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-TT- -T- -D-
RŬPTA(M) RŎTA(M) CAUDA(M)
[‘rota] [‘rɔda] [‘koa]
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In termini di cronologia, il fenomeno più antico è la sonorizzazione. In alcuni casi la [d] originaria si
è dileguata. Lo scempiamento è stato innescato dalle occlusive proprio perché non c’erano più
occlusive sonore scempie e allora ciò ha reso possibile il passaggio di esse a scempie, che ha poi
portato a quello delle consonanti intense. Se vediamo i documenti antichi, le consonanti occlusive
vengono scritte come intense, mentre le occlusive come scempie.
Apocope delle vocali finali diverse da A
La [a] finale si conserva in tutti i dialetti, per esempio nel veneziano abbiamo [‘ɛ̯ una]
approssimante dorso palatale rilassata da LŪNA(M). Da VINU(M) abbiamo [vin] e da CANE(M)
abbiamo [kaŋ]. Il fenomeno è come a tutta l’area; ciò che segna importanti differenze è il contesto
in cui si produce: la vocale che cade e la consonante precedente ci sono dialetti che apocopano
sempre la vocale e altri che ne apocopano soltanto alcune.
Dialetti in cui le vocali finali diverse da [a] cadono regolarmente come nei dialetti lombardi ed
emiliani: CANE(M) diventa [ka] e da CAMPU(M) abbiamo [ka(ŋ)p]. È interessante che la
consonante diversa da [a] cada sempre, ciò ha ripercussioni morfologiche: la vocale finale dei
plurali cade, il che fa sì che non ci sia opposizione tra singolare e plurale nei maschili e nei
femminili abbiamo il singolare che presenta una marca fonologica [a] e il purale non la presenta (la
“teta”, i “tet”). Altri dialetti le conservano se hanno rilevanza morfologica, in piemontese abbiamo
“io parlo” che diventa [‘parlu]. I contesti sono condizionati morfologicamente, o in altri casi
possono essere motivati dal contesto fonologico, per cui abbiamo [‘mɛ̯ rlu] con conservazione della
vocale finale che si deve alla difficile pronuncia del gruppo -RL-.
Abbiamo anche dialetti meno apocopanti, in ambito galloitalico è importante l’area ligure: la gran
parte dei dialetti liguri, ad eccezione dei dialetti di transizione tra il tipo ligure, piemontese ed
emiliano, conoscono la conservazione della vocale finale, per cui abbiamo caduta soltanto dopo
nasale, in genovese abbiamo il [kaŋ] e il [viŋ], ma il [kampu].
Il veneziano e il veneto centrale conservano la gran parte delle vocali finali: l’area di Padova,
Vincenza e Rovigo, conosce la caduta dopo nasale, ma la conserva negli altri contesti, come nel
caso degli infiniti. Il veneziano conosce la caduta dopo nasale, ma anche in altri contesti, dopo
laterale, per cui in veneziano abbiamo [‘kaŋ], [viŋ], ma abbiamo anche [sol] e [ma’ɲar]. Dall’area
liventina, della provincia settentrionale di Venezia e di parte della bassa trevigiana, abbiamo
caduta in alcuni contesti, ma non in altri, dove abbiamo “el mus”, “l’asino”, andando più a Nord,
nell’area feltrino-bellunese, le vocali cadono praticamente tutto. La presenza o l’assenza
dell’apocope è un interessante fattore di classificazione dei dialetti veneti.
Per quanto riguarda il veneziano, da una parte vediamo l’influenza della morfologia sulla
fonologia: la “e” e la “o” finale, vocali che cadono in veneziano, dovrebbero cadere sempre, ma la
“e” si mantiene se è marca morfologica. Nei dialetti lombardo-emiliani, invece, la fonologia
prevale sulla morfologia. Vediamo anche il diverso comportamento di [l] [m] [n] [r] secondo la loro
derivazione dal latino.
[ma’ɲar] < MANDUCĀRE
[sol] < SŌLE(M)
[viŋ] < VĪNU(M) 40
Abbiamo sempre delle consonanti scempie, ma quando avevamo consonanti intense la vocale si è
conservata, per cui
Le vocali finali precedute da consonanti scempie del latino sono cadute, quando invece erano
precedute da intense si sono conservate. Se ipotizziamo prima scempiamento dell’apocope, ciò
vuol dire che abbiamo avuto “anno” che è diventano “ano”, se l’ordine fosse stato questo, però,
oltre a “vin” avremmo dovuto avere “an”, dunque quando è avvenuta l’apocope le consonanti non
erano ancora scempie, ma intense. Dunque il fenomeno è posteriore all’apocope, che è databile
verso la fine dell’Alto Medioevo. In altre varietà, come il trevigiano, abbiamo caduta delle vocali
vicino a laterale intensa.
Assibilazione di C e G latine quando erano seguite da una vocale anteriore [e], [i].
L’assibilazione è frutto di un lungo processo. In latino C e G erano pronunciate come [k] e [g]. Si
conservano tuttora nel sardo logudorese, ma nelle altre zone sono passate ad affricate palatali.
Nei dialetti dell’Italia settentrionale abbiamo avuto esiti ulteriori: abbiamo avuto un avanzamento
dell’articolazione che da palatale è passata ad alveolare, cioè [ts] e [dz]. Questa articolazione oggi
è rara, ma non è del tutto sconosciuta, si ritrova in alcuni dialetti dell’Appennino emiliano, dove
abbiamo forme come [tservelo] per “cervello”, che non vede però un’assibilazione totale. In gran
parte dei dialetti l’esito è stato in fricativa sorda e sonora: in veneziano, per esempio, abbiamo
[‘seŋto] < CĔNTU(M), [ze’nɔtʃo] < GENŬC(Ŭ)LU(M). Esito recente, non antico. Nel dizionario del
Boerio vediamo la pronuncia di “cento” con la [s], dunque la pronuncia prima era di tipo affricato.
