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ECRML.
I conflitti balcanici sono di natura assai poco etnico – linguistici: serbo, croato e bosniaco sono lingue quasi
identiche, se non per l’alfabeto. Nonostante questo, i tre popoli in questione sono stati protagonisti di eccidi e
massacri reciproci.
La questione rilevante in tutti gli Stati balcanici, in particolare nell’ex Jugoslavia, riguarda la qualificazione
delle minoranze: da ciò discende chi abbia o non abbia diritto alla tutela minoritaria e linguistica. Devono
essere considerate minoranze non solo quei gruppi che vivono in un dato territorio da secoli, le “vecchie”
minoranze nazionali caratterizzate dall’avere uno Stato di riferimento, ma anche le “nuove” minoranze
nazionali, ossia i gruppi che con la dissoluzione dell’ex Repubblica socialista federale di Jugoslavia hanno
perso il loro status di popolo costitutivo.
La tecnica di protezione minoritaria è quella dei Consigli di rappresentanza delle minoranze. Si tratta di
organismi, di natura permanente od occasionale, i quali possono essere indipendenti, oppure incardinati
all’interno di organi esecutivi od assembleari. La loro funzioni è soprattutto quella di intermediazione tra gli
organi decisionali ed i gruppi minoritari, ed esistono, a seconda delle varie esperienze statali, ai vari livelli di
Governo. A tali istituzioni, della cui effettiva efficacia si può in certi casi dubitare, si ricorre molto nell’area
centro – orientale e balcanica, forse anche a causa dell’influenza culturale esercitata dall’austro – marxismo
e dalla sua idea di creazione di auto amministrazioni separate dei gruppi nazionali, per quanto connesse al
circuito decisionale ordinario.
La regolamentazione delle lingue negli Stati balcanici si iscrive per gli aspetti più rilevanti della gestione della
convivenza interetnica, che presenta altri aspetti molto problematici, come quello del riconoscimento dei
rifugiati.
La legislazione sulle minoranze degli Stati balcanici è fra le più generose al mondo. Queste è però la
conseguenza di due fattori:
• Uno tragico, legato al recente passato di conflitti armati.
• L’altro è quello dell’adesione alle istituzioni europee, Consiglio d’Europa ed Unione europea.
I Balcani sono sempre stati sinonimo di instabilità politica, di mescolanza di popoli, di successione di Stati.
Sia i nuovi Stati sorti dalle ceneri della ex Jugoslavia sia quelli che presentano una continuità territoriale,
hanno modificato la loro forma di Stato, abbiano essi rispettato o meno le previgenti regole costituzionali.
Dopo 20 anni dalla caduta del muro di Berlino prevale però l’interpretazione di chi ritiene che non siano state
rispettate le regole formali della revisione delle Costituzioni socialiste. È indubbio che la transizione
nell’Europa centrale ed orientale abbia segnato una vittoria del modello di Stato democratico e liberale.
Nel primo momento di vigenza dello Stato di diritto liberale in questi Paesi si è enfatizzato il ruolo della
nazione dominante, in ossequio alla più tradizionale teoria dello Stato – nazione. Il rischio è che prevalesse
la nozione etno – nazionalista su quella civica, il che si sarebbe tradotto in discriminazioni nei confronti delle
minoranze.
La prospettiva europea ha però favorito l’inclusione di disposizioni di tutela minoritaria. Anche nell’Europa
che non è coinvolta nel possesso di integrazione nell’Unione europea. Ma fa parte del quadro giuridico del
Consiglio d’Europa e dell’OCSE, vi è una tensione fra politiche linguistiche nazionaliste e doveri di
protezione minoritaria.
L’area del Mar Nero e del Caucaso presenta diversi casi esemplari: tutti gli Stati promuovono la loro lingua e
cultura maggioritaria, ma il pericolo di conflitti interetnici consiglia soluzioni di autonomia, peraltro di fatto già
esistenti e di leggi ad hoc sulle minoranze.
Il problema è quello dell’implementazione delle misure di tutela minoritaria. Vi è il fondato timore che, senza
un’adesione sincera ai principi del pluralismo culturale e linguistico, le disposizioni di tutela minoritaria
rimangano inattuate e rimanga nella Costituzione vivente ed il substrato del nazionalismo escludente che
comprime ed annacqua i diritti delle minoranze nazionali.
Macedonia.
La Macedonia è uno Stato dove le minoranze nazionali costituiscono una parte rilevante della popolazione.
Ha conosciuto anche conflitti interetnici, nel 2001, fra le forze paramilitari albanesi e le forze di sicurezza
macedoni. La Macedonia sembra aver scelto la strada di un ordinamento etno – culturale, con un sistema
complesso di quote per le minoranze, ma non un sistema di parità fra i gruppi etno – linguistici. Questa
natura è tipicamente rappresentata dall’accordo di Ohrid, che però, a differenza dell’accordo di Dayton, non
prevede quote negli organi superiori dello Stato né un sistema di autonomia territoriale per la minoranza
albanese. La tensione tra democrazia etnica e civica è dunque evidente, come in tutti gli ordinamenti
balcanici, ma sembra che prevalga la prima: si tratterebbe di una combinazione di diritti di prima e di
seconda specie, ma l’aspetto dell’integrazione nella minoranza, che caratterizza i primi, appare piuttosto
debole. Dato quello che è avvenuto nei Paesi vicini, non sembra essere comunque un risultato disprezzabile.
