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Per essere accettato era necessario costruire con loro un’esperienza in cui la
dimensione del carcere venisse messa momentaneamente tra parentesi: quei
ragazzi nei loro pensieri e nelle loro parole si vivevano e si pensavano
continuamente fuori dal carcere, quindi la loro idea di libertà era
esclusivamente in negativo, cioè basata sul fatto di andarsene dalla prigione.
Manzi capì che il problema era quello di costruire con i ragazzi un’idea di libertà
in positivo ad esempio attraverso la tecnica dello storytelling che offre “una
via di fuga” attraverso l’immaginario.
La storia non deve essere casuale: Manzi costruisce il racconto con rigore
scientifico e narrativo, e con precisa intenzionalità pedagogica, quella per
cui i ragazzi appassionandosi alla storia, trovino nei personaggi e nelle
situazioni un senso che li porti a immaginare e a pensare, a porsi delle
domande e a cercare delle risposte. L’idea è che i racconti e le fiabe siano
strumenti formidabili per “educare a pensare”.
Finita la storia del castoro, i ragazzi avevano preso gusto a fare delle cose
insieme e questo era il momento giusto per proporre una nuova esperienza che
aprisse l’orizzonte dei ragazzi non solo attraverso l’immaginario ma con 1
esperienze reali: ottenne il permesso dal direttore per segare le sbarre delle
finestre dell’aula e il permesso per i più meritevoli di qualche ora in più fidi
libertà. Manzi insieme al magistrato che dirigeva il riformatorio fondarono il
centro di boy-scout e così fu possibile organizzare campi all’aperto e nessuno
si pentì della fiducia data a quei ragazzi.
Lo scautismo fu un tratto importante nel metodo pedagogico utilizzato da
Manzi, e i temi centrali erano quelli del gioco e dell’avventura, della
responsabilità e della libertà, dello spirito di gruppo e del piacere di scoprire il
mondo e di mettersi alla prova. Non a caso per la storia di Grogh Manzi sceglie
un registro dove la vita degli animali assume i connotati di una potente
metafora pedagogica attraverso cui leggere i temi della giustizia e
dell’ingiustizia, della necessità di affrontare i conflitti e del bisogno d’aiuto e
l’ambiente naturale, sfondo di questa avventura, è luogo patrimonio di comune
appartenenza, la cui salvaguardia è garanzia della vita di tutti. È quasi un
omaggio “i libri della giungla” di Kipling, il modo in cui Manzi identifica e
caratterizza gli animale e gli elementi naturali di Grogh, un mondo fantastico,
ludico e avventuroso.
Non era facile conciliare il rigido regolamento del carcere con le possibilità di
vivere le esperienze dello scautismo eppure questa esperienza andò avanti
anche dopo il 1949 quando Manzi terminò il suo lavoro al Gabelli. La vita del
gruppo scout del Gabelli continuò ad essere raccontata dai suoi protagonisti
sulle pagine del giornalino La tradotta, e molte di queste pagine vengono
dedicate allo scoutismo, al suo valore come metodo educativo e all’esperienza
del Gabelli e c’è anche una lettera di Manzi a cui è dato il titolo “parla il primo
magister”. Di tutti i 94 ragazzi usciti dal carcere, sono 2 vi sono ritornati. Manzi
decide di riscrivere la storia dandone un senso compiuto, per due anni non
seppe più niente quando gli comunicarono che aveva vinto il premio “Collodi”
e fu Maria Montessori a consegnarglielo. Bompiani lo pubblica e nel 1953 la
Rai ne fa una trasposizione radiofonica. Grogh avrà un successo internazionale,
sarà tradotto in 28 lingue.
La seconda opera è la più famosa: Orzowei, pubblicato nel 1955, vincitrice del
premio “Andersen” con edizioni in oltre 30 lingue. Grazie anche alla serie tv e
alla versione cinematografica, Orzowei si colloca tra i classici contemporanei
della letteratura per l’infanzia. Ambientato in Sudafrica alla fine dell’800 e
molte tribù si scontrarono in feroci guerre coloniali dove bianchi e neri si
contendono ricchi territori. Sfondo di Orzowei: le guerre anglo-boere.
Orzowei è un romanzo dove l’avventura ha risvolti duri e impietosi della
violenza carica di pregiudizio e di razzismo, spesso descritta nei suoi dettagli
cruenti. Vi è però anche la progressiva elaborazione degli anticorpi alla violenza
e all’odio che si formano non dando voce a discorsi intrisi di moralismo ma
all’interno dell’avventura stesa. Anche qui risuonano echi Kipunghiani: la
giungla indiana, Tarzan, Mowgli. Le avventure raccontate in questo libro sono
un autentico repertorio di quella pedagogia scout che si basa sull’imparare 2
osservando e facendo, sulle lezioni apprese alla scuola della vita quotidiana e
delle cose concrete.
Manzi si era laureato in biologia e la sua competenza scientifica traspare
chiaramente sia in Grogh che in Orzowei, dove si trovano pagine sulla vita
animale, lotta per la sopravvivenza, il dispiegarsi della natura e delle sue leggi.
Entrambi i romanzi hanno un finale tragico (morte eroica dell’eroe) e
salvifico insieme (questo gesto salva il suo popolo): opere che riproducono i
canoni della tragedia. Il mondo della natura e la vita che vi si svolge, sia
umana che animale, per Manzi non sono né un parco divertimenti né un luogo
regressivo o di fuga dove tutto è buono e bello, si tratta piuttosto di un
ambiente duro, a tratti crudele, oppure un “mondo della vita” dove l’uomo
può sia costituire la propria identità e la propria formazione autentica, sia
esercitare il proprio potere distruttivo.