Per quel che riguarda il Veneto, interessante è ciò che succede in area non cittadina.
e,i > [ט] (è la fricativa interdentale sorda, cioè la theta greca) [ts]
e,i
G [ƻ] [d]
Considerazione per osservare come in [s] e [z] si siano conservati nessi consonantici diversi del
latino.
Abbiamo una [s] in Veneto che può derivare da sibilante iniziale, sibilante intensa intervocalica,
una c iniziale seguita da “e, i” e da un nesso di C+J e di T+J. “Santo” si dice [‘santo], mentre
“troppo” si dice [‘masa], “cento” si dice [‘seŋto], “faccia” si dice [‘fasa] e “piazza” si dice [‘pjasa].
Abbiamo una [z] che deriva da sibilante intensa intervocalica, da un gruppo di G + “e,i” latine, da
uno yod latino, da un nesso di D+J latino e da un nesso di S+J latino. “Casa” si dice [‘kaza], “dice” si
dice [‘diz̯
e], “peso” si dice [‘pɛzo] < PEJUS, “medio” si dice [mɛzo] < MEDIU(M) e “bacio” si dice
[‘bazo] < BASIU(M). 12/04/2017
- 26 aprile a fondamenta nove alle 12.15. arriveremo un’oretta dopo. Breve visita al museo e
dalle 14.30 arrivano le merlettaie. 16.44 o 17 vaporetto di ritorno.
Giovanni Abete ci parlerà della raccolta e dell’interpretazione del dato in dialettologia. Argomento
principale è la fonetica dei dialetti meridionali. Ha scritto molto sulla dittongazione spontanea. Ha
analizzato il dialetto di Pozzuoli. Ha stampo strutturale più fattori di sociolinguistica.
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Raccolta e interpretazione sono aspetti legati. Popper dice che non esistono metodi di raccolta che
siano totalmente innocenti. La scelta del metodo è importante. I dati devono essere
contestualizzati rispetto alla situazione. Dobbiamo cercare di avvicinarci alla realtà anche se non la
raggiungeremo mai. Spesso dobbiamo essere in grado di utilizzare più metodi. Parlerà di come
farsi accettare dalla comunità. Parlerà di come tirare fuori il parlato spontaneo in dialetto. Parlerà
di raccolta finalizzata a etnosaperi ed esempi di come restituire alla comunità parte del lavoro del
linguista.
Come si entra nella comunità
L’obiettivo della ricerca era la dittongazione spontanea a Pozzuoli. I dittonghi sono un fenomeno
estremamente sensibile al contesto. Dopo Pozzuoli va a Torre Annunziata, dove dittongano sei
vocali su sette in tutti i contesti, ma è un centro sovraffollato con problemi di criminalità. Questi
sono dialetti stigmatizzati perché sono visti come una forma di napoletano degenerato e non
accettavano l’idea che studiasse il dialetto. Abete si è finto interessato alle tradizioni e alla cultura
invece che ai dialetti. Alla fine riuscì a farsi accettare. Spesso è utile andare a delle persone stimate
dalla comunità, come il sindaco, il parroco, oppure di presentarsi come amici di amici. Bisogna
essere realmente interessati. Con le telecamere non si aprono. Labov scrive che per ottenere i dati
più interessanti dobbiamo osservare le persone quando non sono osservate. Come osservatori
modifichiamo la situazione comunicativa. Berruto dice che la situazione comunicativa sono le
circostanze in cui avviene un evento di comunicazione linguistica. Sono fondamentali l’argomento
trattato, il grado di formalità della situazione e gli interlocutori e il loro grado sociale. Gli stessi
interventi delle persone modificano la situazione comunicativa. Labov studiava la pronuncia di R in
alcuni contesti e si inventò un modo per costringere a dire “tre” piano in inglese e li registrava.
Qualunque tecnica allontana dalla veridicità dell’intervista comunque. C’è l’osservatore non
partecipante, con telecamere nascoste, ma non si usa più. L’osservazione partecipante si usa poco
perché il ricercatore deve diventare parte della comunità e ci vogliono mesi. La conversazione
libera e la conversazione guidata sono i più usati. Nella libera si lascia che le persone siano libere di
parlare e l’intervistatore interviene solo per tenere viva la conversazione. In quella guidata
l’intervistatore cerca di dirigere la conversazione verso degli argomenti per far venire fuori delle
parole che possono servire. L’intervista standardizzata non si usa perché è di tipo giornalistico con
domande e risposte. Poi ci sono i questionari. A volte c’è scissione tra parlato spontanee e risposte
a domande dirette. L’intervista libera deve essere realizzata in un contesto famigliare per
l’intervistato. Bisognerebbe intervistare più di una persona. L’intervistatore dovrebbe usare un
dialetto simile a quello dell’intervistato. L’intervistatore interviene attivamente nell’intervista, non
solo con interventi fatici. Gli argomenti sono prestabiliti ma bisogna essere malleabili a portare il
discorso anche dove vuole l’intervistato. I questionari possono essere liste di parole che si
chiedono di tradurre o parole inserite in cornici frasali. Ci sono questionari sociolinguistici,
domande sulle opinioni che hanno le persone relativamente all’uso del dialetto e dell’italiano.
www.soundcomparisons.com è uno studio a cui ha part