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LE MODIFICHE ALLA DISCIPLINA DEI LICENZIAMENTI

IL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE PER MOTIVI ECONOMICI

Il tema del licenziamento individuale per motivi economici è da anni al centro di un incessante dibattito sulle

politiche regolative del lavoro, ed anche in questi mesi ha assunto ruolo centrale nella discussione sulla

riforma proposta dal Governo Monti sulla base delle affermate necessità di adeguamento del nostro

ordinamento al quadro europeo.

Quando si parla di “flessibilità in uscita” si intende soprattutto fare riferimento alla possibilità per il datore di

lavoro di sopportare minori vincoli nella scelta di ridurre il personale per fare fronte a situazioni di difficoltà o

alla necessità di apportare modifiche all’organizzazione del lavoro. Il tema è dunque quello dei licenziamenti

per motivi economici, che possono poi svilupparsi nella forma giuridica del licenziamento individuale per

giustificato motivo oggettivo (art. 3, legge n. 604 del 1966) o dei licenziamenti collettivi per riduzione del

personale. Il fatto che un allentamento del tasso di rigidità della disciplina giuridica dei licenziamenti possa in

effetti dar luogo a maggiore competitività, favorire l’aumento dell’occupazione, ridurre il dualismo tra

occupati stabili e precari o disoccupati, sono assunti basati su presupposti indimostrati, dei quali le più serie

ricerche di economisti e giuristi mettono in discussione il fondamento.

Ciò premesso, appare comunque contraddittorio il fatto che la riforma Fornero intervenga non sulla

disciplina sostanziale dei licenziamenti (se non per un aspetto di carattere procedurale), ma su quella

sanzionatoria, attenuando le conseguenze di un licenziamento invalido: il risultato dunque non è che diventa

più semplice o più facile, per l’impresa, operare un licenziamento legittimo, ma diventa meno costoso

licenziare un lavoratore senza giustificazione. Tale scelta solleva notevoli perplessità, a cominciare dal fatto

che la disciplina dei licenziamenti ha lo scopo di presidiare non solo, e non tanto, l’interesse del lavoratore

alla stabilità del rapporto di lavoro (perché nel nostro ordinamento tale interesse cede di fronte ad una seria

e dimostrata ragione imprenditoriale), quanto la libertà e la dignità stesse del lavoratore, la sua condizione

contrattuale nella quotidiana relazione di conflitto di interessi con il datore di lavoro.

L’evoluzione nel tempo della disciplina legale dei licenziamenti ha visto sovrapporsi regole sostanziali e

sanzionatorie.

La legge n. 604 del 1966, superando il precedente regime previsto dal codice civile (che ammetteva la libera

recedibilità di entrambe le parti) ha previsto che il datore di lavoro possa licenziare il lavoratore a tempo

indeterminato solo ove sussista una giusta causa o un giustificato motivo. Tale principio, inizialmente

circoscritto solo alle imprese di una certa dimensione, è divenuto generale e applicabile a tutti i datori di

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lavoro con la legge n. 108 del 1990 (restano esclusi solo alcuni rapporti di lavoro, come quelli dei dirigenti e

dei lavoratori domestici).

Il licenziamento per ragioni economiche è quello identificato dal c.d. giustificato motivo oggettivo, che è

determinato da “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare

funzionamento di essa” (art. 3), e viene intimato dal datore di lavoro rispettando un termine di preavviso

(ovvero, in caso di dispensa dal preavviso, dovendo riconoscere al lavoratore la relativa indennità sostitutiva).

Il datore di lavoro che invochi la sussistenza di tali ragioni ha l’onere di provarle in giudizio (art. 5), nell’ipotesi

in cui il lavoratore impugni il licenziamento (impugnazione che, ai sensi dell’art. 6 come modificato dalla

legge 183 del 2010, o ora di nuovo dalla legge 92/2012, deve essere fatta entro 60 giorni, con avvio

dell’azione giudiziaria entro i successivi 180 giorni).

Ove il datore di lavoro non dia prova del motivo economico addotto a giustificazione del recesso, o lo stesso

non sia ritenuto rilevante da parte del giudice, il licenziamento è dichiarato illegittimo e dà

luogo a un differente regime sanzionatorio a seconda della dimensione dell’ente o impresa.

Per i rapporti di lavoro che si svolgano alle dipendenze delle imprese minori (datori di lavoro che occupano

fino a 60 dipendenti, o fino a 15 nella singola unità produttiva o nell’ambito del medesimo comune) la

conseguenza è quella della mera tutela “obbligatoria”, con condanna del datore di lavoro a riassumere il

lavoratore (ipotesi che di fatto non si realizza mai) o a risarcirgli il danno con una indennità fissata dal giudice

in una misura tra due e mezzo e sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Ove siano superati i limiti dimensionali sopra ricordati (per il cui calcolo, peraltro, operano alcune regole

specifiche) entriamo nel campo di applicazione dell’art. 18 stat. lav. e dunque di quella che, fino alla legge 92,

veniva chiamata tutela “reale”.

Esso (nella versione precedente alla legge in commento) prevedeva una tutela caratterizzata dal fatto che la

sentenza rimuove gli effetti del licenziamento illegittimo, il rapporto di lavoro viene ricostituito nella sua

continuità giuridica, il lavoratore ha diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro e, per il periodo intercorso

tra licenziamento e ricostituzione effettiva del rapporto, ad un risarcimento del danno equivalente alla

retribuzione persa (con un minimo di cinque mensilità), oltre al versamento dei contributi previdenziali. Il

lavoratore peraltro poteva rinunciare alla reintegrazione a fronte di una indennità di quindici mensilità della

retribuzione (fermo restando il risarcimento per il periodo trascorso tra il licenziamento illegittimo e la

rinuncia alla reintegrazione).

