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CAPITOLO III
REGIME FAILURE E DIRITTO COMUNITARIO
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Meno vivace di un tempo, la disputa sulla natura dell'ordinamento comunitario si riverbera oggi
nell'avversione dei generalisti per il concetto di self-contained regime e nei dibattiti sul rapporto tra
diritto internazionale generale e diritto comunitario dove quest'ultimo è inteso come «mera» lex
specialis. La discussione insiste soprattutto sul problema dell'attuazione coercitiva del diritto, in
particolare sulla debolezza delle garanzie formali previste dell'ordinamento comunitario rispetto a
quelle offerte dall'ordinamento generale.
Nell'ordinamento generale, gli Stati si fanno giustizia da sé. La funzione di attuazione coercitiva del
diritto non è accentrata e si distribuisce «seguendo» il possesso dei mezzi idonei ad esercitarla.
Questi, a partire dal governo effettivo del territorio, restano in mano agli Stati, mentre le
organizzazioni internazionali ne sono generalmente sprovviste. La Comunità (economica) europea
non fa eccezione. Ad alcune organizzazioni è stato tuttavia attribuito il potere di ledere la sfera
giuridica dei membri a fini coercitivi: oppure, come nel caso dell'OMC, un potere equivalente è
riconosciuto agli stessi consociati, che lo esercitano secondo gli schemi della giustizia privata, ma
sotto il controllo dell'organizzazione. Sin dal 1964, la Corte di giustizia ha dichiarato in termini
perentori l'esclusione dell'autotutela dall'ordinamento.
SEZIONE I
CONTROMISURE NEL DIRITTO COMUNITARIO
Le tesi sul fondamento del divieto di « farsi giustizia da sé »
Il Trattato non si limita infatti ad imporre ai singoli soggetti degli obblighi reciproci, bensì ha dato
vita ad un nuovo ordinamento giuridico il quale determina i poteri, i diritti e gli obblighi dei soggetti
stessi, come pure le procedure per far constatare e reprimere le eventuali violazioni. All'infuori dei
casi espressamente previsti, il sistema del Trattato implica perciò il divieto per gli Stati membri di
farsi giustizia da sé. L'inadempimento degli obblighi incombenti al Consiglio non potrebbe quindi
dispensare i convenuti dall'adempiere ai propri».
Il dictum della Corte si estende chiaramente anche alle relazioni tra Stati membri: nella sfera del
diritto comunitario nessuno può, mai, «farsi giustizia da sé».
Secondo alcuni, il dictum della Corte ha una portata limitata, nel senso che non varrebbe nel caso in
cui le speciali garanzie offerte dal diritto comunitario si dimostrino inadeguate. In altri termini, le
situazioni di regime failure sarebbero estranee all'ambito di applicazione della regola in questione'.
A questo orientamento, ampiamente maggioritario, se ne contrappone un altro, secondo cui la Corte,
escludendo l'autotutela, ha stabilito un principio incondizionato.
Non sembra possibile affermare che l'esclusione dell'autotutela, in quanto principio fondamentale
dell'ordinamento comunitario, si fondi puramente e semplicemente sulla sentenza della Corte,
concepita come atto giuridico produttivo di norme generali. Non tanto perché, da un punto di vista
strettamente formale, la pronuncia dichiarativa dell'infrazione ha efficacia limitata al caso di specie',
ma soprattutto in ragione del fatto che la dinamica delle fonti dell'ordinamento comunitario è più
complessa, specialmente quando è in gioco l'affermarsi di principi strutturali.
Una seconda ipotesi consiste nell'inferire l'esclusione dell'autotutela dagli obblighi giurisdizionali
assunti dagli Stati col loro ingresso nella Comunità.
Escludendo l'autotutela, la Corte di giustizia ha ovviamente inteso precludere le relative attività di
auto-accertamento.
La posizione della Commissione è chiara: la facoltà di adottare contromisure nei confronti del
presunto offensore sussiste fintantoché l'illecito non venga meno, a prescindere dal fatto che la
relativa controversia ricada nella competenza di un giudice capace di dirimerla con decisione
vincolante. Questa regola presuppone la facoltà degli Stati di compiere atti di auto-accertamento,
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anche pendente lite, e di trarne le conseguenze che credono, ovviamente esponendosi al rischio di
subire una condanna.
L'argomento della giurisdizione obbligatoria, considerato in sé e per sé, non porta quindi molto
lontano, ed è sintomatico che la Corte non l'abbia specificamente menzionato, o quantomeno non
enfatizzato, nella sentenza capostipite. In ogni caso, l'argomento non sarebbe in grado di giustificare
l'esclusione dell'autotutela in caso di regime failure.
Si è sostenuto che la messa al bando dell'autotutela possa essere ricondotta al principio
dell'esclusività delle procedure di regolamento predisposte dal Trattato. Il principio è espressamente
contemplato gli Stati membri «si impegnano a non sottoporre una controversia relativa
all'interpretazione o all'applicazione del presente trattato a un modo di composizione diverso da
quelli previsti dal trattato stesso». Ora, non sembra che si possa qualificare l'autotutela come «modo
di composizione», al quale gli Stati membri possano «sottoporre una controversia».
