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6. ESERCIZIO DI MANSIONI SUPERIORI E PROMOZIONE AUTOMATICA.
Oltre che a mansioni equivalenti, il lavoratore può essere assegnato (sempre tramite l'esercizio del
ius variandi) a mansioni superiori.
Tale assegnazione potrà essere formalizzata, sin dall'inizio, come vera e propria promozione, alla
quale si accompagna, logicamente, l'attribuzione del superiore livello professionale e retributivo,
ma potrà anche essere disposta in via di mero fatto.
Con specifico riferimento a tale ipotesi l'articolo 2103 stabilisce che l'esercizio delle mansioni
superiori oltre a comportare, da subito, la spettanza della corrispondente retribuzione, diviene
definitivo (ossia comporta l'acquisizione definitiva del superiore livello di inquadramento) quando
sia perdurato per un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi.
Ciò implica che i contratti collettivi possano prevedere un termine inferiore, migliorativo; salvo che
per l'accesso alle categorie dei quadri e dei dirigenti, per i quali l'articolo 6 della legge numero 190
1985 consente la previsione di un termine eccedente quello legale, sul presupposto che per
accedere a tali più elevate categorie sia ragionevole richiedere un periodo più lungo di training.
L'interpretazione corrente è che i tre mesi debbano essere continuativi, ma i contratti collettivi,
come condizione di miglior favore, possono prevedere che il diritto alla promozione maturi anche in
caso di assegnazione non continuative protratte per un dato periodo.
Trascorso il periodo, il lavoratore acquisisce in via definitiva il livello contrattuale superiore e non
può più essere retrocesso, operando a proprio favore, in relazione a tale livello più alto, la garanzia
dell'equivalenza professionale.
L'unica eccezione a tale regola si dà nel caso in cui l'assegnazione alla mansione superiore sia
avvenuta per sostituire un lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto: in tale
ipotesi il limite dei tre mesi non opera che l'assegnazione può protrarsi anche più a lungo, senza
che maturi il diritto all'inquadramento definitivo nel livello superiore.
7. MANSIONI E PROFESSIONALITÀ NEL LAVORO PUBBLICO. NO
8. TRASFERIMENTO DEL LAVORATORE.
All'atto dell'assunzione, il luogo della prestazione lavorativa è precisato nel contratto. Ma il potere
di modificare tale luogo è sempre stato ritenuto compreso nel potere direttivo datoriale, che anche
per tale aspetto non soffriva, prima del 70, limiti di sorta.
L'articolo 13 dello statuto dei lavoratori ha invece statuito, sempre novellando l'articolo 2103, che il
lavoratore può essere trasferito da un'unità produttiva a un'altra solo quando siano approvate dal
datore di lavoro le ragioni tecniche, organizzative e produttive che lo giustificano. 120
La tecnica limitativa del potere è diversa da quella impiegata per lo ius variandi, non essendo
basata sul rispetto di un limite rigido come quello dell'equivalenza, bensì su una clausola generale
non sempre di facile interpretazione in concreto.
Ciò implica un maggiore margine di valutazione per il giudice investito dell'impugnativa di un
trasferimento, il quale deve esercitare un controllo sulla veridicità e attendibilità delle ragioni
addotte dall'imprenditore e sul nesso di causalità fra esse e il trasferimento; senza poter sindacare
nel merito la decisione imprenditoriale, ossia senza poter valutare l'opportunità economico-
organizzativa della scelta a monte. 121
CAPITOLO 5
TEMPI DI LAVORO E DI RIPOSO
1. PROFILI GENERALI E FONTI.
L’estensione temporale della prestazione lavorativa è uno degli elementi caratterizzanti del
rapporto di lavoro subordinato. La previsione di limiti a tale estensione, in relazione alla giornata ed
alla settimana, discende dall’esigenza di tutelare l’integrità fisica del lavoratore e la sua
partecipazione alla vita familiare e/o sociale.
Negli ultimi anni si è andati alla ricerca di mediazioni ulteriori, in particolare imponendosi l’esigenza
di favorire l’incremento della competitività delle imprese e lo sviluppo dell’occupazione. Ciò si è
concretizzato in un incremento delle possibilità di gestione flessibile degli orari.
È rimasto assai più ridotto lo spazio riservato ad un modulazione degli orari, ispirata dalla
considerazione delle esigenze personali del lavoratore.
Inoltre, si sono manifestate linee di politica del diritto tendenti a favorire, o persino ad imporre,
riduzioni generalizzate dell’orario di lavoro, in modo da distribuire fra il maggior numero possibile di
persone le occasioni di lavoro a disposizione.
All’interno di questo quadro generale, la disciplina dell’orario di lavoro si è dipanata attraverso
sentieri tortuosi e complessi, resi ancora più complicati, di recente, dal segnalato incrocio fra le
classiche istanze di salvaguardia della salute e quelle di flessibilità.
Dalla costituzione (articolo 36 comma 2) si ricava, anzitutto, la necessità di stabilire, per legge, un
limite alla durata massima della giornata lavorativa.
