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IMPOVERIMENTO PER MANO DEL GIUDICE

A rendere il diritto penale servente rispetto al processo, nel senso dello svuotamento della

tipicità in funzione di una semplificazione probatoria, contribuisce anche l’operato della

giurisprudenza.

In tale contesto è possibile individuare, in primis, un impoverimento sinergico, in cui il

giudice si muove in linea con gli intendimenti del legislatore. Questo è tipicamente il caso

dei reati associativi, dove la giurisprudenza porta a logico compimento, sul terreno

dell’applicazione concreta, un progetto di semplificazione probatoria già avviato “a monte”

dal legislatore, in nome di un efficientismo di marca general preventiva.

Prove di tale concorsualità si hanno allorché il legislatore processuale provvede, con riforme

episodiche, ad ampliare il catalogo delle eccezioni alle regole ordinarie di accertamento del

reato.

Il fenomeno di impoverimento legislativo finisce per condizionare anche la fase cautelare,

soprattutto con riguardo alla custodia cautelare in carcere.

Si pensi alla presunzione relativa di cui al 3 comma dell’art.275 c.p.p., la quale dilatando al

massimo la deroga costituzionale di cui all’art.13 cost., determina un capovolgimento del

regime ordinario di applicabilità della carcerazione preventiva, tramite un meccanismo che

consente di presumere in capo a taluni indagati (o imputati) raggiunti da una gravità

indiziaria qualificata, la sussistenza delle esigenze cautelari legittimanti la irrogazione della

misura custodiale in carcere. Presunzione vincibile dall’indagato soltanto tramite la

dimostrazione dell’insussistenza in concreto di esigenze cautelari. Di talché la presunzione

relativa diventa sostanzialmente assoluta dal momento che essa trova applicazione in

relazione a una tipologia criminosa, 416 bis, ampiamente impoverita in sede redazionale.

Senza contare infine la cosi ottenuta elusione di quell’obbligo stringente di motivazione

delle ordinanze in materia de libertate.

Venendo all’analisi della fattispecie si pensi innanzitutto al concetto di associazione,

elemento centrale della fattispecie, sfornito di una definizione legale e quindi consegnato

all’interpretazione giurisprudenziale. Sennonché in giurisprudenza è diffuso il

convincimento secondo il quale l’associazione consisterebbe in un accordo stabile avente a

oggetto un “programma delittuoso indeterminato”.

Una simile definizione viene di sovente accompagnata dalla precisazione che non

occorrerebbe anche la presenza di una vera e propria organizzazione.

Di qui pertanto la riduzione del fatto tipico di associazione alla sussistenza di una mera

affectio societatis scelerum, ossia un vincolo associativo stabile tra più persone creato in

funzione della realizzazione di un generico programma delittuoso.

Peraltro, anche quando la giurisprudenza dimostra di voler includere tra i requisiti anche

l’organizzazione, lo fa accontentandosi di un minimo di organizzazione, ossia una

predisposizione di mezzi minima o rudimentale. Cosi vanificando ogni recupero di

offensività, dal momento che una organizzazione rudimentale viene ritenuta esistente

pressoché automaticamente.

In questo stesso contesto si inserisce quel diverso indirizzo prasseologico che, nell’intento di

valorizzare la distribuzione dei ruoli all’interno dell’associazione criminale, riduce il fatto

tipico dell’associarsi al mero impegno reciproco, ossia nella mera disponibilità reciproca a

instaurare un legame associativo.

Per la giurisprudenza quindi il reato associativo è espressivo solo un disvalore d’autore, in

quanto non è richiesta la riscontrabilità di una attività materiale espressiva di una offesa

tangibile.

Si registra, infatti, una soggettivizzazione del fatto tipico, in quanto si traspongono sul piano

del fatto elementi che dovrebbero rientrare nella colpevolezza: l’accordo e un programma

finalistico indeterminato. Cosi facendo la prova dell’associazione resta affidata alla prova

dell’elemento soggettivo del reato, il quale però una volta privato di un fatto dotato di

substrato materiale si presta a essere dimostrato del tutto presuntivamente.

Ma lo stesso deve dirsi anche a proposito del concetto di partecipazione, il quale sconta la

povertà definitoria del concetto di associazione. Non è infrequente imbattersi in pronunce

giurisprudenziali volte a ritenere partecipe colui il quale si sia limitato ad assumere un dato

ruolo nell’organizzazione, anche se del tutto insignificante. Col risultato di dare vita a vere e

proprie presunzioni di causalità, dal momento che la prova della efficienza causale della

partecipazione rispetto all’associazione risulta sguarnita di un referente di natura empirica,

poiché l’associazione è prevalentemente intesa quale mero accordo.

Infine una sorta di corollario di tale costruzione è l’opinione giurisprudenziale secondo la

quale la prova del reato associativo potrebbe ricavarsi anche dalla prova della commissione

dei delitti scopo. Senza avvedersi del fatto che in tal modo ne consegue l’annullamento della

stessa distinzione legislativa tra associazione per delinquere e concorso nei delitti scopo

dell’associazione, pur nitidamente scolpita dalla opzione legislativa del dolo specifico in

relazione al reato associativo. L’ovvia conseguenza è costituita da un vistoso ampliamento

della sfera del penalmente rilevante, tramite la rinuncia alla valorizzazione sul piano

probatorio dell’unica componente strutturale di fattispecie realmente pregna di implicazioni

probatorie, ossia il dolo specifico, il quale subisce una emarginazione dal terreno del fatto

per essere ricondotto solo al versante della colpevolezza, dove proprio per il fatto di avere a

oggetto una finalità che non deve realizzarsi finisce per essere ricompreso in comodi schemi

di accertamento presuntivo.