Si è inoltre suggerito di fondare la rinuncia degli Stati membri all'autotutela sul principio
solidaristico enunciato nel Trattato, che impone agli Stati membri il duplice dovere di adottare tutte
le misure idonee ad assicurare l'esecuzione degli obblighi comunitari e di astenersi da qualsiasi
condotta che possa compromettere la realizzazione degli scopi del Trattato. Secondo una parte della
dottrina, ben oltre lo specifico caso della Comunità europea, l'esclusione dell'autotutela è da
considerare implicita « nel vincolo di solidarietà e collaborazione tra gli Stati membri di qualsiasi
organizzazione ». La stessa dottrina, però, ammette ciò che la Corte ha negato sin dal 1964 ossia
che, in extremis, quando i rimedi intrasistemici sono ormai esauriti, il ritorno all'autotutela è
ammissibile per esercitare una pressione sullo Stato recalcitrante.
Secondo alcuni autori, l'esclusione dell'autotutela discende necessariamente dal carattere «solidale»
degli obblighi creati dal diritto comunitario, carattere che, a sua volta, si desumerebbe « dall'oggetto
stesso del trattato». Essi impediscono, allo Stato che intende agire a titolo di contromisura, di
«isolare» l'autore dell'illecito dagli altri titolari del diritto da colpire. Pertanto, qualsiasi
comportamento dello Stato reagente che sia contrario al diritto comunitario finirebbe per ledere, non
solo l'offensore, ma anche tutti gli altri Stati membri, per ipotesi estranei al rapporto di
responsabilità: sarebbe quindi non meno illecito della condotta che mira a reprimere. Questa tesi
non è persuasiva.
In sostanza, essa postula un'equiparazione degli obblighi comunitari — di qualsiasi obbligo
comunitario ai vincoli che gli Stati sono tenuti in ogni caso a rispettare nella sfera dei diritti
dell'uomo. Ma questa è un'evidente esagerazione.
Tra i presupposti della messa al bando dell'autotutela, la Corte metteva in risalto l'idea secondo cui
l'ordinamento avrebbe definito in modo autosufficiente le procedure, non solo per accertare, ma
anche per «far reprimere» eventuali violazioni, e ciò nello stesso istante in cui estrometteva
dall'ordinamento una delle principali forme di garanzia del diritto internazionale, senza che nel
frattempo un analogo potere fosse stato attribuito alle istituzioni comunitarie.
Fondamento e portata dell'esclusione dell'autotutela
«Il sistema del Trattato implica il divieto di farsi giustizia da sé all'infuori dei casi espressamente
previsti». La Corte disse « divieto », non « diritto».
Cosi facendo, la Corte sovverte la logica classica dei rapporti tra regole speciali e generali:
l'autotutela, normalmente praticabile salvo deroghe esplicite (o agevolmente desumibili dal testo),
diviene inammissibile salvo che non sia espressamente consentita dal trattato.
L'esclusione dell'autotutela, mediata dall'inversione delle tradizionali presunzioni interpretative, era
destinata a divenire parte integrante dell'ordinamento comunitario.
Nell'arco di due decenni la giurisprudenza è divenuta costante, mentre le pretese di «farsi giustizia
da sé» avanzate dagli Stati membri si sono fatte più rare ed anche meno convinte.
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«Un'eventuale violazione da parte di uno Stato membro, d'un obbligo impostogli dal trattato, non
può essere giustificato dalla circostanza che altri Stati membri siano anch'essi venuti meno a detto
obbligo. Più distorsioni della concorrenza non hanno sugli scambi tra gli Stati membri l'effetto di
neutralizzarsi reciprocamente, ma anzi si cumulano fra loro, il che ne aumenta le conseguenze
pregiudizievoli per il mercato comune»; «uno Stato membro non può... invocare l'eventuale
disconoscimento del Trattato da parte di un altro Stato membro per giustificare la propria
inadempienza»; «uno Stato membro non può permettersi di adottare unilateralmente
provvedimenti... destinati ad ovviare all'eventuale trasgressione, da parte di un altro Stato membro,
delle norme di diritto comunitario».
Affermarsi non tanto una norma consuetudinaria materiale sull'autotutela, ma piuttosto una regola
sull'interpretazione del Trattato, applicando la quale si ricava, dal silenzio di quest'ultimo,
l'esclusione dell'autotutela.
La regola si applica nel determinare quali siano i margini di autotutela o di intervento unilaterale
rimasti a disposizione degli Stati membri.
L'applicazione della regola interpretativa speciale nel campo dell'autotutela comporta varie
conseguenze di rilievo:
in primo luogo, nella misura in cui non è espressamente consentita, l'autotutela è vietata a
- prescindere dalla natura dello strumento scelto per porla in essere, sia esso afferente al diritto
della responsabilità (la contromisura) ovvero al diritto dei trattati (la sospensione);
in secondo luogo, l'applicazione della regola neutralizza l'argomento secondo cui l'autotutela
- resterebbe ammissibile in caso di regime failure a meno che la lex specialis non stabilisca
diversamente riferendosi espressamente a quella fattispecie. Anche questo argomento, dipende
dalle presunzioni interpretative comuni che la regola speciale comunitaria ha, però, sovvertito:
nel silenzio del Trattato l'autotutela non è permessa ma esclusa;
in terzo luogo la regola fa sì che l'esclusione del