesto dal mercato;
- l’idoneità qualitativa in base alle linee di prezzo accettate dalla clientela;
- la visibilità dell’offerta.
Tra le scelte d’impianto si ricomprendono le decisioni riguardanti l’unità tecnica (immobile) da realizzare (acquisire),
ampliare o ristrutturare. Nell’ambito della gestione delle attività commerciali rientrano, dunque: 13
- i problemi del dimensionamento (sia ideale sia concretamente attuabile) della capacità produttiva (superficie
da destinare alla vendita, a deposito o a parcheggio);
- della localizzazione e del know-how strutturale, sia tecnologico sia architettonico, del punto di vendita.
Il problema del dimensionamento di un’impresa commerciale richiede innanzitutto uno sforzo da parte del
management aziendale finalizzato a stimare nel modo più accurato possibile i volumi di attività necessari per
minimizzare i costi unitari medi di produzione, procedendo distintamente alla determinazione sia delle potenzialità di
lavoro massima dello spazio e delle attrezzature sia del grado di sfruttamento “ottimale” degli impianti rispetto al
punto di pareggio.
La scelta della localizzazione comporta un insieme di decisioni dai contenuti indubitabilmente strategici, essendo il
grado di intensità della concorrenza spaziale funzione del livello di concentrazione/dispersione sul territorio dei punti
di offerta. Tali decisioni si concretano nella determinazione dell’ubicazione delle strutture operative, che scaturisce da
un procedimento complesso basato, in prima istanza, su un’analisi di mercato finalizzata a individuare le aree che
presentano concrete opportunità di sviluppo per un’impresa intenzionata a realizzare un’iniziativa commerciale.
Successivamente, le ipotesi “teoriche” vengono esaminate alla luce delle reali alternative offerte dal mercato
immobiliare e delle eventuali restrizioni previste dalla legislazione urbanistica, commerciale e sanitaria.
Il punto di partenza di ogni analisi localizzativa è la determinazione dei confini dell’area di attrazione (catchment area).
Esiste un limite, infatti, di natura spaziale e/o temporale, oltre il quale difficilmente i consumatori sono disposti ad
andare per effettuare i propri acquisti che, peraltro, varia in modo anche significativo in funzione delle specifiche
esigenze di beni e servizi.
Il metodo generalmente utilizzato per disegnare la mappa si basa sull’utilizzo dell’automobile o di un altro mezzo di
trasporto al fine di misurare, nelle diverse ore del giorno, nei differenti giorni della settimana e, infine, nei diversi
periodi dell’anno, il tempo necessario per effettuare gli spostamenti per andare e tornare dal sito scelto come
possibile sede dell’attività commerciale “a posto fisso”.
Una volta definita la dimensione e la struttura dell’area di attrazione, si deve procedere alla quantificazione del
mercato potenziale. Le informazioni di base derivano essenzialmente dalle seguenti analisi:
- numerosità della popolazione (individui o nuclei familiari) rientrante nei confini dell’area di attrazione e
considerata parte del/i segmento/i di domanda cui l’imprese intende rivolgersi;
- potere di acquisto potenziale del suddetto mercato;
- punti di forza e di debolezza dei principali competitor.
Un terreno o un locale devono essere anche dotati di alcuni requisiti fisici (grandezza) ed economici fondamentali per
permettere la realizzazione dell’idea di tipologia distributiva sviluppata nella mente del promotore.
Nel corso degli anni anche la gestione delle attività distributive ha potuto beneficiare dello sviluppo prorompente
della tecnologia informatica, impiantistica e meccanica, ma non sempre con il medesimo grado di omogeneità a livello
internazionale. In Italia e in Francia, ad esempio, pur potendo in molti casi disporre delle necessarie risorse e
competenze, si preferisce dare spazio a soluzioni manageriali più flessibili, più incentrate sull’organizzazione e
sull’impiego efficiente della manodopera, piuttosto che accettare i rischi e i costi di impianto e messa a regime di
impostazioni produttive a più elevato contenuto tecnologico.