In un primo momento, sembrava che la riforma dell’art. 18 dovesse incidere soltanto sulla sanzione dei

licenziamenti per motivi economici, escludendo per gli stessi l’obbligo di reintegrazione e introducendo un

regime soltanto indennitario. Poi si è parlato dell’adozione di un modello analogo a quello tedesco, nel quale

il licenziamento per motivi organizzativi passa attraverso una procedura di verifica con le organizzazioni

sindacali, destinata a condizionare in modo significativo il successivo controllo del giudice, il quale può

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disporre sia la reintegrazione del lavoratore sia una alternativa meramente risarcitoria (proporzionata in

genere all’anzianità del lavoratore).

La soluzione adottata infine dalla legge, dopo passaggi caratterizzati da pressioni e contributi di ogni segno,

riguarda soltanto i licenziamenti nel campo di applicazione dell’art. 18 (nulla cambia dunque per i rapporti di

lavoro nelle imprese o unità produttive minori) e si articola su due terreni:

 viene introdotta una procedura preventiva in sede amministrativa (non dunque in sede sindacale,

anche se la presenza di rappresentanti delle parti sociali è comunque assicurata), che il datore di

lavoro deve necessariamente promuovere se vuole adottare un licenziamento per motive

economici; tale procedura (ora disciplinata dal nuovo art. 7 della legge 604/1966) ha lo scopo di

spingere le parti ad un accordo su soluzioni alternative al licenziamento o sulla risoluzione

consensuale del rapporto di lavoro, anche in funzione deflattiva del contenzioso;

 viene modificato il regime sanzionatorio del licenziamento per giustificato motivo oggettivo,che

d’ora innanzi potrà dar luogo alla reintegrazione (con annesso regime risarcitorio, ma attenuato

rispetto all’ipotesi di tutela piena prevista per i licenziamenti discriminatori, e con continuità del

rapporto sul piano previdenziale) solo nell’ipotesi in cui il giudice accerti “la manifesta insussistenza

del fatto posto a base del licenziamento”, mente in altre ipotesi il lavoratore ha diritto a una

indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di

ventiquattro mensilità della retribuzione globale di fatto;

 la reintegrazione è invece sempre prevista per i casi, che il legislatore equipara al licenziamento per

g.m.o., in cui risulti illegittimo il licenziamento adottato per superamento del periodo di comporto

per malattia o infortunio, ovvero per inidoneità fisica o psichica del lavoratore;

 sempre sul piano sanzionatorio, è invece prevista una sanzione risacitoria ulteriormente attenuata

(da sei a dodici mensilità) nel caso in cui il licenziamento sia dichiarato inefficace per violazione degli

obblighi procedurali previsti dall’art. 7 della l. 604 come modificato dalla legge 92 , salvo che il

lavoratore non chieda al giudice di accertare il maggior vizio derivante dall’assenza di giustificazione,

nel qual caso si tornerà ad applicare il regime (reintegrazione o risarcimento) sopra descritto.

La procedura in sede amministrativa.

L’art. 1, comma 40 della legge 92 riformula integralmente l’art. 7 della legge 604 del 1966 (il quale, in origine,

prevedeva un tentativo di conciliazione successivo al licenziamento) introducendo una procedura preventiva

all’adozione del licenziamento per motivo oggettivo. Il datore di lavoro, se ricadente nel campo di

applicazione dell’art. 18 stat. lav., deve necessariamente inviare una comunicazione alla Direzione territoriale

del lavoro (DTL), e per conoscenza al lavoratore

interessato, nella quale dichiara l’intenzione di procedere al licenziamento per g.m.o. e deve

indicare “i motivi del licenziamento medesimo nonché le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del

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lavoratore interessato”.

La DTL entro sette giorni (termine qualificato dalla legge come perentorio) deve convocare le parti avanti la

Commissione di conciliazione ex art. 410 c.p.c. (costituita, come noto, da un funzionario della stessa DTL e da

un rappresentante per parte nominati dalle associazioni sindacali territoriali dei lavoratori e dei datori di

lavoro maggiormente rappresentative), per svolgere una procedura finalizzata a trovare soluzioni alternative

al recesso (quali ad esempio la ricollocazione del lavoratore su altre sedi o mansioni, la sospensione del

rapporto per un certo periodo, la riqualificazione del lavoratore, ecc.) ovvero a raggiungere un accordo sulla

risoluzione consensuale del rapporto di lavoro. Per sostenere tale ultima ipotesi è previsto, innovando

rispetto all’attuale disciplina dell’indennità di disoccupazione, che in caso di accordo il lavoratore abbia

comunque diritto a percepire l’indennità della nuova Assicurazione sociale per l’impiego (Aspi), o che

possano adottarsi strumenti come l’affidamento del lavoratore ad agenzie del lavoro (qui va notato che la

legge fa un riferimento letterale all’art. 4, comm

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A.A. 2013-2014
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SSD Scienze giuridiche IUS/07 Diritto del lavoro

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher lulusì di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Diritto del lavoro e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli studi Mediterranea di Reggio Calabria o del prof Fontana Giorgio.