Prima di pubblicare Orzowei, Manzi compie il suo primo viaggio in Sudamerica,
un’avventura che durerà 20 anni dedicata a insegnare agli adulti, non solo ai
bambini, analfabeti. Alla fine degli anni ’40, si iscrive all’università di filosofia
dove conosce un grande pedagogista italiano: Luigi Volpicelli ma non gli piace
perché “non si sperimenta niente”. L’icona televisiva di Manzi, costruita in 9
anni di “Non è mai troppo tardi” dal 1960 al 1968, così affidabile e
rassicurante, non svelava all’apparenza le inquietudini di quel maestro
elementare in continua solitudine nella ricerca. Lo stesso programma televisivo
era un’autentica sfida comunicativa e pedagogica: raggiungere oltre due
milioni di adulti analfabeti, con i quali bisognava pensare ad un modo di fare-
scuola diverso dalla scuola.
Era questo che interessava Manzi. L’avventura di un percorso didattico tutta da
costruire e che nasceva con un atto di rottura con la tradizionale
comunicazione scolastica. Quando inizia la carriera televisiva, Manzi è già di
ruolo nella scuola elementare da una decina di anni. Egli non si limitava a
guardare la realtà della scuola e a lamentarsene, non aggrediva l’istituzione
perché dell’istituzione aveva una visione alta, accettando pienamente la sfida
di pensare e di fare educazione in maniera diversa, anche a costo di mettersi
contro l’istituzione.
Terminata l’esperienza televisiva, Manzi torna al proprio ruolo di maestro
elementare nella scuola Fratelli Bandiera di Roma, dove mette in pratica una
metodologia e uno stile decisamente innovativi rispetto agli standard: egli
utilizza modalità e tecniche educative che da circa mezzo secolo
caratterizzavano la ricerca psico-pedagogica e didattica in Europa e in Nord
America, proponendo un’”educazione attiva” basata sul metodo scientifico.
A differenza di altri paesi, la pedagogia italiana e soprattutto quella scolastica,
è sempre stata molto “timida” nei confronti dell’attivismo anche se, a partire
dagli anni ’60 del novecento, non mancarono esperienze e figure significative:
Don Lorenzo Milani, Mario Lodi, Danilo Dolci, Bernardini, Rodari.. gruppi di
insegnanti trovarono nel MCE (movimento di cooperazione educativa) un
ambito di aggregazione e di formazione dove mettere in comune quel modo di 3
fare scuola , se sue esperienze e le sue tecniche che assumevano come punto
di riferimento il pensiero e l’opera di Celestin Freinet.
Questo impianto pedagogico ridefinisce il modo di concepire il rapporto
insegnamento/apprendimento, cercando di valorizzare soprattutto
l’apprendimento attivo dei bambini e mettendo al centro della didattica il
concetto di esperienza: si tratta di un metodo non prescrittivo nelle procedure
didattiche e che lascia ampia libertà all’insegnante di impostare il setting, nella
selezione dei contenuti e degli strumenti, delle modalità di organizzare il lavoro
che deve risentire dell’ambiente di vita, degli interessi cognitivi che nascono
nei ragazzi e dello “stile” e delle capacità dell’insegnante..
La classe di Manzi, a tal proposito, assomigliava molto di più ad un
laboratorio, dove l’attività che si svolgeva richiedeva densità di
comunicazione reciproca, movimento, uso di strumenti e materiali diversi: è un
“ambiente cognitivo” che sopporta un certo grado di “disordine”. Il bambino è
a scuola con il corpo, con i suoi pensieri e con i suoi sensi, ci sono i libri,
attrezzi da lavoro, piante, animali, si disegna, fotografa, e l’attività didattica è
un esercizio continuo tra pensiero, linguaggio, azione.
Abolita la cattedra, messa in un angolo della classe e abolito il registro;
• Rimossi i banchi e disposti 3 a 3 a formare dei triangoli per potersi guardare
• in faccia;
La scolaresca è stata divisa in 6 gruppi in modo tale che in ognuno di essi ci
• sia quello bravo in italiano, quello bravo in aritmetica.. e ciascuno si
impegna ad aiutare gli altri del suo gruppo se ce n’è bisogno;
Il libro di testo è stato abolito e nelle ore di italiano qualcuno legge ad alta
• voce i libri di Virgilio Lilli e il maestro interrompe per chiedere il perché di
una parola, per far notare la costruzione di una frase, lo stile di una
descrizione.
L’insegnamento, liberato dagli schemi tradizionali, si riassume nello spazio di
abituare i ragazzi a ragionare da soli, a fare la sintesi dei problemi in modo che
ciascuno sviluppi la propria responsabilità, metta in luce doti e attitudini, ma
soprattutto trovi nella scuola l’interpretazione e la spiegazione di ciò che vede
fuori. Vengono fatte gite scolastiche frequenti che servono a studiare ambienti,
fatti, fenomeni; i voti, dice Manzi, i ragazzi se li danno da soli: ognuno sa qual
è stato il suo rendimento e a che punto deve giungere.
“L’importante è che l’alunno si abitui a ragionare sulla base di elementi visibili
e reali, presto imparerà a risolvere questioni teoriche e astratte” e per fa