Un altro aspetto che si può ricondurre all’alveo delle conoscenze tecnologiche è quello dell’architettura del punto di
vendita (design, qualità dei materiali costruttivi e di rifinitura ecc).
Il layout, invece, è fortemente legato alla formula distributiva realizzata: le tipologie despecializzate, difatti, richiedono
forme semplici che consentano innanzitutto una facile accessibilità, mentre i distributori specializzati necessitano di
ambienti di vendita più sofisticati, in grado di esaltare le caratteristiche distintive del prodotto.
Un’impresa commerciale, una volta tracciato il proprio percorso evolutivo, deve porsi innanzitutto l’obiettivo di
massimizzare il grado di soddisfazione della clientela, al fine di costruire un vantaggio competitivo durevole rispetto
alla concorrenza operante in un determinato spazio di mercato. 14
Un efficace positioning comporta anche la “collocazione del prodotto in un definito sistema di percezioni riguardanti
l’offerta complessiva”. Una volta disegnata la mappa delle preferenze, in cui si riportano raggruppamenti omogenei di
clienti (cluster) cui corrisponde una formula distributiva “ideale”, è necessario costruire anche la mappa delle
percezioni al fine di analizzare il posizionamento “reale”, nella mente dell’acquirente, delle insegne operanti in un
determinato contesto concorrenziale, in ragione delle variabili percepite come discriminanti. Lo scopo di quest’analisi
è quello di individuare eventuali vuoti di offerta da colmare con “prodotti” nuovi e di misurare il grado di intensità
concorrenziale tra le diverse formule distributive, al fine di intraprendere possibili iniziative di rafforzamento o di
revisione strategica volte a fronteggiare nel modo più efficace le attività della concorrenza.
Le imprese commerciali hanno in genere una struttura operativa flessibile, che non richiede investimenti
particolarmente rilevanti in immobilizzazioni, materiali e immateriali, specie se paragonata a quella delle imprese
industriali. I principali componenti attivi della situazione patrimoniale delle imprese commerciali possono essere
sintetizzate in:
- attrezzature di stoccaggio;
- mezzi di movimentazione interna;
- automezzi;
- sistemi informativi;
- sistema di lettura codici a barre e “fatturazione”;
- impianti (elettrico, telefonico, riscaldamento ecc);
- marchi privati registrati;
- avviamento.
Vengono definiti sistemi di franchising quelle reti d’imprese “cui a un elemento centrale (franchisor) corrispondono
elementi satellite (franchisee), legati da rapporti economico-contrattuali definiti all’interno di un pacchetto globale, e
dotati di autonomia gestionale all’interno di un unico progetto imprenditoriale di gruppo”. Tramite questa speciale
forma di cooperazione imprenditoriale molte delle difficoltà che si incontrano nel commercio per dare attuazione a
una strategia di sviluppo della scala dimensionale possono essere gestite con maggiore efficacia grazie al contributo
operativo e finanziario dei partecipanti al progetto di affiliazione, soprattutto in virtù della condivisione delle
responsabilità e dei rischi specifici.
I principali vantaggi generalmente offerti agli operatori commerciali (franchisee) che decidono di entrare a far parte di
una catena di negozi in franchising sono descritti di seguito:
- diritto a utilizzare, in esclusiva per una determinata zona, un’insegna già nota, alla quale la clientela
potenziale associa uno specifico mix di beni e servizi, che in altri contesti è stato sperimentato con
soddisfazione;
- acquisire un know-how evoluto e collaudato in materia di analisi di mercato e di gestione delle attività di
marketing, logistiche e amministrativo-finanziarie;
- ottenere miglioramenti nelle condizioni di fornitura (prezzi di acquisto, resi su invenduto ecc);
- beneficiare di supporti promozionali, consulenziali e formativi.