Tale limitazione del dolo specifico in chiave soggettiva è la più immediata conseguenza

della identificazione del bene giuridico protetto dalle fattispecie associative con entità

macroscopiche e inafferrabili come l’ordine pubblico ideale (ordine legale costituito, ossia

insieme dei principi che governano un dato ordinamento giuridico); o l’ordine pubblico

materiale (buon assetto e regolare andamento della vita sociale dello Stato, oggettivo: pace e

sicurezza dei consociati, soggettivo: pubblica quiete e tranquillità).

La selezione di un bene giuridico privo di un substrato empirico-fattuale, giustifica l’idea

che il disvalore penale dell’associazione risiederebbe interamente nel fatto di associarsi, ma

nel limitato senso di accordarsi e far proprio un generico programma criminoso senza che

sia necessario il compimento di un qualsivoglia atto.

Un parziale recupero della offensività del reato associativo può aversi attraverso la

valorizzazione della funzione selettiva della tipicità rivestita dal dolo specifico. Tutte le

volte in cui il dolo specifico risulti abbinato a condotte in sé prive di un disvalore penale

autonomo, esso subisce una mutazione, andando a funzionare come fondamento esclusivo

della illiceità e quindi della punibilità del fatto.

Quindi il dolo specifico è chiamato a svolgere una funzione tipicizzante in termini di

offensività. Al riguardo l’esempio del reato associativo è calzante, ove si osservi che senza

la prova dell’intenzione criminosa degli associati (dolo specifico), la mera volontà di

associarsi costituisce l’atteggiamento psicologico tipico di chi esercita una libertà negativa

di rango costituzionale.

Pertanto è opportuno aderire a quelle ricostruzioni del dolo specifico in chiave

oggettivizzante, stando alle quali tutti i reati a dolo specifico sarebbero da ricostruire in via

interpretativa sul modello dei reati di pericolo concreto con dolo di danno, di talché essi

dovrebbero dirsi perfezionati solo allorquando, oltre alla prova della intenzione di

conseguire quel dato scopo, sia stata raggiunta anche la prova della oggettiva idoneità della

condotta al perseguimento dello scopo preso di mira dall’agente.

Ne discenderebbe che una realtà criminale di tipo associativo, potrebbe dirsi offensiva solo

nella misura in cui si accerti che abbia una organizzazione adeguata alla realizzazione di una

pluralità indeterminata di delitti.

La prova del dolo

E’ invalsa la prassi di ritenere dimostrata l’esistenza del dolo mediante presunzioni, si pensi

al caso del “non poteva non sapere”. L’uso di tale formula si risolve in una soppressione del

dolo per via giudiziale. Infatti il giudice si limita ad affermare l’esistenza di un fatto

materiale liquidando con questa formula l’accertamento del dolo. Il reato ne uscirà cosi

contratto da risultare un dolus in re ipsa.

In questo contesto si inserisce anche l’abuso del dolo eventuale, il quale consente ai giudici

di sanzionare condotte strutturalmente soltanto colpose. Ne consegue l’eliminazione in via

di fatto della colpa con previsione. In vero, l’esperienza giurisprudenziale rende evidente

l’impraticabilità di un discrimen tra dolo eventuale e colpa cosciente, basato tutto su un

distinguo psicologico, e quindi quasi indimostrabile nel processo. Ne consegue una

abrogazione di fatto della colpa cosciente e un ampliamento dell’ambito di operatività del

dolo eventuale per punire anche fatti colposi che non sarebbero punibili.

La corruzione propria: ipotesi di impoverimento conflittuale

Tale fattispecie sconta la sistematica rinuncia alla prova dell’elemento di fattispecie

costituito dall’atto contrario ai doveri d’ufficio.

Infatti, la giurisprudenza prevalente non esita ad affermare che la sussistenza di un fatto di

corruzione propria debba prescindere dall’individuazione di uno specifico atto

amministrativo, quale oggetto del mercimonio intercorso tra il pubblico agente e il privato,

essendo piuttosto sufficiente accertare l’esistenza di un generico comportamento

antidoveroso del primo.

Basta pertanto la prova della violazione di doveri generici, quali quello di fedeltà o probità,

in quanto una simile inosservanza risulterebbe comunque dimostrativa di un generalizzato

asservimento della funzione pubblica agli interessi di un privato.

Sulla scorta di una simile interpretazione, la prevalente giurisprudenza finisce per correlare

la punibilità a titolo di corruzione propria alla mera violazione del prestigio della pubblica

amministrazione, se non alla infedeltà o disonestà del pubblico agente, in guisa da estendere

illimitatamente la portata applicativa della norma in nome di un disvalore d’azione o di

autore pericoloso.

Il descritto impoverimento giurisprudenziale risulta fi

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Publisher
A.A. 2014-2015
19 pagine
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SSD Scienze giuridiche IUS/17 Diritto penale

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher marcel2 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Diritto penale e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli studi Mediterranea di Reggio Calabria o del prof D'Ascola Vincenzo Nico.