Gli accordi di Ohrid del 2001 sono intercorsi fra i maggiori partiti albanesi e macedoni, costituiscono un
quadro entro cui i diritti minoritari sono garantiti, in cambio della rinuncia all’uso della violenza. Gli Accordi di
Orhid contengono anch’essi disposizioni sui diritti linguistici. Queste sono stare recepite da una legge
ordinarie del 2007, secondo la quale ogni lingua parlata da almeno il 20% della popolazione è anch’essa,
oltre al macedone, lingua ufficiale che può essere usata nei comuni dove almeno il 20% della popolazione
parla quella lingua, nelle comunicazioni con alcuni uffici dell’Amministrazione centrale e con le
Amministrazioni periferiche dello Stato centrale se in quella zona parla la lingua minoritaria almeno il 20%
della popolazione. In pratica sono misure che riguardano l’uso della lingua albanese, l’unica che a livello
statale è parlata almeno dal 20% dei cittadini. Un uso parziale dell’albanese è ammesso anche all’interno del
Parlamento di Skopje, e si prevede che presto questa misura sarà estesa alla maggior parte delle attività
parlamentari.
La Costituzione del 1991 è un documento sufficientemente protettivo verso le minoranze, pur nel
riconoscimento di un ruolo privilegiato per la maggioranza macedone.
• Articolo 7: prescrive che la lingua macedone scritta con l’alfabeto cirillico è la lingua ufficiale della
Repubblica di Macedonia e nelle sue relazioni internazionali.
o Comma 2: aggiunge che ogni altra lingua che parlata da almeno il 20% della popolazione è
lingua ufficiale, insieme al suo alfabeto.
o Comma 3: ogni documento ufficiale di cittadini che parlano una lingua ufficiale che non sia il
macedone sarà possibile anche averlo in quella lingua minoritaria, anche se c’è l’obbligo
della lingua macedone.
o Comma 4: specifica che tutte le persone che risiedono in un’stituzione di autogoverno che
abbia almeno il 20%che parla una lingua ufficiale diversa dal macedone, può usare qualsiasi
lingua ufficiale per comunicare con l’Ufficio regionale del Governo centrale.
Il rapporto della Commissione europea del 2008 riconosce i progressi e gli sforzi compiuti ai vari livelli
istituzionali per garantire una migliore convivenza fra i vari gruppi linguistici e l’effettività dei diritti delle varie
comunità linguistiche minoritarie. Il rapporto sottolinea da un lato che spesso manca un coordinamento fra i
vari Ministeri incaricati di svolgere le politiche minoritarie e, dall’altro, implementazione degli Accordi di Ohrid
necessita di compiere un passo avanti, attraverso un approccio consensuale ed uno spirito di compromesso.
Il caso emblematico e problematico della questione delle minoranze in
Turchia.
L’Impero ottomano si reggeva attraverso il sistema dei millet, espressione coranica che significa “comunità
religiosa”. La popolazione non era divisa su base territoriale, ma secondo l’appartenenza religiosa dei suoi
membri. Era un sistema assai flessibile e pragmatico, consistendo in uno scambio fra il sultano e la comunità
religiosa: il primo assicurava protezione alla seconda, che si impegnava a versare tributi ed il cui capo, che
doveva essere un religioso, era tenuto a garantire l’ordine interno del gruppo. Il sistema dei millet spiega in
parte l’approccio turco nei confronti delle minoranze. Questo sistema era rispettoso delle differenze etniche e
religiose dei non musulmani. Le radici della questione minoritaria in Turchia sono dunque molto antiche. Le
autorità turche insistono sul fatto che esse siano da riferire unicamente alla politica di ingerenza delle
potenze occidentali, che già l’avevano esercitato nella fase iniziale dell’Impero ottomano. Il sistema dei millet
nel XIX secolo, quello dei nazionalismi, provocò anche il risveglio degli armeni, le cui vicende avranno tanto
peso nella politica turca del secolo successivo, ed anche in questo primo decennio del XXI secolo.
Gli armeni avevano vissuto un risveglio sociale ed economico, favorito anche nella fitta rete di rapporti con il
loro connotazioni che vivevano nell’Europa occidentale.
La spinosa questione dei diritti delle minoranze era stato a lungo soppressa nella coscienza collettiva turca,
quasi fosse un vero e proprio tabù. La vicenda più imbarazzante è proprio esemplificata dalla questione
armena, sollevata in particolare da alcuni Stati europei, secondo i quali il governo turco deve riconoscere il
genocidio che si svolge fra il 1915 ed il 1918 e che colpì 1 milione di armeni.
Il genocidio degli armeni fu l’apice di una serie di eventi tragici vissuti all’interno dell’Impero ottomano e che
colpì la comunità cristiana concentrata nella parte orientale del paese.
La questione armena aveva cominciato ad emergere nella seconda metà dell’Ottocento. Nel 1856 vennero
varate dal sultano alcune riforme che garantirono ancora più che nel passato alle minoranze la libertà di
culto, l’eguaglianza con i musulmani davanti ai tribunali e nel pagamento delle imposte, l’accesso alle
Pubbliche Amministrazioni e, soprattutto, la conferma della piena libertà riguardante l’organizzazione interna
della comunità.
I rapporti fra le varie nazionalità dell’Impero ottomano, fra di loro e nei confronti della maggioranza turca,
erano complessi e per nulla lineari.
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