Naturalmente, la possibilità di accedere ai benefit del sistema ha dei “costi” e, conseguentemente, dei rischi
economici e finanziari piuttosto elevati come quelli descritti di seguito:
- rispettare regole di comportamento non sempre tollerabili da imprenditori indipendenti;
- effettuare investimenti strutturali rispondenti agli standard richiesti dal franchisor, che in molti casi “impone”
scelte di materiali e ditte fornitrici richiedendo sforzi finanziari non sempre giustificati dalle prospettive di
redditività;
- sostenere uno standing di gestione corrente (affitto, personale, scorte ecc) remunerabile soltanto in presenza
di volumi di affari particolarmente elevati. 15
Capitolo 9 - La varietà dei modelli d’impresa nel commercio al dettaglio in Italia
La distribuzione commerciale al dettaglio è composta da una varietà di modelli istituzionali d’impresa. Per modello
istituzionale di impresa si intende, specificatamente, la forma proprietaria e il modello di governo alla base delle
decisioni strategiche dell’azienda. Fondamentalmente, nella grande distribuzione commerciale, operano tre diversi
modelli istituzionali di impresa:
- l’impresa manageriale;
- l’impresa capitalistica familiare;
- l’impresa cooperativa tra consumatori.
Nella grande distribuzione commerciale operano alcune rilevanti imprese aventi assetti multinazionali. In queste big
corporation vi è, sovente, uno sdoppiamento tra la proprietà dell’impresa (spesso composta da un azionariato
estremamente frammentato e limitatamente partecipativo rispetto alle decisioni strategiche) e il governo dell’impresa
(fondamentalmente esercitato da top manager).
Molte variabili che influenzano l’utilità dei top manager sono influenzate positivamente dalla crescita dimensionale e
organizzativa dell’impresa. Così, per esempio, il potere e il prestigio dei top manager sono condizionati dai livelli
dimensionali conseguiti. Purtroppo i top manager, perseguendo una crescita del fatturato totale, tendono ad andare
oltre il livello richiesto dalla massimizzazione dei profitti e, quindi, generando una caduta della profittabilità
complessiva.
Nella grande distribuzione commerciale, il modello dell’impresa capitalistica familiare è molto diffuso nel nostro
paese. Si tratta di un modello caratterizzato dalla presenza di un assetto proprietario stabile, concentrato nelle mani di
pochi azionisti, spesso appartenenti a una sola famiglia capitalistica. In altri termini, tale modello si caratterizza
fondamentalmente per due aspetti:
- il capitalista è il proprietario dell’impresa in quanto conferisce la quota di maggioranza, anzi spesso l’intera
totalità del capitale di rischio;
- la proprietà del capitale esercita le funzioni manageriali, decisionali e di controllo, ossia conferisce la propria
competenza organizzativa. Pertanto, in questo modello di impresa, si ha un’unificazione tra assetto
proprietario e assetto di governo.
Purtroppo, però, questo modello istituzionale di impresa ha generalmente difficoltà nell’intraprendere processi di
crescita dimensionale e organizzativa fondamentalmente per due motivi.
Da un lato vi può essere un fabbisogno specialistico di competenze nell’area della finanza o del marketing, che può
essere soddisfatto solamente con l’inserimento di personale qualificato. In questo tipo di impresa, il reclutamento si
fonda sul carattere fiduciario piuttosto che su quello della competenza. Ne consegue che il livello di efficienza e
produttività ottenuto da tali individui (famigliari) è inferiore a quello ottimale offerto sul mercato del lavoro.
Dall’altro, a fronte del perseguimento della crescita dimensionale e organizzativa dell’impresa, si genera un
fabbisogno addizionale di risorse finanziarie. La possibilità di aumentare la capitalizzazione dell’impresa allargando la
compagine dei soci è, dunque, una strategia possibile per assecondare la crescita dell’impresa. Tuttavia, nel modello
istituzionale del capitalismo familiare, questa possibilità è raramente perseguita, in quanto rompe un paradigma
organizzativo fondato sull’accentramento decisionale del singolo imprenditore.
Un ruolo di particolare importanza è rivestito, nel nostro paese, dalle cooperative tra consumatori. Il loro fine
mutualistico consiste nel cercare di aggregare individui-consumatori, realizzando un’attività commerciale al dettaglio,
al fine di migliorare la qualità e il prezzo di vendita al dettaglio dei prodotti venduti. Fondamentalmente, i soci-
consumatori svolgono attività lavorative e professionali esterne alla cooperativa e quest’ultima è meramente
strumentale rispetto al conseguimento di un loro vantaggio economico materiale. 16
Capitolo 10 - Lo sviluppo internazionale delle imprese commerciali
Si è detto come la spinta all’internazionalizzazione nasca quando gli spazi di crescita sul mercato domestico iniziano a
ridursi per effetto della saturazione della domanda per le diverse formule di vendita.