All'epoca dell'emanazione della carta, peraltro, un sistema legale limite all'orario già esisteva, ma
non nel codice civile, bensì nella legislazione speciale: l'articolo 1 comma uno del r.d.l. Numero
692 del 1923, prescriveva che la durata massima dell'orario di lavoro degli operai e impiegati nelle
aziende industriali o commerciali di qualunque natura, in ogni caso comunque è prestato lavoro
salariato o stipendiato alle dipendenze o sotto il controllo diretto altrui, non eccedesse le otto ore
giornaliere o le 48 settimanali di lavoro effettivo.
Al di sotto di tale tetto, si era liberi di praticare orari normali più ridotti; come quelli introdotti dalla
contrattazione collettiva, che ha gradualmente portato l'orario settimanale a 40 ore, in genere
mediante l'adozione della cosiddetta settimana corta.
Per decenni, il quadro legislativo è rimasto ancorato alla legge del 1923, e mettendosi in
movimento soltanto quando, nel 93, fu adottata la direttiva CE numero 104 del consiglio dell'unione
europea del 23 novembre 1993, concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro,
che ebbe a suggerire la necessità di una riforma organica della disciplina, ma il cui processo
traspositivo è stato, a dir poco, faticoso.
Una prima revisione si ebbe con l'articolo 13 della legge numero 196 del 1997, che introdusse un
orario normale settimanale di 40 ore, e rese possibile la modulazione dell'orario su base
settimanale. Ma il processo di riforma si arenò, rimettendosi in moto soltanto nella 14ª legislatura,
e approdando così al decreto legislativo numero 66 del 2003, che ha accorpato in un unico testo,
per la prima volta, la disciplina dell'orario di lavoro è quella dei riposi; con abrogazione di tutte le
disposizioni precedenti, ivi compreso l'articolo 2107 codice civile.
Il decreto legislativo numero 66 del 2003 ha rispettato, altresì, il ruolo tradizionalmente assegnato
alla contrattazione collettiva come fonte della disciplina dell'orario, al punto di devolvere ad essa
anche numerose facoltà di deroga in peius agli orari legali; pur con il limite che i contratti in 122
discorso devono essere stipulati (articolo uno comma 2 lettera m) da organizzazioni sindacali dei
lavoratori comparativamente più rappresentative.
Tali facoltà di deroga sono state ulteriormente incrementate, in specie nei riguardi della
contrattazione territoriale o aziendale, da parte della legge numero 133 del 2008.
Siffatte deleghe in bianco alla contrattazione collettiva aprono la strada a una flessibilizzazione,
potenzialmente notevole, dei regime di orario.
Si tenga conto che per l'inosservanza delle norme in tema di orario e di riposi sono previste dalle
legge disparate sanzioni amministrative, di carattere pecuniario
2. ORARIO NORMALE SETTIMANALE.
L'orario normale di lavoro rappresenta la misura dell'estensione temporale ordinaria della
prestazione lavorativa, e quindi, di conseguenza, il limite temporale oltre il quale le prestazioni
cessano di essere ordinarie e divengono straordinarie. Quando si parla di orario normale, ci si
riferisce di solito all'orario collettivo praticato presso un'impresa.
Per lungo tempo, la legislazione non ha previsto un orario normale, ma soltanto un orario massimo
normale (8 o 48) e un orario massimo complessivo, comprensivo dello straordinario (48 + 12, cioè
60 ore) lasciando campo libero, per il resto, ai contratti collettivi.
Lo prima disposizione che ha introdotto il concetto di orario normale è stato l'articolo 13 comma 1
della legge numero 196 del 1997 che lo ebbe a fissare in 40 ore settimanali.
L'articolo 3 comma 1 del decreto legislativo numero 66 del 2003 riproduce pedissequamente il
primo inciso nel suddetto articolo 13 comma 1, ribadendo che l'orario normale di lavoro è fissato in
40 ore settimanali. Nel comma successivo si aggiunge che i contratti collettivi di lavoro possono
stabilire, ai fini contrattuali, una durata inferiore a e riferire l'orario normale alla durata delle
prestazioni lavorative in un periodo non superiore all'anno.
Ne segue che l'orario normale di lavoro rimane fissato dalla legge in 40 ore settimanali, ma i
contratti collettivi, di qualsiasi livello, purché stipulati da organizzazioni sindacali dei lavoratori
comparativamente più rappresentative, possono stabilire, ai fini contrattuali, una durata minore,
come già accade in alcuni settori, e in particolare nei comparti pubblici; e non, quindi, una durata
maggiore.
Inoltre, ai contratti collettivi in discorso è data facoltà di prevedere orari cosiddetti multi-periodali,
ossia calcolati rapportando l'orario normale alla durata media delle prestazioni lavorative in un
periodo che può allungarsi, come massimo, sino alla soglia dell'anno.
Nel quadro di tali regimi di orario flessibile, l'orario normale si considera osservato se è rispettata la
media delle 40 ore in un arco temporale dato, ossia consentendosi che in alcuni periodi venga
superata la soglia delle 40 ore (attraverso prestazioni non qualificabili come lavoro straordinario),
purché compensata da altri periodi con orari inferiori alle 40 ore.
Per l'articolo 17 comma 5, la disciplina in tema di orario normale non si applica a quei lavoratori la
cui durata dell’orario di lavoro, a causa delle caratteristiche dell'attività esercitata, non è misurata o
predeterminata o può essere determinata dai lavoratori stessi, fra i quali in particolare le seguenti
categorie:
a) dirigenti, personale direttivo delle aziende o di altre persone ave