Per qualunque impresa esistono alcune premesse logiche all’internazionalizzazione. Deve anzitutto esistere un
vantaggio competitivo che possa essere fatto valere sul mercato-obiettivo. Molto in generale, questo può essere
costituito da un’innovazione di prodotto che, nel caso della distribuzione, consente di mettere a disposizione del
consumatore una nuova, o parzialmente nuova, tipologia di vendita o di processo, che consente di avere vantaggi di
costo rispetto a una tipologia già esistente.
Le principali motivazioni dell’internazionalizzazione della distribuzione si possono suddividere in:
1. Vantaggi di innovazione
- Innovazione assoluta: nuove formule distributive;
- Innovazione relativa: formule distributive non ancora consolidate sul mercato target;
- Assortimenti esclusivi: unicità dell’offerta basata su marche commerciali.
2. Vincoli alla crescita
- Saturazione del mercato domestico;
- Vincoli amministrativi all’apertura di nuovi punti di vendita.
3. Considerazioni strategiche
- Ricerca di vantaggi di prima mossa: occupazione dei prime site;
- Sfruttamento di economie di scala non raggiungibili sul mercato domestico;
- Risposta all’internazionalizzazione dei fornitori per mantenere elevato il potere contrattuale.
L’internazionalizzazione della distribuzione è, ormai, un processo irreversibile. Tenendo conto di quanto sia recente il
suo inizio, è facile prevedere che in un futuro non lontano costituirà un fenomeno di forte rilievo. Il punto di svolta
sarà probabilmente determinato dalla ricerca di sbocchi all’estero da parte dei maggiori gruppi di distribuzione
americani che oggi non sono ancora, con poche eccezioni, molto dipendenti dal mercato domestico.
Lo sviluppo di grandi imprese di distribuzione in grado di operare su più mercati nazionali pone problemi non solo alla
distribuzione, ma anche all’industria. La minaccia che i distributori globali costituiscono per l’industria si riassume nei
tre elementi riportati di seguito.
- L’uso della stessa insegna ovunque e il conseguente elevato grado di visibilità nei confronti del
consumatore.
- La capacità di progettare internamente almeno parte dei prodotti venduti.
- La possibilità di ricorrere a fornitori localizzati in qualunque parte del mondo.
La notorietà delle insegne permette di sostituire le marche industriali come fattore di garanzia e, per coloro che
operano con un maggior grado di segmentazione, talvolta anche di personalizzazione del consumo. La capacità di
progettare internamente parte dei beni in assortimento consente di rivolgersi alla produzione non più solo per
acquistare i beni di cui essa dispone, ma trasferendo direttamente i bisogni dei consumatori dei mercati in cui
operano. Il ricorso a fornitori presenti in qualunque mercato mette in condizione di sfruttare i vantaggi relativi ai
minori costi dei fattori di produzione, con una flessibilità che non è disponibile all’industria, neppure a quella che ha
intrapreso la strada della delocalizzazione dei propri impianti. In altre parole, i distributori globali sono in grado di
trasferire da qualunque paese direttamente ai propri scaffali prodotti pensati espressamente per i loro clienti. 17
DESCRIZIONE APPUNTO
Riassunto per l'esame di Economia e gestione delle imprese di servizi, basato su rielaborazione di appunti personali e studio del libro adottato dalla docente M. Cugno, Management della distribuzione, Sciarelli. Gli argomenti trattati sono: formule distributive, canali di distribuzione, varie tipologie di commercio, regolamentazioni, Town Center Management, category management, gestione finanziaria, innovazioni tecnologiche nella distribuzione.
I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher AleSkuolanet di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Economia e gestione delle imprese di servizi e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Torino - Unito o del prof Cugno Monica.
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